
- 420 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il giorno in cui mori' il sole
Informazioni su questo libro
"Yan Lianke è uno di quei rari geni che, nelle assurdità tipiche della propria cultura, rivelano le assurdità che infettano tutte le culture. Il giorno in cui morì il sole è il libro più inquietante degli ultimi anni. Un campanello d'allarme sul percorso che stiamo seguendo."
Washington Post
Le pagine del romanzo di Yan Lianke scorrono intense e visionarie come accade sempre con questo scrittore, uno dei più dotati del panorama letterario cinese: come se raccontasse le sue storie sull'orlo di una faglia che dà il capogiro, mentre la dimensione realistica si intreccia con quella simbolica e la storia della Cina rurale in cui è cresciuto si affaccia sui presagi distopici e apocalittici della contemporaneità. Tutto avviene in un giorno lunghissimo sfinito dalla canicola, il sesto giorno del sesto mese del calendario lunare, che un delirio improvviso trasforma in una notte interminabile: nei villaggi dei Monti Funiu comincia a dilagare, al crepuscolo, un sonnambulismo contagioso, una veglia allucinata e fuori controllo in cui i desideri e i pensieri soppressi durante la disciplinata realtà del giorno prendono forma e guidano le azioni degli uomini, fino alle conseguenze più estreme. Il quattordicenne Li Niannian è il primo ad accorgersene e l'unico a non cadere in balia del fenomeno, mentre osserva tutto con una domanda in testa che si fa sempre più impellente: il sole spunterà di nuovo la mattina? Come potrà tornare la luce, dopo quella notte di vertigini in cui il mondo si è addentrato troppo in profondità nel sogno?
Domande frequenti
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Informazioni
Libro secondo
Seconda veglia, Parte prima: Gli uccelli svolazzano qua e là
1. (21:00-21:20)
Anche da noi, al Mondo Nuovo, il sonnambulismo aveva fatto la sua comparsa.
Mia madre camminava nel sonno.
L’avevo lasciata al negozio, china su se stessa e con la testa abbandonata di lato, davanti a lei una gran quantità di ritagli di carta multicolore sparsi sul pavimento. Forbici di varie dimensioni cadute fra le sue gambe e scivolate sul pavimento. Per strada tutto era come prima. La luna era chiara e luminosa. I lampioni mandavano una luce fangosa. Il giallo melmoso e la scintillante purezza della luce lunare si mescolavano in una cosa sola, come quando una bacinella di rigovernatura viene rovesciata dentro una di acqua limpida. Va a finire che anche l’acqua pulita diventa una sporca brodaglia.
C’era una calma assoluta, come di morte.
Come nella morte, la calma era assoluta.
Nel sussurro della notte appena sopraggiunta dopo il tramonto del sole si insinuava il ronfare di grossi maiali addormentati. Un rumore caldo e sudicio. Caldo e sudicio, denso e appiccicoso. E un odore di sudore. Che filtrava da ogni porta, da ogni fessura. Odori che si riversavano sulla strada e là si fondevano, formando l’odore di una notte d’estate.
Immersi nell’odore della notte estiva, alcuni dormivano ai lati delle vie. Alcuni bevevano tè e si facevano aria con ventagli di foglie di palma davanti alle soglie dei negozi. Alcuni avevano portato fuori di casa i ventilatori elettrici e li avevano installati sul marciapiede davanti alla porta, dove le pale roteavano con un rumore metallico di coltelli pronti a uccidere. Nell’aria mossa dalle lame tutti se ne stavano a chiacchierare, chi seduto, chi sdraiato. Le vie del paese erano quelle di sempre. Il mondo era quello di sempre.
Ma in realtà il mondo non era più come prima.
Il grande sonnambulismo era già cominciato. A poco a poco i suoi passi erano già penetrati nel nostro villaggio. Nel nostro paese. Il sonnambulismo invadeva cielo e terra con forza devastatrice, portando con sé dolore e caos. La gente non sapeva che esso già incombeva sulle loro teste come una nube e una disgrazia. Pensava di avere sopra di sé solo le nuvole fosche di una notte d’estate. Pensava che quella notte estiva fosse uguale a tutte le altre notti estive. Ero tornato al paese con una punta di solitudine e di abbandono nel cuore. Vedendo la quiete che regnava per le strade e udendo il respiro di chi russava nel sonno, anch’io pensai che il mondo fosse quello di sempre. L’unica differenza era che i sonnambuli erano più numerosi del solito. Osservai la Strada Orientale, la via più animata del paese, abbracciai con lo sguardo la vastità del cielo notturno. Nell’avvicinarmi al Mondo Nuovo, vidi che c’era una macchina parcheggiata davanti all’entrata. Scorsi il mio zio materno. Era in piedi nella bottega come un medico nella stanza di un malato.
