1.LA CENTRALITÀ DELLE NASCITE
Una svolta in sede politica nell’attenzione per la questione delle nascite come quella determinatasi in Italia – precocemente rispetto agli altri paesi e con una centralità senza riscontro altrove, col duce impegnato in prima persona con la pregnanza di cui abbiamo parlato – ebbe fortissimi riflessi, come è facile immaginare, nel campo degli studi. L’argomento nascite non era mai figurato in Italia fra gli oggetti principali della ricerca in tema di popolazione, ricerca che fino ad allora si era occupata piuttosto di morti e di migrazioni estere (com’era ovvio in un paese dalle caratteristiche demografiche dell’Italia e in cui poco avevano circolato le idee malthusiane). D’un tratto, fu tutto un trascurare le antiche attenzioni e un precipitarsi a studiare le nascite. Fu profondo mutamento.
Le grandi riviste economiche cominciarono a dedicare crescente spazio all’argomento; numerosissimi i libri, gli opuscoli, gli articoli usciti su periodici di ogni genere e sulla stampa quotidiana. Sul tema specifico delle nascite concentrarono l’attenzione congressi e riunioni scientifiche; nascite e natalità ebbero la parte del leone nelle nuove riviste che proprio in quegli anni venivano fondate per studiare i problemi della popolazione. Di questo fiorire d’interesse si ha un’impressione concreta e pregnante scorrendo i cataloghi di due biblioteche romane, la Nazionale e l’Alessandrina, e dei due fondi librari più forniti in materia di ricerche sulla popolazione, quello del Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione (Cisp) di Roma e il cosiddetto fondo Pagliari 1 della biblioteca dell’Università Bocconi di Milano: per il periodo che va dalla metà degli anni venti a tutti gli anni trenta le schede alle voci «nascite», «fertilità», «prole» sono enormemente più numerose non solo rispetto alle poche del periodo precedente la guerra, ma anche rispetto a quelle relative alle altre tematiche demografiche. Una più puntuale verifica di questo palese squilibrio degli studi consente la lettura della bibliografia delle opere demografiche in lingua italiana pubblicata anni fa da Antonio Golini 2.
Nascite e ancora nascite. Tra i temi demografici questo soprattutto si studiava. Come, attraverso quali ‘lenti’, con quali criteri venivano analizzate le nascite nell’Italia del tempo? In altri termini, che cosa se ne sapeva? Con quali conoscenze, con quale cultura demografica si misurava la politica nell’impostare le proprie scelte e decisioni? E che rapporto intercorse, più ampiamente, tra il regime così fortemente impegnato sul terreno della politica demografica e i cultori di discipline demografiche? Cercare di rispondere a queste domande conduce a mettere a fuoco alcuni dei termini fondamentali della questione delle nascite come essa si poneva nell’Italia fascista.
2.NUOVI DATI E STATISTICHE DI BASE
Difficile non iniziare, parlando di studi sulla natalità, da un primo argomento: dalla statistica delle nascite e in particolare dai notevolissimi progressi compiuti in quegli anni nel fondamentale settore della raccolta dei cosiddetti «dati originali», i dati messi a disposizione in ogni paese dagli enti delegati alla raccolta statistica e la cui qualità costituisce la garanzia della serietà degli studi.
Fu per precisa volontà del presidente dell’Istat Corrado Gini che l’intero settore della statistica demografica venne posto al centro dell’attività dell’ente. Nella solenne seduta inaugurale dell’Istituto, nel 1926, Gini parlò con chiarezza e sostenne che il compito più importante dell’Ufficio studi dell’Istat dovesse essere quello di studiare le tendenze dello sviluppo demografico, «fattore principalissimo, come il Capo del Governo non cessa di richiamare all’attenzione della Nazione, per la saldezza economica e militare della Patria» 3. Le indicazioni del duce e la persuasione che «la razza bianca, o per lo meno quella parte della razza bianca che ha dato origine all’attuale civiltà occidentale», si trovasse ad una svolta decisiva nella storia, vicina o vicinissima ad un processo di progressiva decadenza, giustificavano agli occhi di Gini l’attenzione specifica da parte del massimo organo della statistica agli studi demografici e sulla natalità. Per fare conoscere le iniziative dell’Istat in questo campo ad un pubblico che si voleva vasto – di studiosi ma ancor più di funzionari e amministratori degli organi periferici dello Stato – venne dato avvio ad un nuovo periodico dai caratteri parzialmente divulgativi, il «Notiziario demografico», uscito col suo primo numero nel 1928, «rassegna bimensile di dati e notizie sulle popolazioni dell’Italia e degli altri paesi», come dettava il sottotitolo, strumento prezioso di informazione 4.
Accanto alle rilevazioni e alle elaborazioni tradizionali – il numero delle nascite anno per anno, il numero delle nascite divise per compartimento, per regione, per comune, i tassi di natalità –, tra la fine degli anni venti e i primissimi anni trenta vennero messi a disposizione degli studiosi dati che aprivano possibilità di lettura del fenomeno delle nascite prima impensabili, permettendo, come spiegava con chiarezza Libero Lenti, «di passare dal grossolano rapporto tra nati e popolazione a rapporti specifici atti a porre a confronto i nati proprio con quelle frazioni della popolazione femminile dalle quali essi derivano» 5. Per la prima volta nel 1927 6, infatti, e poi dal 1930 in maniera continuativa, l’Istat cominciò a rilevare i dati riguardanti i nati legittimi classificandoli secondo l’età della madre e il cosiddetto ordine di generazione dei nati 7.
