Processo a Pasolini
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Processo a Pasolini

Un poeta da sbranare

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Processo a Pasolini

Un poeta da sbranare

Informazioni su questo libro

La morte di Pasolini è un mistero tipicamente italiano. Umberto Apice, magistrato e narratore, intraprende una strada nuova per indagare le verità e le sfaccettature rimaste ancora nascoste. Lo fa partendo dall'accusa giudiziaria più surreale tra le tante che furono architettate contro lo scrittore-regista: l'imputazione di una tentata rapina a mano armata. Quel processo degli anni Sessanta viene usato nel libro come bussola per cercare, nella selva dei pervicaci fatti persecutori, una logica e una regia comuni. Un'indagine documentata e ragionata: il cui esito è un'ipotesi molto più che plausibile di un accanimento protrattosi per oltre quindici anni e programmato da ambienti caratterizzati da sottocultura omofoba e odio politico.

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Informazioni

Capitolo primo

1961 – 1968. Anatomia di un processo

La denuncia

30 novembre 1961. Il quotidiano romano «Il Tempo», foglio indipendente ma vicino alla destra, pubblica a piena pagina: «Denunciato per tentata rapina Pier Paolo Pasolini ai danni dell’addetto a un distributore di benzina». L’articolo è accompagnato da un fotogramma tratto dal film Il gobbo di Carlo Lizzani: Pier Paolo Pasolini attore ha un mitra in mano. Ha poco più di trentanove anni (essendo nato a Bologna il 5 marzo 1922) ed è un poeta, uno scrittore, un regista affermato: ha già pubblicato i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), la raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci (1957) gli ha fatto guadagnare un certo consenso di critica e lettori, ha diretto il film Accattone (1961). Suo malgrado è diventato un personaggio, un caso.
Eppure all’indomani del successo e delle polemiche seguite alla pubblicazione dei suoi due primi romanzi, Pasolini aveva detto: «Non voglio essere un caso letterario. Non voglio essere ridotto a un oggetto di pura attualità, di superficialità giornalistica. So benissimo che se questo viene tentato è a ragion veduta. Si portano in primo piano della mia opera solo gli aspetti secondari come quelli del linguaggio, o della crudezza che c’è nella mia verità. Un modo elegante per non indugiare invece sulla questione sociale, che è per me, nelle mie intenzioni d’artista, la più importante».
Si impone subito come un protagonista nel chiuso mondo provinciale delle lettere: il suo modo di intendere l’impegno è nuovo, rivoluzionario, investe le concezioni politiche, ma anche i rapporti personali; il suo modo di vivere non simulatamene l’omosessualità è coraggioso, virile, provocatorio; il suo progetto di voler costruire, alla maniera gramsciana, un romanzo nazional-popolare è ingenuo, ma anche ambizioso, sprezzante.12 Nel cinema propone una rilettura del neorealismo, indulgendo sui profili estetizzanti. Studia nel contempo marxismo e semiologia, spiritualismo e approccio sociologico. Sulla sua adesione al marxismo, adesione un po’ ingenua e un po’ sentimentale, ci teneva a precisare che egli era soprattutto antifascista, e che divenne marxista dopo la lettura del Manifesto di Marx e di Letteratura e vita nazionale di Gramsci. La sua adesione al marxismo, diceva, nasceva soprattutto da un sentimento di solidarietà con i poveri, i derelitti, i braccianti: «Amo adoperare questa terminologia “poveri” perché per molto tempo – per vent’anni dalla fine della guerra fino a pochi anni fa – si è fatta della retorica sulla classe operaia. S’è fatta questa distinzione: parlare di classe operaia significava essere comunisti ortodossi, diciamo così “perfetti”; parlare di poveri significava essere populisti. Ora io ho sempre parlato di poveri in realtà, e sono sempre stato accusato da sinistra di essere un populista, un umanitario».13
