Giardini d'inverno
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Giardini d'inverno

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Giardini d'inverno

Informazioni su questo libro

Il giardino d'inverno è uno spazio tra la casa e l'esterno: lo si colma di piante verdi, melagrane sanguigne, vimini, fiori secchi. Fra odori e colori questo ambiente domestico, intimo, è protetto e protegge, attraverso vetrate invase dalla luce o tempestate dalla pioggia.Il giardino d'inverno è anche una condizione della mente, una galleria di cose vive, una zona dell'anima. Per Edoardo, che colleziona parole. Per Bianca, che entra nei quadri. Per Adele, che fotografa le ombre. Per il professore, che vuole una finestra sulla Senna...Personaggi di racconti che insieme a temi e atmosfere si rincorrono e ritrovano come in un piccolo romanzo o in una grande foto di piccoli scatti, in un'aerea metafisicità, avvertita come ragione di vita.

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Informazioni

Editore
Manni
Anno
2014
eBook ISBN
9788862666114

LA LINGUA DELLE COSE MUTE

Derrière les ennuis et les vastes chagrins
Qui chargent de leur poids l’existence brumeuse,
Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse
S’élancer vers les champs lumineux et sereins;
Celui dont les pensers, comme des alouettes,
Vers les cieux le matin prennent un libre essor,
– Qui plane sur la vie, et comprend sans effort
Le langage des fleurs et des choses muettes!
(Fortunato colui che può con ala vigorosa
Slanciarsi verso campi sereni e luminosi,
[abbandonando
i vasti affanni ed i dolori, peso gravante sopra la
[nebbiosa vita;
colui che lascia andare i suoi pensieri come le
[lodolette verso i cieli
nel mattino; colui che sulla vita plana e, sicuro,
intende la segreta lingua dei fiori e delle cose mute)
Charles Baudelaire, Elevazione da I fiori del male

