Domenico Starnone
Condom
Se qualcuno gliel’avesse chiesto, Dario avrebbe risposto che lo faceva per i soldi e per le puttane. Però i soldi erano pochi e le puttane, anche solo a guardarle, non promettevano granché. Allora? Uno sul serio si alza la mattina presto e passa la sua giornata coi neri piú miserabili, per le strade che vanno verso Scauri, sotto i cavalcavia e lungo la campagna lercia, a Castelvolturno tra Buffalo Road e l’hotel Boomerang e la via dei Diavoli, solo per uno stipendio da cococò e per queste ragazze di pelle nera coi capelli biondi e le facce imbiancate?
Dario guidava morto di sonno, sotto il cielo grande, e aveva l’impressione di essere al volante senza starci davvero, come se la sua vita se lo stesse portando lontano lasciandolo tuttavia dov’era, dentro l’auto bianca dei guagliuni senza frontiera, preoccupato perché Lu lo aspettava da almeno venti minuti e di sicuro era già incazzata. Lei però non c’era. Allora accostò sul bordo della provinciale, poco prima della fermata dell’autobus, e tirò fuori cartine e tabacco.
Un giorno alla settimana Dario e Lu si incontravano in quel posto alle 8,30 e succedeva sempre la stessa cosa. Lui combatteva col sonno e col traffico per spaccare il minuto ed evitare alla ragazza di stare anche solo per poco in attesa alla fermata, sotto lo sguardo dei bianchi che la vagliavano per capire se era una puttana. Ma per quanto facesse, arrivava inevitabilmente in ritardo, un po’ in ansia, e solo per scoprire che Lu era ancora piú in ritardo. A questo punto era Dario ad arrabbiarsi e si preparava a dire alla ragazza: m’hai rotto, arrivi sempre in ritardo. E quando la ragazza si faceva viva – un minuto dopo o cinque – e saliva in macchina e si partiva, il gioco delle parole era nella sostanza sempre cosí:
«Ciao, amore».
«Fanculo, ti sto aspettando da un quarto d’ora, Lu».
«Buciardo».
«Buciardo? Ancora? Bugiardo con la g, non buciardo con la c».
«Con la g o senza la g sei buciardo. Stai qui massimo massimo da due minuti».
«Ma tu dovevi stare qui minimo minimo da un quarto d’ora».
«A fare che, ad aspettarti?»
«Che cazzo di ragionamento è?»
«Il ragionamento è che non ho appuntamento con l’orologio ma con te, e tu arrivi sempre alle nove meno un quarto, non alle otto e mezzo».
«Vuoi dire che io sono in ritardo e tu sei puntuale, amore?»
«Sí, amore, puntualissima».
Quel giorno Lu non scese dall’autobus ma venne fuori dal bar. Dario la guardò con affetto mentre avanzava verso l’automobile, i jeans negli stivali scuri, la blusa rossa con la zip, gli occhiali da sole che le facevano da fermacapelli.
– Hai ventidue minuti di ritardo, – le disse guardando l’orologio, ma solo per provocarla, era chiaro che era arrivata prima di lui.
Lu prese la pettorina dal sedile posteriore e la indossò con movimenti svagati.
– Sei un grande stronzo.
Quando gli si sedette a lato, Dario partí.
– Ti sei svegliata male?
– Sí.
– Non vuoi parlare?
– No.
Le colava il naso, starnutí a ripetizione, si strofinò a lungo le narici con un fazzoletto di carta.
– Hai la febbre?
– Sto benissimo.
– Allora dammi un bacino.
– E l’influenza?
– Hai detto che stai benissimo.
Lu lo baciò su una guancia di malavoglia.
– Buongiorno.
– Buongiorno.
– Oggi pioverà di nuovo.
Alberi radi, montagne lontane e come assorbite dalle nuvole. Il nastro d’asfalto pareva nuovo o ben spazzato, forse per via della pioggia all’alba, forse per via del vento. La sporcizia era stata come soffiata ai bordi e tutt’intorno, per la campagna. Le prime ragazze le sorpresero accanto a una delle piccole discariche in una strada laterale che portava verso un capannone industriale. Erano quattro e appena videro l’auto bianca la scambiarono per quella dei vigili urbani e scapparono con piccole grida d’allarme. Poi tornarono indietro con cautela e ripresero posto intorno al buattone dove c’era un po’ di fuoco.
Dario aprí lo sportello ma Lu gli disse mettiti la pettorina, e mentre lui se la metteva e imprigionava i capelli rasta dentro una fascia scura lei prese la sacca di stoffa dal sedile posteriore e se l’appese al collo. A quel punto fece per chiudere lo sportello, ma ci ripensò e portò via anche un po’ di volantini. Uno starnuto. Si soffiò il naso, andò verso le ragazze. Dario le gridò dietro: unilitaquatesele. Che cazzo dici, brontolò lei senza girarsi, ma col primo mezzo sorriso della giornata. Era tutto ciò che Dario era riuscito a imparare della formula stralunga che gli aveva insegnato la nigeriana Lu e che serviva a tener lontano le noie dei raffreddori. In italiano era l’equivalente di «salute».
Di Lu non so niente. Dario mi pare di conoscerlo meglio o comunque ho l’impressione di saperne fare qualcosa. Ma Lu è un grosso ostacolo. Conosco i gesti, la voce, l’abbigliamento. Va dalle ragazze. Parla con loro in pidgin, la lingua misteriosa che pare inglese ma non lo è. Ha un suo modo di comunicare che è aggressivo e insieme affettuoso. Potrei dire subito che è incinta di Dario. Ma poi?
Poi provo a ripartire da Dario (per ora mi conviene stare addosso a lui in modo che non si veda troppo che di Lu so raccontare poco), ha messo la pettorina con il logo rosso. Le ragazze all’inizio sembrano interessate soprattutto a lui. La piú indisciplinata, Marilyn, lo chiama Rasta. Dice a Lu: sei troppo vecchia per questo bel ragazzo. Lu si secca, cerca di guadagnarsi la loro attenzione per cominciare la lezioncina. Le ragazze fanno resistenza, sembrano studentesse svogliate che pensano ai fatti loro, ma Lu sa che in realtà ascoltano. Sono pesantemente truccate. Malgrado il freddo hanno abiti leggeri, pantacollant aderentissimi, camicette che non riescono a contenere il petto. Portano guanti che lasciano le dita nude.
Cosí, a occhio e croce, diresti che sono tutte nella prima adolescenza. Solo Marilyn pare intorno ai vent’anni e si comporta come se già conoscesse Lu. Ride, tiene la voce alta. Le altre non parlano. A volte fanno sorrisetti di sufficienza, ma piú spe...