La ribellione delle masse
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Informazioni su questo libro

Contro l'omologazione, viva la singolarità!
La ribellione delle masse, il saggio che rese noto l'autore spagnolo in tutta Europa, abbozzava fin dal 1930 una morfologia della società moderna, tratteggiandone e prevedendone aspetti e manifestazioni, esiti e conseguenze che solamente dopo la catastrofe del secondo conflitto mondiale si sarebbero realizzati, sviluppati ed ingigantiti in tutta la loro drammaticità.
OyG aveva, tra i primi, posto in guardia contro i pericoli di omologazione che stava correndo l'uomo contemporaneo coll'irrompere delle masse sulla scena della storia: "La massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia come 'tutto il mondo', chi non pensi come 'tutto il mondo' corre il rischio di essere eliminato. Ed è chiaro che questo 'tutto il mondo' non è 'tutto il mondo'. 'Tutto il mondo' era normalmente l'unità complessa di massa e minoranze discrepanti, speciali. Adesso 'tutto il mondo' è soltanto la massa".
L'uomo massa di OyG, infatti, come ce lo descrive, è proprio il nostro contemporaneo, il nostro vicino di casa, il parlamentare da noi eletto, l'uomo di scienza che va per la maggiore, noi stessi.
L'uomo contemporaneo, cioè, è come un bambino viziato dalla storia dell'umanità, dalla quale ha ereditato le comodità, la sicurezza, tutti i vantaggi della civiltà, senza correre pericoli, soprattutto, senza avere un suo progetto di vita che dia significato alla propria esistenza.
Già nel 1930, OyG credeva molto all'Europa e a un suo disegno unitario. Ed proprio all'uomo europeo non resterà altro che lanciarsi nell'avventura della costruzione di una grande impresa, perché l'Europa torni a credere in se stessa, nel proprio destino e nel proprio futuro.
L'autore: nato a Madrid il 9 maggio 1883, ha studiato filosofia a Lipsia, Berlino e Marburgo, ottenendo nella capitale spagnola la cattedra di metafisica.
Si era fatto conoscere subito con uno studio su Cervantes, Meditaciones del Quijote ed iniziò a collaborare al quotidiano El sol, sul quale apparvero i vari capitoli di España invertebrada e de La redencion de las provincias (1927?1928). Nel luglio 1923 fondava e dirigeva la Rivista de Occidente, che insieme alla Biblioteca de ideas del siglo XX avrebbe messo in circolazione e fatto conoscere al grande pubblico spagnolo le opere più significative del pensiero contemporaneo. Pur restando al di fuori dello scontro fratricida che insanguinò la sua nazione, Ortega y Gasset dovette subire il carcere e fu costretto all'esilio, a cui pose termine alla fine dell'ultima guerra mondiale, riprendendo la sua attività di ricerca e di studio, che durerà fino alla sua scomparsa avvenuta a Madrid nel 1955. Sarebbe molto lungo enumerare tutti i suoi saggi e le sue pubblicazioni, ci limiteremo, perciò a citarne solamente alcuni tra i più importanti che potrebbero interessare in questa sede: El tema de nuestro tiempo, Mirabeau o el politico, Kant, Historia como sistema, Del imperio romano.

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In quanto al pacifismo

Da vent’anni l’Inghilterra{138} - il suo governo e la sua opinione pubblica - si è imbarcata nel pacifismo. Commettiamo l’errore di designare con questo nome unico atteggiamenti molto differenti, tanto differenti che nella pratica risultano frequentemente antagonistici. Ci sono, in effetti, molte forme di pacifismo. L’unica cosa che tra esse v’è di comune è una cosa molto vaga: la credenza che la guerra è un male e l’aspirazione ad eliminarla come mezzo di relazione tra gli uomini. Però i pacifisti cominciano a divergere non appena fanno il passo successivo e si chiedono fino a che punto è possibile in assoluto la scomparsa delle guerre. Infine: la divergenza si fa superlativa quando si mettono a pensare ai mezzi che esige una instaurazione della pace su questo pugnacissimo globo terracqueo. Forse sarebbe molto più utile di quanto si sospetti uno studio completo sulle diverse forme di pacifismo. Da esso emergerebbe non poca chiarezza. Però è evidente che non mi pertiene ora né in questa sede fare questo studio nel quale resterebbe definito con una certa precisione il peculiare pacifismo con cui l’Inghilterra - il suo governo e la sua opinione pubblica - si imbarcò vent’anni or sono.