La voce delle nubi

Lo sentiva anche quando non c’era.
Ogni volta che sembrava perduto, le bastava evocarlo con nostalgia e desiderio. E riusciva a dargli corpo quasi fosse un velo di cristallo, soffiando piano piano.
Dopo, avrebbe perfino potuto carezzarne la trasparenza senza timore di mandarla in frantumi. Facendo vibrare con l’unghia sconfinate sonorità.
Le ascoltava a lungo. Certa che l’avrebbero sorpresa, perché non ve n’era una uguale all’altra.
Giulia sapeva che, se la musica è ordita da innumerevoli combinazioni di note, lo stesso vale per il silenzio.
Lo vedeva, anche. Talvolta s’incantava a guardarlo, perché non c’è niente di più immaginifico di ciò ch’è ritenuto invisibile.
E si meravigliava di quanti aspetti potesse assumere ogniqualvolta veniva attraversato da impasti di sfumature, di forme, di odori.
In certi momenti ne avvertiva su di sé addirittura il tocco, il peso…
Del silenzio, sì, del silenzio.
Naturalmente, ne esistevano riserve nei luoghi aperti, dov’era facile, quasi scontato, sentirne il respiro solenne o leggero.
Un nevaio pavesato di luce – come un nudo maestoso e impassibile al cui cospetto anche un secolo sembra poca cosa, un battito nell’arco di un’era… – s’imponeva nella mente di Giulia come l’idea del silenzio assoluto. Intaccato unicamente dal sordo stridore di chi imprime solchi d’ombre, viola come lividi, nella neve.
Altra era, invece, la penombra trafitta da raggi e da deboli schianti d’un bosco. Altra ancora la calma sinistra d’una notte di nebbia, quando le auto vanno lente e alla cieca come uno scandaglio.
Giulia conosceva l’imbambolata sospensione del mattino di Capodanno e anche quell’ora assorta in cui, nella canicola della campagna, tutto è immobile e tace, come il fossile d’una bacca matura. E capiva che la loro natura non è identica.
Immaginava la paura silente nel coprifuoco d’una città assediata, sfidato dal ronzio d’un giocattolo a molla, così diversa da quella del cordoglio collettivo in tempo di pace messo presto in scacco dall’arrosto appena sfornato.
Riconosceva nella quiete polverosa dei cimiteri un’armatura di cui si ha fretta di spogliarsi, benché, una volta usciti, restino inevitabilmente addosso uno stormire di bisbigli e quell’esiziale fragranza di fiori che trabocca dal rame dei vasi.
Giulia rammentava che il raccoglimento delle chiese rimbomba e cigola; che quello dei chiostri ha rintocchi di passi concentrici attorno a capitelli fioriti, a pozzi muscosi da cui si vedono passare le nuvole come in un lucernario. La tranquillità d’una biblioteca, invece, le ricordava un labirinto vegetale dallo svolgersi infinito.
Giulia si figurava come possa essere torpidamente silente una plaga di cirri nei momenti di bonaccia e come, d’un tratto, prenda a rantolare a causa d’un nembo listato a tempesta. E si domandava quali eterni ansimi o rauchi gemiti possano sprigionare le gole delle atmosfere stellari. Ma era sicura che anche il più piccolo frutto maturo possiede un suo relativo fragore, nell’istante in cui spacca la buccia.
Le era impossibile, naturalmente, dimenticare la lingua muta delle cose. Anche se prestava più ascolto agli oggetti vecchi, ossidati, opachi. E ai vestiti usati, con odori di abitudini tra le pieghe.
Eppure, non trovava nulla di più variegato e multiforme del tacere degli esseri umani.
Bastava guardarle, certe reticenze, per capire molto di più di quanto avrebbe svelato un discorso.
Giulia le classificava e ogni categoria rivelava, a sua volta, gamme di tonalità.
Le riusciva facile intuire l’imbarazzo dietro le parole non dette. E poi la rabbia, l’invidia, la vocazione alla riservatezza o alla vacuità, la paura di verità che si conoscono o che non si vogliono ascoltare nemmeno da se stessi.
Sapeva che si resta muti perché soverchiati dalla gravità d’un dramma, o perché illusi di un’intima condivisione.
Ma più spesso tacere ha la natura d’un semplice preludio, d’un crepuscolo brumoso prima che l’alba esploda in gorgheggi. È quando si sta per dire qualcosa di definitivo, di cruciale e, immaginando che poi cambierà tutto, s’indugia sul confine tra un prima e un dopo. A volte, tuttavia, tacendo troppo a lungo si lascia marcire il momento, fecondando il terreno di rimpianti.
Ci sono silenzi che sospingono, beccheggiando, verso il sonno e altri che sono sabbia nelle lenzuola. Si possono amare sia le pause taciturne delle seduzioni sognate sia quelle del piacere appena goduto.
C’è l’ammutolire di chi intristisce all’improvviso, di chi rimesta pensieri morbosi, di chi si sente un’isola inospitale e non dice verbo, di chi ama le voci d’altri, di chi giudica senza esprimere, di chi avverte il peso delle parole, di chi lo lascia ai gesti o alla brace d’una sigaretta.
Capita di restare senza fiato per la sorpresa d’aver riconosciuto un luogo, un volto. O di sentire venir meno la voce quando la memoria non soccorre.
Di parlatori a vanvera è pieno il mondo, ma talvolta il pudore serra le labbra a chi, commosso davanti ad un verso cesellato come un gioiello, al dettaglio in secondo piano d’una tela, preferisce restare al limitare delle parole, come sulla riva d’un lago, per non incresparne con un suono inutile la nitidezza perfetta.
E poi c’è il silenzio che protegge i primi passi di un’idea che si fa strada e ha bisogno d’una solitudine luminosa e sincera come uno specchio.
Giulia, questo, lo preferiva tra tutti.
E anche quando si sedeva al piano continuava a sentirlo.

Il gemello muto

Non sapeva spiegare con precisione per quale motivo avesse iniziato. O forse lo sapeva bene, ma volutamente taceva. Da qualche tempo disertava la chiarezza e preferiva lasciare ad altri l’incombenza spugnosa delle spiegazioni.
Infatti, dopo le prime mostre, erano piovuti i commenti più diversi e contraddittori. Doppio, psiche, alter ego, tenebra, assenza, lato oscuro, anima, satanismo… un diluvio di simbologie.
C’era tutta una letteratura, del resto, da cui prendere a piene mani.
Adele sorrideva, silenziosa ed enigmatica.
Da quando erano diventate il suo soggetto d’elezione, ormai lei era “la fotografa delle ombre”.
A volte mormorava, come se le fosse sfuggito di bocca, che facevano parte delle materie prime del suo mestiere, allo stesso modo della luce. E tutti pensavano che a qualcosa dovesse pur alludere.
In quanto a lei, dapprima con un senso di sorda ribellione, poi con algida ironia, aveva imparato, suo malgrado, che poteva essere professionalmente stimolante giocare con quel risvolto inseparabile dai corpi, dalle cose.
Era oscuro, e l’oscurità può nascondere tutte le possibili interpretazioni, ogni significato e il suo opposto.
Oltretutto, erano belle in sé, le ombre. Leziose o sinistre, ebano, ardesia, indaco, grigiazzurre… uno spettro d’insospettabili sfumature.
Nel fulgore estivo uscivano stuccate, d’inverno come una tamponatura.
Torpide e grigie al mattino, a mezzogiorno diventavano brevi come un orlo scucito, poi al tramonto s’allungavano come uno strasci...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. COLLEZIONISMI
  3. ALTRIMONDI
  4. LA LINGUA DELLE COSE MUTE