Voglio sapere chi è mio marito, dice mamma all’uomo in giacca e cravatta al di là della scrivania. Si sente una cretina, una totale cretina, abbassa lo sguardo, non lo racconterà a nessuno di essere andata dall’investigatore, sarà il suo segreto, promette a sé stessa Francesca Fabiani (1939-2012). Del resto, da quando ha sposato Lorenzo Ciabatti, è stato tutto un accumularsi di segreti, quelli che oggi vuole scoprire. Il sequestro, per esempio. Con la mente torna e ritorna laggiù, di nuovo in piscina, rivede scendere dalle scale del giardino lo sconosciuto. Di giorno e di notte, nei ricordi e nei sogni, mio padre le mette una mano sul braccio, e si raccomanda di non chiamare nessuno, lui torna presto.
Quante volte nella testa di mia madre si è ripetuta la stessa scena, con finali diversi: papà fugge, papà dice che è uno scherzo, papà va con l’uomo e non torna più, l’uomo spara, papà muore. Noi orfani.
Ha rimesso insieme i pezzi, ragionato sui dettagli – tono di voce dell’uomo, reazione di Renzo, com’era? Spaventato, stupito o per nulla sorpreso? Mille volte mia madre ha rivissuto gli attimi successivi all’evento, li ha rallentati, portati indietro, e di nuovo avanti. Ha analizzato il dopo, come si è comportata, forse ha sbagliato, doveva fuggire allora, era quello il momento.
Dopo che papà e l’uomo se ne vanno, dopo che sente il motore dell’auto allontanarsi, lei si precipita in casa. È nel panico, ma non vuole spaventarci. Va al telefono della cucina. Papà ha detto di non chiamare nessuno, perché? Umberto, per primo lei chiamerà Umberto, sfoglia la rubrica, tremano le mani, C, Ciabatti, Umberto Ciabatti. Alza la cornetta, compone il numero. Silenzio. Riaggancia, rialza, nessun segnale. Abbassa e rialza, abbassa e rialza. Telefono isolato. Loro sapevano che ci avrebbe provato. L’avevano previsto. Ha paura, mamma, sempre più paura, se fosse sola sarebbe diverso, ma ci siamo noi, e deve salvarci. Torna in piscina, ci dice di uscire dall’acqua, e di andare giù, sbrigatevi.
Giù dove?
Il bunker io l’ho visto solo da fuori. Dentro immaginavo topi, serpenti, scorpioni, mi fermavo all’entrata, infilavo la testa, papà fai presto, dicevo a mio padre sparito nel buio per prendere qualcosa, di lui sentivo i movimenti, o forse erano topi serpenti scorpioni. Papà, chiamavo di nuovo. Che c’è? Dall’oscurità. Ci sei?
Per riuscire a addormentarmi, la notte, dovevo dimenticarmi che là sotto c’era lo spazio vuoto. Se me ne ricordavo, si animavano figure, figure di uomini nascosti, uomini che ci spiavano dagli oblò, e che prima o poi sarebbero saliti in superficie a prenderci.
Alla fine è successo davvero, le mie paure hanno preso corpo: lo sconosciuto con la pistola. Unica differenza: non è arrivato da sotto, ma da sopra. Sogno cose che succedono. Ho sognato mio padre e mia madre morire. Li ho sognati fin da bambina, sarebbero morti giovani. Siete morti.
Oggi, a quarantaquattro anni, sogno quello che è già successo: io che trovo i lingotti d’oro nel cassetto di papà – che meraviglia! – e ci costruisco il castello di Barbie, mio padre che mi porta a casa di Licio Gelli, qui si può volare! Sogno mia madre che ci trascina giù per i gradini del giardino, apre la porta nascosta dai rampicanti, e ci spinge dentro. Abbiamo tredici anni, mio padre è stato appena rapito, e noi siamo nel bunker.
Mamma, mormoro mentre lei si chiude la porta alle spalle e aggancia il lucchetto, e tira la sbarra di ferro. Mamma, ripeto.
Per i polsi, io da una parte, Gianni dall’altra, lei ci guida lungo il corridoio, quindici metri, la lunghezza della piscina.
In fondo, schiena alla parete, ci sediamo a terra. Mamma in mezzo. Io poggio la testa sulla sua spalla, Gianni si rannicchia contro il suo fianco.
Fuori è ancora giorno, il sole filtra nell’acqua, trasformandosi in luce azzurrina, l’unica luce che ci illumina come quella di un televisore.
Il bunker non ha finestre, tranne tre oblò sull’acqua. Siamo sott’acqua, sottomarino o relitto. Mamma, pigolo, che succede ora?