Ma d’altra parte, la realtà attuale ci facilita disgraziatamente il compito. È un fatto troppo manifesto che questo pacifismo inglese è fallito. Il che significa che questo pacifismo fu un errore. Il fallimento è stato così grande, così totale che uno avrebbe il diritto di riesaminare radicalmente la questione e di chiedersi se non è un errore ogni pacifismo. Però io preferisco ora di adattarmi quanto posso al punto di vista inglese, e assumerò che la sua aspirazione alla pace del mondo era un’eccellente aspirazione. Ma ciò tanto più sottolinea quanto vi è stato di erroneo nel resto, cioè, nella valutazione delle possibilità di pace che il mondo attuale offriva e nella determinazione della condotta che deve seguire chi pretenda di essere effettivamente pacifista.
Nel dir questo non suggerisco nulla che possa indurre allo scoraggiamento. Tutto il contrario. Perché scoraggiarsi? Forse le due uniche cose a cui l’uomo non ha diritto sono l’arroganza e il suo opposto, lo scoraggiamento. Non v’è mai ragione sufficiente né per l’una né per l’altro. Basti avvertire lo strano mistero della condizione umana consistente nel fatto che una situazione tanto negativa e di sconfitta come è quella di aver commesso un errore, si volge magicamente in nuova vittoria per l’uomo non appena l’ha riconosciuto. Il riconoscimento di un errore è per se stesso una nuova verità e come una luce che in esso si accende.
Al contrario di quanto credono i piagnucoloni, ogni errore è come un acquisto che accresce il nostro avere. Invece di piangere su di esso conviene affrettarsi a trarne profitto. A tal fine è necessario che ci risolviamo a studiarlo a fondo, a mettere allo scoperto senza pietà le sue radici e a costruire energicamente la nuova concezione delle cose che esso ci fornisce. Io suppongo che gli inglesi si dispongono ormai, serenamente, ma con decisione, a rettificare l’enorme errore che nel corso di vent’anni è stato il loro peculiare pacifismo e a sostituirlo con l’altro pacifismo più perspicace e più efficiente.
Come quasi sempre accade, il difetto maggiore del pacifismo inglese - e in generale di quello di coloro che si presentano come titolari del pacifismo - è stato quello di sottovalutare il nemico. Questa sottovalutazione ispirò loro una falsa diagnosi. Il pacifista vede nella guerra un danno, un crimine o una perversione. Però dimentica che prima di ciò, e al di sopra di ciò, la guerra è un enorme sforzo che gli uomini compiono per risolvere certi conflitti. La guerra non è un istinto, bensì un’invenzione. Gli animali la ignorano ed è pura intuizione umana, come la scienza o l’amministrazione. Essa portò ad una tra le maggiori scoperte, base di ogni civiltà: la scoperta della disciplina. Tutte le altre forme di disciplina procedono da quella primigenia, la quale fu la disciplina militare. Il pacifismo è perduto e si trasforma in inetta ipocrisia se non tiene presente che la guerra è una geniale e formidabile tecnica di vita e per la vita.
Come ogni forma storica, la guerra ha due aspetti: quello dell’ora della sua invenzione e quello dell’ora del suo superamento. Nell’ora della sua invenzione significò un progresso incalcolabile. Oggi, quando si aspira a superarla, vediamo in essa soltanto l’altra faccia turpe, il suo orrore, la sua asprezza, la sua inadeguatezza. Allo stesso modo siamo soliti, senza altra riflessione, sparlare della schiavitù, non avvertendo il meraviglioso passo avanti che rappresentò quando fu inventata. Perché prima quel che si faceva era ammazzare tutti i vinti. Fu un genio benefattore dell’umanità il primo che ebbe l’idea di conservare ai prigionieri la vita e di utilizzare il loro lavoro invece di ucciderli. Auguste Comte, che aveva un grande senso dell’uomo, cioè a dire, senso storico, vide già in questo modo l’istituzione della schiavitù - liberandosi delle sciocchezze che su di essa dice Rousseau - e a noi spetta generalizzare la sua avvertenza, imparando a guardare tutte le cose umane sotto questa doppia prospettiva, cioè: sotto l’aspetto che hanno nel giungere e sotto l’aspetto che hanno nell’andarsene. I romani, molto finemente, incaricarono due divinità di consacrare codesti due istanti - Adeona e Abeona, il dio dell’arrivare e il dio dell’andarsene.