“Siediti”.
Lo zio non fece caso a mio padre, si limitò a misurare con gli occhi l’intero negozio.
Era un uomo alto un metro e ottanta. Mio padre, un metro e cinquanta. Indossava una camicia di seta, di quelle che tanto piacevano ai ricchi ai tempi della Repubblica. Mio padre portava solo i pantaloncini ed era a torso nudo. Non era particolarmente magro, ma appariva tale accanto allo zio, come un alberello sotto una grossa pianta. Pareva il familiare di un paziente davanti a un dottore. Di fronte allo zio, era come il figlioletto di un malato di fronte al medico grande e grosso che è venuto a salvare suo padre. La mamma era ancora seduta là dove l’avevo lasciata addormentata. Ma adesso non pareva più che dormisse. Sedeva sullo sgabello dove, giorno dopo giorno, era solita ritagliare le decorazioni di carta. Lo sgabello aveva un cuscino di cotone unto e indurito dall’uso. L’espressione del suo viso non faceva venire in mente il mattone di un vecchio muro cittadino, ricordava piuttosto una pezza secca e sporca. Un vecchio foglio di giornale. Senza guardare nessuno, mormorava fra sé: “Quando uno muore, bisogna fare in modo di avere almeno una corona di fiori da deporre sulla sua tomba. O di averne anche più di una da deporre sulla tomba!” Così dicendo ritagliava la pila di carte che teneva in mano, come se, accovacciata per terra, stesse annaffiando con cura un vaso di fiori. Aveva già ritagliato molti fiori di carta, un mucchio di fiori. E anche una gran quantità di foglie di carta verde, un mucchio di foglie. Papà era in piedi accanto a lei. Sul pavimento giacevano striscioline di bambù, colla, gomitoli di spago e un coltellino. Taglia e taglia, si era addormentata. Mio padre disse allo zio: “Due volte l’ho svegliata e l’ho mandata a lavarsi la faccia, ma quando è tornata si è riaddormentata”. Si era addormentata mentre ritagliava. Dormendo, aveva continuato a ritagliare la carta che teneva in mano, con gli occhi semichiusi. Parlando senza sosta. Le mani in continuo movimento. Così papà aveva capito che la mamma era diventata sonnambula. Me ne resi conto anch’io. In quei giorni c’era stato un picco di morti. Gli articoli funerari andavano via come il pane e mia madre, per lo sfinimento, era piombata nel sonnambulismo.
Lo zio se ne stava là in piedi a contemplare la sorella minore, come un medico che osservi un malato affetto da una grave patologia. Quando girò la testa con espressione fredda e severa, i suoi occhi parvero scagliare due candelotti di ghiaccio che andarono ad abbattersi sul viso di mio padre.
Mio padre sorrise.
“Ultimamente hai avuto un bel daffare al crematorio, vero?”
Guardò di sottecchi lo zio, come se stesse dicendo a un medico che i sintomi della mamma erano quelli di un banale malessere e che quindi non c’era da preoccuparsi. Non c’era da preoccuparsi. Ma dimenticava che la mamma era la sorella minore dello zio. Lo zio non poteva sopportare di vedere sua sorella sfinirsi di fatica a furia di ritagliare carta. Perfino mentre dormiva, le sue mani non cessavano di ritagliare ghirlande di fiori.
“Porta una bacinella d’acqua fredda e falle lavare la faccia,” fece lo zio lanciando un’occhiata sprezzante a mio padre. Non era per nulla contento di lui. Nella stanza aleggiava un odore di colla di farina appena bollita. E l’odore di sudore caldo che emanava dal corpo seminudo di mio padre. Dopo un attimo di esitazione, lui prese un catino e andò a riempirlo d’acqua.
“Quando muore tanta gente si è costretti a fare del lavoro extra per preparare le corone di fiori per tutti,” disse voltandosi indietro a guardare lo zio.