Vista da vicino mamma è giovanissima. La pelle liscia, neanche una ruga. Scostandosi gradualmente appaiono le borse sotto gli occhi, il tessuto del collo in via di cedimento, e si ricompongono i tratti di una donna di mezza età. Ma solo noi ormai abbiamo la possibilità di vederla guancia su guancia, naso su collo, ci strusciamo su di lei, odore di mamma. Non so in quanti abbiano guardato mia madre a pochi millimetri, in quanti l’abbiano vista ragazza, d’un tratto di nuovo ragazza, quando i suoi occhi si fanno enormi. Un tempo mio padre. Qualche anno fa un tale Michelangelo. Un alcolizzato, come lo definisce papà con gli amici. Un alcolizzato che attira la pietà di mamma: povero Michelangelo, voi non capite… Non posso dire con certezza che quel Natale a Kitzbühel, lei che sparisce per un pomeriggio intero, si sia consumato un tradimento. So solo che lei ricompare prima di cena, dopo che tutti l’hanno cercata in albergo e fuori, dov’è Francesca. Lei si materializza la sera come se niente fosse. Ho aiutato Michelangelo a fare un pupazzo di neve, dice, voleva tanto costruire un pupazzo. E mio padre: un pupazzo di neve? Le sue uniche parole. Ecco, io non ho la certezza che quel pomeriggio lei abbia tradito, o che invece sia stata solo una messinscena per umiliare papà davanti agli amici, Professore cornuto. Sia quel che sia, è stato un affronto. Un affronto pubblico, peggio di un tradimento reale.
Anche lei, dunque, arrivati qui, nel bunker, ha le sue colpe.
Inutile che faccia l’innocente, la madre santa che sistema le nostre testoline sul suo grembo: provate a dormire, chiudete gli occhi. Perché se siamo qua sotto è anche colpa sua, chiudiamo e riapriamo gli occhi, lei ha disobbedito, chiudiamo e riapriamo gli occhi, ipnotizzati dalla luce azzurrina degli oblò, doveva essere più buona, chiudiamo e riapriamo gli occhi, le nostre teste si toccano sulla sua pancia. È colpa tua, solo colpa tua, mamma, anche colpa tua, penso. E chiudo gli occhi.
Negli oblò diventa sera. Poi notte. La piscina un pozzo nero, e noi seppelliti vivi, cosa si prova a essere seppelliti vivi.
Mi fa male il sedere. Ho freddissimo, dico. Anch’io, segue Gianni. Mamma si sfila il camicione, d’estate porta solo camicioni come le cameriere, se lo sfila e ce lo sistema addosso, poi ci stringe a sé. Famiglia, siamo una famiglia senza papà, lui potrebbe non tornare più, potrebbe? Penso sollevata.
D’improvviso libera, come se qualcuno mi avesse tolto un bavaglio dalla bocca, adesso respira, respira Teresa… ma subito dopo vedo mio padre piegato dal dolore, l’uomo con la pistola deve avergli tirato un calcio, e gli sta bene: un padre deve pensare ai figli, prima i figli, poi il resto, non mio padre. Ora lo immagino disteso a terra, quasi morto, e l’uomo che continua a picchiarlo, non si ferma… ti prego, fermati, vorrei urlare, basta così, è mio padre. Ecco il cuore pulsante della nostra famiglia, un buco nero intorno a cui crescono risentimento e amore di tutti verso tutti, anche dopo la morte. Cosa si prova a essere seppelliti vivi, non lo so, chiudo gli occhi fortissimo.
Qualcosa si muove dentro l’acqua, qualcosa di piccolo… un pesce, scatto in piedi io. Hanno buttato un pesce in piscina, su c’è qualcuno, se gridiamo ci sente, aiuto aiuto, la mano sul vetro, quasi a prendere il pesce, è come un acquario, come vedere la propria vita da fuori, ora nell’acqua ci sono io, le guance gonfie a trattenere il respiro, i capelli come alghe, il costume rosa a fragole, ora c’è il pesce giallo, che cade lento, e si deposita sul fondo. È una foglia. Cosa si prova a essere seppelliti vivi.
Non saprei dire quanto tempo passa dalla foglia, da me che torno a sedermi di fianco a mamma, ai rumori fuori. Pochi minuti o forse ore. Sentiamo voci. Sono arrivati. Mamma ci stringe. Una voce chiama dottoressa. Poi colpi. Colpi fortissimi. Io nascondo la testa nella spalla di mamma, non voglio vedere. Colpi e ancora colpi, dottoressa, chiamano, siete dentro? Lei non risponde. Rimaniamo in silenzio, stretti stretti, siamo un’unica persona: madre, figlio, adulto, bambino. Sono arrivati.
Quando la porta si apre, nella luce biancastra vediamo solo sagome scontornate – buoni o cattivi? – restiamo immobili – a salvarci o ucciderci? – fin quando la voce non dice: dottoressa, sono Marrucci.
Marrucci, Brama, Migliorino avanzano verso di noi e, mentre i nostri occhi si abituano alla luce, i loro tratti prendono i contorni, Nino, Martinozzi, Temperini. Sono loro, Salvini, Barozzi, Bertocchi, sono arrivati.
Ci chiedono se stiamo bene, Brama ordina a Migliorino di andare a prendere gli asciugamani, dobbiamo coprirli, stanno tremando. Solo ora mi accorgo che siamo nudi. Noi in costume, mamma in mutande che incrocia le braccia a coprire il petto, non ha reggiseno.