I nuovi dati suscitarono subito molto interesse tra studiosi e specialisti. Si trattava di un «materiale grezzo», scriveva ancora Libero Lenti che tanto avrebbe lavorato su di essi, utile «per interessanti elaborazioni intese ad illustrare il problema italiano della natalità da un punto di vista che, per quanto mi consta, ritengo nuovo negli studi di demografia» 8. La statistica italiana si veniva, così, ad allineare alle classificazioni già in uso da qualche anno in altri paesi 9. In una fase, è stato osservato, in cui era ancora fortemente diffusa tra i demografi di tutto il mondo la persuasione che la fertilità fosse un fenomeno determinato ampiamente da fattori biologici, rilevazioni che permettessero agli studiosi di conoscere il numero dei nati ripartiti secondo la «circostanza» dell’età della madre al parto, di poter, quindi, determinare la fecondità legittima per singoli gruppi di età, rappresentavano un grande passo avanti 10. Sulla base di questi dati, i maggiori studiosi del tempo tentarono vie diverse per arrivare alla determinazione di un metodo di analisi della fecondità matrimoniale. Su questo argomento si svilupparono insieme un vivace dibattito e dure polemiche, protagonisti i due grandi studiosi Corrado Gini e Giorgio Mortara 11, il quale ultimo riprendeva allora con grande vigore gli interessi per la statistica della popolazione coltivati con passione negli studi giovanili 12. Di grande rilievo le ricerche di Marcello Boldrini condotte nel laboratorio di statistica dell’Università Cattolica di Milano da lui diretto 13.
Nuovi dati sulle nascite offriva poi l’indagine sulla fecondità della donna italiana, ideata e voluta anch’essa da Gini ed acclusa al VII censimento generale della popolazione, quello del 1931 14. Indagine unica nel suo genere e che sarebbe stata ripetuta solo molti anni più tardi, in occasione del censimento del 1961. Si trattava della «prima grande indagine demografica dell’Era Fascista», come ebbe a scrivere Franco Savorgnan, succeduto a Gini nella direzione dell’Istat 15; della «prima indagine completa sulla fecondità in Italia», secondo quando ha affermato in anni recenti Massimo Livi Bacci nel suo fondamentale studio sulla storia della fecondità nel nostro paese 16.
Le donne coniugate – solo ad esse e non alle madri nubili si rivolgeva l’indagine «sia per evidenti ragioni di opportunità sia perché l’apporto che le nubili danno alla natalità è molto esiguo» 17 – dovevano rispondere a una serie di domande «formulate per la prima volta in Italia» 18: anni compiuti fino al matrimonio, numero complessivo dei figli avuti, numero di figli viventi al momento del censimento; esse dovevano infine dichiarare se avevano contratto più di un matrimonio. I dati dell’indagine per se stessi, o uniti a quelli normalmente richiesti nel foglio di famiglia, ovvero alla data di nascita delle donne censite, offrivano una notevole massa di informazioni. Essi permettevano di «calcolare con qualche approssimazione alcune importanti misure della fecondità come la produttività e la prolificità matrimoniale e i tassi di fecondità secondo la durata del matrimonio e l’età della donna al matrimonio» 19. In particolare appaiono importanti le tabelle sulla fecondità della donna italiana secondo l’età al censimento e secondo il numero dei figli avuti nel regno e nelle diverse circoscrizioni territoriali (nei compartimenti, nel complesso dei comuni con più di centomila abitanti, nelle città maggiori, Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova). Di grande interesse sono poi le tabelle sulla fecondità delle donne in relazione alla condizione sociale nella quale esse venivano a trovarsi per effetto del matrimonio. Le donne coniugate vennero ripartite in sette «strati» sociali secondo il mestiere del marito (addetti all’agricoltura, giornalieri di campagna, operai, personale di servizio e di fatica, impiegati, ufficiali e forze armate, professioni e arti libere, condizioni non professionali). Il modello era quello della grande inchiesta inglese degli anni dieci del secolo che tanta eco aveva suscitato tra gli osservatori contemporanei.
Infine, sempre a proposito di dati di base, ora per la prima volta e per alcuni anni, l’Istat raccolse le statistiche del movimento demografico ripartendole secondo l’accentramento, ossia «distintamente per i comuni aventi un centro di popolazione di almeno 10.000 abitanti al censimento del 1921 e per i restanti comuni» 20. Tutt’uno con l’indirizzo natalista stava prendendo avvio la politica del regime contro la città e l’urbanesimo; l’unione tra le due politiche, come sappiamo, era stata ben evidenziata nel discorso dell’Ascensione in quei passi in cui veniva ribadita l’antica tesi secondo la quale urbanizzandosi la popolazione entrava nella china della denatalità. Nel 1927 era stata emanata la prima legge contro l’urbanesimo, che limitava la possibilità di installare stabilimenti industriali nei centri aventi più di un certo numero di abitanti; l’anno successivo un’altra legge dava facoltà ai prefetti di limitare l’eccessivo aumento della popolazione residente nelle città 21. Si comprende come i nuovi dati statistici, che consentivano di disegnare con precisione maggiore rispetto al passato contorni e caratteri del nesso fra urbanesimo e natalità, suscitassero molto interesse tra gli studiosi (anche se presto non sarebbero più stati raccolti 22). Più tardi, alla fine degli anni trenta, per impulso di Livio Livi e del suo Comitato per gli studi sulla popolazione, che aveva anche compiti di ‘raccolta’ statistica, vennero raccolti dati che mettevano a confronto gli andamenti della natalità rurale e urbana 23.