Aveva un’aria sdegnosa, ma non osava esprimersi apertamente. Andò a sbattere con la bacinella contro l’angolo delle scale che bisogna aggirare per andare in cucina. Si udì un rumore metallico. Nel rumore risuonava un’eco di risentimento contro quel parente che osava ficcare il naso negli affari di casa sua. In quel momento, mia madre all’improvviso gettò uno sguardo allo zio, come se si fosse svegliata. Ma fu subito chiaro che era come se non avesse visto niente. Rimaneva tutta assorta nel suo lavoro di ritaglio. Il rumore delle forbici faceva pensare allo zillo delle cavallette su un giuggiolo in una notte d’estate. Lo zio continuava a fissare la mamma. Poi si accorse di me, come se si fosse accorto del bambino che aveva abbandonato il capezzale del familiare malato. Non era per nulla contento. Era pieno di risentimento. Aggrottò le sopracciglia, che avevano una forma obliqua e le estremità rivolte verso l’alto. Sferrò un calcio a uno sgabello che si trovava davanti a lui, tirando i muscoli delle labbra. Il suo viso si trasformò in un pezzo di ferro arrugginito.
“Bisogna portare via l’olio di cadavere.
“Niannian, tuo padre è occupato, anche tu devi dare una mano,” e mentre parlava lo zio distolse lo sguardo dalla mia faccia e lo posò sul romanzo di Yan Lianke che se ne stava appoggiato sullo sgabello vicino all’entrata, come se da quel libro si originassero tutti i mali del mondo. Pareva avesse una gran voglia di avvicinarsi al libro e di buttarlo fuori dalla porta con un calcio. O di dargli fuoco e farlo divorare dalle fiamme, quell’esemplare di Fugge il tempo della gioia.
Ma in quell’istante, di ritorno dalla cucina, accanto alla scala ricomparve mio padre. Teneva in mano una mezza bacinella d’acqua, dove era immerso un asciugamano. Cercò con gli occhi lo zio. Poggiò il catino vicino ai piedi della mamma, tuffò più volte l’asciugamano nel recipiente, lo tirò fuori e lo strizzò fino a farne uscire tutta l’acqua. Lo passò sul viso della mamma, come un infermiere che lavasse il viso di una morente.
“È fresco, ti darà uno scossone e ti sveglierà,” disse rivolto alla mamma. O forse parlando a se stesso. La delicatezza che usava con lei mi sbalordì.
Sapevo che parlava così solo perché lo zio lo sentisse. Difatti, lo zio stava ad ascoltarlo e lo osservava mentre lavava il viso di mia madre. Con l’asciugamano umido cercava di lavare via il sogno in cui era sprofondata. Mentre le carezzava il viso con la salvietta imbevuta di acqua fredda, le forbici che lei teneva in mano d’improvviso si fermarono a mezz’aria. E quando lui le passò la salvietta umida sul viso in senso orario, le forbici dalla mano caddero a terra.
Le frizionò un’altra volta il viso nella stessa direzione, e stavolta a cadere a terra fu la dozzina di fogli di carta che la mamma stringeva nella mano.
Mio padre tuffò nuovamente l’asciugamano nell’acqua. Di nuovo lo strizzò e quando lo passò sul viso della mamma, stavolta in senso antiorario, lei si destò dal suo sogno. Fu scossa da un fremito, come se qualcuno le avesse gettato in faccia una bacinella di acqua fredda. Proprio così. Sconcertata, scostò la mano del papà. Sbatté le palpebre. Guardò la stanza come se scoprisse un mondo nuovo che non aveva mai visto prima. Nel negozio faceva caldo. Caldo e secco. La fredda esalazione dell’acqua diffondeva nella stanza un tenue pigolio. Come se l’acqua fredda della bacinella fosse stata lentamente rovesciata in un pentolone di acqua bollente.
“Mi sono addormentata mentre ritagliavo, vero?” chiese la mamma. Ma forse parlava a se stessa, con grande convinzione. Poi: “Fratello, vieni qui,” chiamò. Lasciò cadere lo sguardo sul viso dello zio. “Siediti, è da un mese che non ti vedo”. Poi si voltò verso di me: “Niannian, svelto, porta uno sgabello a tuo zio!”
Andai a prendere uno sgabello e lo misi sotto il sedere dello zio.
Ma lui non lo guardò neppure.