In poche parole: da ogni manifestazione del suo essere si espande una ricchezza di talento. Ma pochi lo accettano senza riserve. Erano gli anni in cui si affacciava il miracolo economico e il Paese era attraversato da sommovimenti profondi, che coinvolgevano economie e culture, soggetti sociali e immaginari collettivi.14 Erano gli anni in cui la sinistra diffidava di chi, pur professandosi di sinistra, osava lanciare critiche – come faceva Pasolini – al marxismo reale. In più, Pasolini era uno scrittore trasgressivo: come trasgressivi erano stati Oscar Wilde, Jean Genet, Édouard Manet e Marcel Duchamp; come lo sarebbero stati di lì a poco Andy Warhol e William Burroughs; come lo sono in genere tutti gli artisti che rendono inconsueto ciò che è familiare e che fanno diventare problematico ciò che la gente considera scontato. Se Manet, con Le déjeuner sur l’herbe o Olympia dipinse la nudità e non semplicemente un nudo, così Pasolini, con Ragazzi di vita e Accattone, descrive il degrado della condizione umana, non semplici storie di emarginati sociali. A rendere più intollerabile la sua trasgressione è il fatto che essa non si limita ai rapporti erotici, ma sconfina nella sfera dei rapporti economici e politici. La storia del pensiero e dell’arte dimostra che non è facile farsi amare per chi assesta colpi proibiti alle convenzioni e alle regole dominanti.15
Pasolini ha pochi amici anche tra i letterati e gli artisti: tra questi soprattutto Alberto Moravia, Elsa Morante, Laura Betti, ma anche Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Carlo Emilio Gadda, Renato Guttuso, Adriana Asti, Elsa De Giorgi; più tardi diventeranno suoi amici Enzo Siciliano, Dario Bellezza e alcuni scrittori appartenenti al gruppo dei collaboratori della rivista di cultura e politica «Nuovi Argomenti» fondata da Alberto Carocci. Gli altri (a destra, ma anche al centro e a sinistra) lo odiano e identificano in lui il simbolo della trasgressione, dell’alterità sessuale, dell’anticonformismo. Una cosa è certa: la figura pubblica di Pasolini suscita isterismo collettivo, fomenta idee paranoiche, ispira sentimenti di avversione e persecuzione.16
È vero: era in atto il miracolo economico, ma si avvertiva ugualmente, e drammaticamente, il gap tra condizioni sociali molto diverse, tra Nord e Sud, tra gruppi sociali eterogenei all’interno di aree metropolitane (il film Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti aveva affrontato la tematica dell’integrazione e dei conflitti generati dall’emigrazione interna). Malgrado le spinte riformistiche che cominciavano a percepirsi, c’era una «continuità dello Stato tra fascismo e postfascismo»,17 una continuità che influenzava fortemente le vicende italiane: negli apparati istituzionali permanevano vischiosamente gerarchie burocratiche e concezioni storicamente superate. Accanto a uno sviluppo economico prepotente convivevano, insomma, modelli molteplici e contrapposti, diversi modi di essere italiani, «istituzioni impastate di burocrazia, di incultura, di autoritarismo».18 Alla Mostra del Cinema di Venezia, nell’autunno del 1961, Ermanno Olmi presentava Il posto, dove affioravano il disincanto e la critica a una società che ancora credeva nel mito del boom nonostante i chiari segni del preannunciarsi della congiuntura. Sarà sempre più inevitabile prendere atto che, a dispetto dei tumultuosi avvenimenti del vivere civile, la spinta al riformismo produrrà frutti molto scarsi e subentrerà un periodo di sterile immobilismo e di «tempo irresponsabilmente sciupato».19 Quello che resterà del boom sarà una certa «laicizzazione edonista», di cui qualche anno dopo (1966) rappresenterà al cinema un quadro efficace e beffardo Pietro Germi nel film Signore & signori.