Disconoscendo tutto ciò, che è elementare, il pacifismo si è reso il suo compito troppo facile. Pensò che per eliminare la guerra era sufficiente non farla, o, al massimo, lavorare affinché non si facesse. Siccome vedeva in essa soltanto una escrescenza superflua e morbosa apparsa nel modo d’essere umano, credette che bastava estirparla e che “non era necessario sostituirla”. Ma l’enorme sforzo che è la guerra si può evitare soltanto se si intende per pace uno sforzo ancora maggiore, un sistema di sforzi complicatissimi e che, in parte, richiedono l’intervento fortuito del genio. L’altra interpretazione è un puro errore. Significa interpretare la pace come il semplice vuoto che la guerra lascerebbe se scomparisse; pertanto, significa ignorare che se la guerra è una cosa che si fa, anche la pace è una cosa che bisogna fare, che bisogna fabbricare ponendo nell’impresa tutte le energie umane. La pace non «sta qui», semplicemente, pronta senz’altro affinché l’uomo la goda. La pace non è frutto spontaneo di alcun albero. Niente di importante è regalato all’uomo; anzi, deve egli farselo, costruirlo. Perciò, la denominazione che più chiaramente indica la nostra specie è quella di specie dell’”homo faber”».
Se si considera tutto ciò non sembrerà sorprendente la credenza in cui si adagiata l’Inghilterra secondo cui il massimo che poteva fare in pro della pace era disarmare, un fare che si assomiglia tanto ad un puro omettere? Questa credenza risulta incomprensibile se non ci si rende conto dell’errore di diagnosi che le serve da base, cioè: l’idea secondo cui la guerra procede semplicemente dalle passioni degli uomini e per cui se le si reprimono, la tendenza alla guerra resterà asfissiata. Per vedere con chiarezza la questione facciamo quel che faceva Lord Kelvin per risolvere i suoi problemi di fisica: costruiamoci un modello “immaginario”. Immaginiamo, infatti, che in un certo momento tutti gli uomini rinuncino alla guerra, come l’Inghilterra, da parte sua ha tentato di fare. Si crede che sarebbe bastato ciò, ancor di più, che con ciò si sarebbe fatto il più breve passo efficace in direzione della pace? Grande errore! La guerra, ripetiamo, era un mezzo che avevano inventato gli uomini per regolare certi conflitti. La rinuncia alla guerra non sopprime questi conflitti. Al contrario, li lascia più intatti e meno risolti che mai. L’assenza di passioni, la volontà pacifica di tutti gli uomini risulterebbero completamente inefficaci, perché i conflitti reclamerebbero soluzione, e, “fino a quando non si inventasse un altro mezzo”, la guerra riapparirebbe inesorabilmente in questo pianeta immaginario abitato soltanto da pacifisti. Non è, quindi, la volontà di pace quel che importa infine nel pacifismo. È necessario che questo vocabolo smetta di significare una buona intenzione e rappresenti un sistema di nuovi mezzi di relazione fra gli uomini. Non si speri su questo piano niente di fertile finché il pacifismo dall’essere un gratuito e comodo desiderio, non passi ad essere un difficile insieme di nuove tecniche. L’enorme danno che quel pacifismo ha a...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Prologo per i francesi
  3. Parte prima
  4. La ribellione delle masse
  5. Parte seconda
  6. Chi comanda nel mondo?
  7. Epilogo per gli inglesi
  8. In quanto al pacifismo