Qualcuno mi tende la mano, io la prendo, l’afferro, non so chi sia, Brama, Nino o Martinozzi. Mi alzo, le gambe informicolite. Anche Gianni si alza. Mamma invece rimane a terra, gli occhi bassi. Dottoressa, ripete Marrucci, raccogliendo il vestito e porgendoglielo. Lei lo prende, se lo infila dalla testa, si alza, e si lascia andare a peso morto tra le braccia del ginecologo.
È morto? Chiede in un sussurro.
Arrivano gli asciugamani rosa. Qualcuno ci avvolge come neonati, e ci guida su per le scale del giardino. Solo in cima mi volto: quella figurina ricurva sulla porta del bunker potrei essere io, mio fratello, la giovinezza tutta, invece è mia madre. Allora tu, figlia, liberati dell’asciugamano e, cercando di evitare i sassi, scendi le scale, e salta, l’altezza più alta che tu abbia mai saltato, figlia, salta, e vai incontro alla mamma.
All’inizio, quando lui torna, come alla fine di una qualunque giornata di lavoro, lei lo abbraccia in lacrime, amore mio – da quanto non lo chiamava amore?
Lui le dà un buffetto sulla guancia, suvvia.
Chi era quello, che voleva? Chiede lei. Ti ha fatto del male, dimmelo, Renzo.
Un drogato di Albinia.
All’inizio. Nei giorni a seguire arrivano i dubbi – un drogato con la pistola? Mio padre sminuisce, la pistola ce l’hanno tutti. Nei giorni a seguire sale la rabbia: mia madre minaccia di andare alla polizia. Mio padre alza le spalle, ti ridono dietro, anche loro conoscono quel drogato. Mia madre però la gente della zona la conosce, anche solo di vista. E quell’omone no. Quell’omone che è piombato a casa puntando la pistola addosso a lei, a noi, a papà, quello sconosciuto che ha intimato al Professore di seguirlo.
Infine lo sconforto: non è una vita normale – piange lei – non è normale che arriva uno con la pistola e ti porta via.
Dopo tutto questo, Francesca Fabiani dice basta.
Dopo gli anni in cui si è fatta sempre più incolore, sforzandosi di essere la donna che voleva il marito, chiudendo gli occhi, facendo finta di non vedere, ignorando le chiacchiere di paese, ripetendosi nella testa: mio marito è un uomo buono, una persona perbene, ecco, dopo anni di pazienza che non era altro che speranza, lei sbotta. Lo strappo può sembrare repentino. In realtà il giorno che lei comunica a mio padre la decisione, quel giorno che Francesca Fabiani appare così ferma, gli occhi asciutti – quando ci si aspetterebbero lacrime – lei sta finalmente reagendo. Non è più vittima, diventa eroina (mai donna normale, o vittima o eroina, non riesce a immaginarsi in altro modo, mia madre), può dire lo faccio per loro, io m’immolo per i figli. Non vuole che cresciamo in mezzo allo schifo. Non le importa neanche più sapere dove va papà quando sparisce, se da un’amante, o da amici segreti, facesse quel che vuole, ma senza di noi. Noi ci trasferiamo a Roma. Via dei Monti Parioli 49a. Per fortuna c’è casa di nonna. Non avrai un soldo, minaccia papà. E mamma: non m’importa.
Solo un’esitazione, un unico momento di esitazione.
Chiusi in cucina papà ripete: non riuscirete a campare senza soldi. E lei: non puoi fermarci.
Allora lui scoppia a piangere, eccolo l’unico istante di esitazione per mia madre. Il Professore scoppia a piangere. Esce dalla cucina e ci passa davanti. Piange? Chiede Gianni sottovoce. Piange.
In tredici anni di vita noi non abbiamo mai visto nostro padre piangere. Mamma mille volte, mamma piange per qualsiasi cosa. Nella nostra mente i padri non piangono.
È difficile risistemare le categorie, ridefinire i ruoli, stabilire le eccezioni, e soprattutto capire cosa dobbiamo fare noi, qual è il nostro compito di figli adolescenti e spaesati. Ci viene chiesto di vedere oltre, al di là della giovinezza, e da laggiù capire. Questo ti viene chiesto, figlia: capire che mamma e papà sono esseri infinitamente piccoli. Ti viene chiesto un salto nel futuro, dove tu devi essere donna che si siede di fianco al padre, gli prende la mano, e lo rassicura: non preoccuparti.
Invece noi seguiamo papà su per le scale, poi nel corridoio fino in camera sua.
Lui si siede sul letto e si asciuga gli occhi – dentro il Professore c’è ancora il bambino paffuto di Marina di Grosseto, quello della foto, lo vedi, mamma? – e dice: lei vuole dividerci.
Io biascico no, non è vero. Gianni ottimista: andiamo tutti a Roma!
Papà scuote la testa e deglutisce (ferma qualcosa che gli sale dallo stomaco, lo blocca nella gola, se non fosse lui, se fosse un altro uomo, una donna o un bambino, direi un singhiozzo, mio padre soffoca un singhiozzo).
Siamo una famiglia, dico io, d’un tratto donna, il mio salto nel futuro, ce l’ho fatta. Sì, papà, ra...