Pasolini era, suo malgrado, un «esperto» in processi, avendone subiti molti e dovendone subire molti altri. Conosceva quel rito misterioso in cui il diritto mette se stesso in scena, in una sorta di grande teatro tragico dove vengono rappresentati i dissidi, grandi e piccoli, della vita pubblica e privata degli uomini. Rappresentazione metafisica e realistica insieme: rappresentazione in cui l’astrazione si sforza di diventare concretezza. C’è da presumere che quest’aspetto del processo, di ogni processo, non sfuggisse a Pasolini, che era voracemente innamorato della realtà ed era attratto particolarmente da ogni esperienza che permettesse di fotografare l’Italia. Infatti, si presentava quasi sempre alle udienze che lo riguardavano: voleva osservare da vicino quel meccanismo perverso e metaforico che è il processo penale.
Il destino volle poi che, poco prima della sua morte, un suo scritto che provocò molte discussioni fosse un articolo di giornale intitolato Bisognerebbe processare i gerarchi Dc,20 dove, all’indomani della clamorosa sconfitta elettorale del partito che aveva governato l’Italia per trent’anni, Pasolini affacciava l’ipotesi che fosse necessario mettere sotto processo (metaforico ed etico, prima che politico o giudiziario) tutti i vertici della Dc, con l’indicazione precisa dei nomi, da Antonio Gava a Franco Restivo («ammanettati» in un’immagine metaforica): soltanto un processo potrebbe affermare «una verità storica inconfutabile, tale da determinare nel paese una nuova volontà politica»; soltanto un processo potrebbe sancire che «è finita un’epoca, appunto, “millenaria” di un certo potere (...); renderebbe chiaro – folgorante, definitivo – che governare e amministrare bene non significa più governare e amministrare bene in relazione al vecchio potere bensì in relazione al nuovo potere».21
La notizia di stampa sul tentativo di rapina non è, come potrebbe sembrare, inventata di sana pianta (come invece è il fotogramma col mitra, essendoci di vero solo il fatto che Pasolini, nella veste di attore, aveva partecipato a un film di Carlo Lizzani): infatti la notizia riporta una denuncia vera (nel senso che era stata realmente, effettivamente presentata), che darà luogo a un lungo processo, la cui conclusione arriverà molti anni dopo e sarà un’assoluzione per insufficienza di prove. Ma in primo grado il Tribunale condannò Pasolini, sia pure «derubricando» il reato commesso da tentata rapina a minaccia con arma. Ed è questa la decisione che è rimasta nell’immaginario collettivo; chi di quella vicenda ricorda qualcosa è solo questo che racconta: Pasolini simulò una rapina per provare l’emozione di un gesto criminale e per poterla poi trasferire in un suo romanzo o film. La struttura della memoria umana è fatta in modo che ci si rammenta di ciò che fa notizia, di ciò che contiene una maggiore carica mediatica.
Insomma, Pasolini si ritrovò imputato di tentata rapina aggravata, porto abusivo di una pistola e omessa denunzia della stessa pistola. Come accade? Tutto ha inizio da un racconto che un certo Benedetto De Santis il giorno 18 novembre 1961 va a fare al comandante della Stazione dei carabinieri di San Felice Circeo. Benedetto dice di riferire quanto poco prima appreso dal fratello Bernardino, la parte lesa del tentativo di rapina, e lo stesso Bernardino, poco più tardi, «ancora in stato di sgomento», conferma «con gli stessi particolari» l’episodio già riferito da Benedetto.
Quale sia stato l’episodio delittuoso di cui il giovane Bernardino sarebbe stato vittima lo apprendiamo dalla narrativa dei fatti con cui si apre la sentenza (di condanna) di primo grado: «Il 18 novembre 1961, De Santis Benedetto, ritornando nel pubblico esercizio di bar e trattoria da lui gestito nella contrada Mezzanotte del Comune di San Felice Circeo, trovò, pallido e in preda a...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Prologo
  3. Capitolo primo
  4. 1961 – 1968. Anatomia di un processo
  5. Capitolo secondo
  6. Capitolo terzo
  7. Indice dei nomi
  8. Le storie