“Sono venuto a dirvi di portare via al più presto l’olio di cadavere dal crematorio. Ce n’è un altro barile pieno”. Così dicendo lo zio si guardava attorno in tutte le direzioni. “Di soldi ne guadagnate abbastanza. Quando uno è stanco, deve andare a letto e dormire. Vale la pena di sfiancarsi così a forza di lavorare per qualche centesimo in più?” Lo zio considerava con disprezzo gli spiccioli che guadagnavamo vendendo corone di fiori e altri articoli funerari. Finito di parlare, si girò per andarsene quando si udì lo scoppiettio di una motocicletta provenire dalla strada.
Il rumore si fermò davanti all’entrata del nostro negozio.
Un volto scuro e molto giovane si affacciò sulla soglia. Vi erano dipinti allegria e stupore: “Ehi, il vostro dirimpettaio, Zhang Mutou5, è impazzito. Si è presentato a casa sua con una sbarra di ferro lunga sessanta centimetri, chissà dove l’ha presa, borbottando: ‘Guardate come lo ammazzo a bastonate! Guardate come lo ammazzo a bastonate!’ Arrivando a casa ha trovato guarda caso la moglie con quel tale Wang della fornace di mattoni a nord del paese, di ritorno dalla loro scappatella. Zhang Mutou ha colpito il direttore Wang con la sbarra di ferro e gli ha aperto il cranio con un colpo solo.
“Ma ditemi un po’ voi, come faceva Zhang Mutou a sapere che sua moglie e il direttore Wang erano tornati dalla loro fuga d’amore? Che tempismo! Erano appena entrati nel cortile di casa con il favore delle tenebre quando è arrivato lui con la sbarra di ferro, che pareva preparata giusto per l’occasione!
“Non si sa chi è andato a fargli la spiata. E pensare che quel Wang della fornace di mattoni è un tipo talmente arrogante! E invece appena ha messo piede in cortile gli è calata sulla testa una sbarra di ferro! Quel pallone gonfiato è cascato a terra nel cortile di Zhang Mutou come un sacco di cotone.
“Il direttore Wang viene da una delle famiglie più ricche del paese. La moglie dello scemo non è la prima donna che seduce. Quando è morto, il terreno si è coperto di sangue, come se fossero state sparse per terra decine di mazzetti di banconote rosse da cento yuan.
“La vista del sangue ha risvegliato Zhang Mutou. L’ha fatto tornare in sé, lasciandolo sbigottito. Perché in realtà quello scemo, porca puttana, aveva fatto tutto in sogno. Tutta quella violenza si era scatenata perché era sonnambulo, porca puttana! Non appena si è svegliato, è rimasto come paralizzato per terra ed è scoppiato a piangere e a singhiozzare: ‘Ho ucciso un uomo! Ho ucciso un uomo!’ Ed è ridiventato il pappamolle che è sempre stato”.
L’uomo in motocicletta parlava, rideva e gesticolava, con due occhietti da topo che spiavano dentro il negozio di articoli funerari luccicando come una coppia di perle.
“Lo sanno tutti che sono un lontano parente di Wang della fornace. Lui è un tipo spietato, ma noi siamo gente di buoni principi. Ora sto andando a informare la moglie del direttore che bisogna mandare qualcuno a casa dello scemo a prendere il corpo. Siamo persone di sentimenti e di principi. Essendo di strada mi sono fermato da voi per chiedervi di preparare un po’ di corone di fiori, decorazioni di carta e altri oggetti funerari per il direttore Wang. La sua è la famiglia più ricca del paese. Chiunque voglia costruirsi una casa deve andare da loro a comprare tegole e mattoni. Preparategli un bel corredo funebre. Se la sua famiglia non vuole tirar fuori i soldi, pagherò io. Dopotutto, sono un parente, no? Voglio comprare dieci o venti ghirlande di fiori da deporre sulla sua tomba”.
L’uomo sulla moto parlava velocissimo, come un torrente in piena. Gli occhi mandavano bagliori di gioia. Sul viso aveva dipinta una tale contentezza che si sarebbe detto che la moglie gli avesse finalmente partorito un figlio maschio. Con il corpo all’esterno del negozio e il capo infilato nel vano della porta, sembrava una lepre che metta fuori la testa dalla sua tana invernale per guardare lo spettacolo della primavera che gli sboccia intorno. Mentre stava per andarsene, lo sguardo gli cadde sulla faccia dello zio. Dapprima sorrise fra sé, poi il sorriso appena abbozzato si aprì come un fiore radioso.
“Direttore Shao, anche voi qui, che combinazione! Sono disposto a darvi la stessa somma pagata dalla famiglia del direttore Wang per la cremazione, se raccomanderete agli operai del crematorio di non bruciare il corpo fino a ridurre le ossa in cenere. Bisogna che dal forno escano le ossa delle gambe e del bacino. Saranno troppo lunghe per entrare nell’urna, quindi occorrerà farle a pezzi con un martello. Vi darò dell’altro denaro se farete in modo che il cranio non venga bruciato fino a ridursi in cenere. Anche il cranio andrà fatto a pezzi con un martello per farlo entrare nell’urna”.
Il viso affacciato alla porta, con la bocca che parlava e rideva, era luminoso come una tenera peonia baciata dal sole primaverile. Anche dopo che l’uomo ebbe finito di parlare e fu scomparso, l’eco di quelle risate indugiò per un pezzo nel vano della porta. Sentii un brivido di freddo, come se l’uomo della moto mi avesse gettato dritto in faccia una secchiata d’acqua. Si udì di nuovo lo scoppiettio del motore fuori sulla strada.
“Porca puttana!” inveì mio zio distogliendo lo sguardo dalla porta d’ingresso e rivolgendolo verso l’interno. Sembrava che avesse appena finito di assistere a uno spettacolo. Oppure che, camminando, avesse improvvisamente scorto ai suoi piedi il vomito dell’ubriacone del paese. Il mondo si fece di nuovo stranamente tranquillo. E una nuova folata d’aria fredda si riversò sul paese e sul mondo. Ma il mondo e l’infinita varietà delle creature si contrassero per trovare posto tutti insieme nel nostro negozio di articoli funerari.
“Vai a prendere quel barile di olio di cadavere, bisogna portarlo via stanotte. Domani ci saranno altre cremazioni e non ci sarà più posto per metterci quello nuovo. Bisogna assolutamente evitare che l’olio si accumuli nella camera di combustione”.
Detto questo, anche mio zio fece per andarsene.
Mentre usciva dal negozio, simile a un medico che si allontani dalla camera del malato dopo aver effettuato la visita, aggiunse: “Non bisogna sfinirsi di fatica per pochi spiccioli, al punto di continuare a ritagliare carta per fare corone di fiori anche nel sonno… Se vi mancano i soldi andate a prendere l’olio e vendetene un po’ di barili”.
Lasciato il negozio e giunto sulla strada, lo zio si girò ancora una volta. Si voltò indietro, poi se ne andò per davvero. Aprì la portiera e salì in macchina. Girò la chiave e accese il motore. I fari illuminarono il lato orientale della strada. Un istante prima di partire, abbassò il finestrino e sporse la testa per gettare un’occhiata a mio padre, che era uscito fuori ad accompagnarlo.
Ma mio padre, che era rimasto un attimo in piedi a guardare la macchina dello zio che si allontanava, esclamò: “Quando arriverà finalmente il momento di prepararti una corona di fiori!” Era un’affermazione, ma anche una domanda. L’aveva pronunciata con voce né bassa né alta. Quando si girò e mi vide alle sue spalle, trasalì, poi mi accarezzò la fronte e sorridendo rientrò.
Rientrò nella bottega.
2. (21:20-21:40)
O Buddha e bodhisattva… Co...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Nota dell’editore
- Frontespizio
- Copyright
- Prefazione: Lasciatemi parlare a cuore aperto!
- Libro primo: Prima veglia: Gli uccelli selvatici volano dentro la testa degli uomini
- Libro secondo: Seconda veglia, Parte prima: Gli uccelli svolazzano qua e là
- Libro terzo: Seconda veglia, Parte seconda: Là gli uccelli si costruiscono il nido
- Libro quarto: Terza veglia: Gli uccelli depongono le uova
- Libro quinto: Quarta veglia, Parte prima: Gli uccelli covano le uova
- Libro sesto: Quarta veglia, Parte seconda: Nel nido si schiudono le uova
- Libro settimo: Quinta veglia, Parte prima: Uccelli grandi e piccoli volano disordinatamente
- Libro ottavo: Quinta veglia, Parte seconda: Alcuni vivono e altri muoiono
- Libro nono: Dopo l’ultima veglia: Nella mente della notte tutti gli uccelli muoiono
- Libro decimo: Nessuna veglia: Un uccello vive ancora
- Libro undicesimo: Ascesa: L’ultimo grande uccello vola via
- Postfazione: Che altro dire?
- Indice