Verso la metà degli anni Settanta avevo dovuto lasciare definitivamente la villa sull’Appia Antica, dopo uno scontro all’ultimo sangue con la padrona di casa, Giuliana Fiastri, ex moglie di Carlo Ponti, che un giorno si era presentata all’improvviso in giardino, strillando che le dovevo pagare gli affitti arretrati. Io ero caduta dalle nuvole, credevo fosse tutto a posto, dato che il contratto era a nome del mio ormai ex innamorato Franco Angeli.
Per fortuna, il mio nuovo fidanzato Roberto Gancia (detto anche Sgancia) mi aiutò generosamente a chiudere i conti e a saldare alcuni debitucci. Non mi restava che tornare a vivere nell’appartamento di via Borgognona. Chiamai gli operai per farlo ristrutturare e nel frattempo mi sistemai con Lucrezia al Grand Hotel.
Roberto volle farmi risistemare anche l’atelier di piazza di Spagna, lasciandomi solo il piacere di scegliere colori e pezzi d’arredamento. Inoltre, riuscì a farmi concludere un megacontratto con un’azienda giapponese per la diffusione delle mie creazioni di moda in una catena di grandi magazzini nel Paese del Sol Levante.
Fu un periodo come fuori dal tempo. Non avevo una lira in tasca, ma vivevo come una miliardaria, viziata e coccolata. Al mio carlino Banana veniva servita la pappa su un piatto d’argento e al mattino un portiere in livrea accompagnava Lucrezia a scuola. Per alleviare quella specie di clausura di lusso invitavo spesso a colazione due amici, Alberto Moravia e Goffredo Parise. Erano i miei dioscuri, i miei cavalieri del cielo, Castore e Polluce, miei complici di avventure, miei paladini e più tardi anche miei testimoni di nozze.
Arrivavano tutt’e due puntualissimi, sempre molto eleganti: Goffredo più country gentleman, pantaloni di tweed e giacca di velluto a coste; Alberto ricercato, la cravatta puntigliosamente intonata alla camicia e alla giacca, i pantaloni impeccabili.
Goffredo si divertiva all’idea di fare la parte del pique-assiette, visto che finiva tutto sul conto del mio fidanzato.
Il Grand Hotel era stato da poco ristrutturato dalla Maison Jansen di Parigi (la stessa maison che Jacqueline Kennedy aveva assoldato anni prima per riarredare la Casa Bianca), ed era diventato un luogo di vivacissima mondanità romana e di grande passaggio. Ci si vedeva con gli amici soprattutto per colazione, ma anche in palestra o nella sauna, o nella sala da tè, oppure, verso sera, si saliva per un aperitivo al bar, dove, oltre alla fauna locale, si potevano incontrare Billy Wilder, Ava Gardner, Kirk Douglas, Aristotele Onassis, Liz Taylor, Jack Lemmon, Burt Lancaster, Maria Callas, oppure Gianni Agnelli e Henry Kissinger. E poi c’era il parrucchiere per signore, aperto anche il lunedì, quindi molto frequentato.
Le nostre colazioni a tre si concludevano spesso con un giro per le viuzze del centro di Roma con Goffredo, che a volte mi accompagnava anche a seguire il lavori di ristrutturazione del mio atelier, per dispensarmi i suoi consigli; Alberto, invece, un po’ prima delle tre si alzava immancabilmente da tavola e ci salutava, perché veniva a prenderlo qualcuno della sua corte dei miracoli – scrittori, poeti o aspiranti tali –, che lo accompagnava al cinema. In quel periodo Moravia teneva la sua famosa rubrica di critica cinematografica per il settimanale “L’Espresso” e c’era uno stuolo di giovanotti che facevano a gara per scortarlo, in omaggio al grande scrittore. Del resto anche Goffredo ricordava che, appena si era trasferito a Roma, era entrato a far parte del ristretto entourage di Carlo Emilio Gadda, suo anziano mentore e vicino di casa, e lo scarrozzava per Roma sulla sua MG decappottabile rossa, mentre lui si aggrappava terrorizzato al cruscotto, mormorando una frase diventata poi celebre: «Se mi vede Cecchi, sono fritto!».
Tra gli accompagnatori di Moravia, i più famosi erano Dario Bellezza, Umberto Silva, Francesco Serrao e Nanni Balestrini. Quei favori però avevano un rovescio della medaglia. Serrao soprattutto gli faceva mille telefonate, si presentava all’improvviso a casa sua e Alberto, maniaco degli orari e della precisione, si irritava moltissimo. Al telefono gli diceva: «Ah, è lei, Serrao. La prego, Serrao, non mi disturbi. Se vuole proprio venire, veda di arrivare puntuale alle due e trenta del pomeriggio così mi porta al cinema. Durante la proiezione non mi secchi, non agiti la gamba, stia fermo e zitto. Adesso riattacchi e veda di non disturbarmi più!».
Umberto Silva mi ha di recente raccontato che un giorno aveva appuntamento a casa di Moravia, ma quando era arrivato davanti al portone a un tratto era spuntato dal nulla Francesco Serrao che voleva a tutti i costi salire con lui. Silva aveva avvertito Moravia per citofono, ma appena entrati in casa, Serrao aveva cominciato a girare vorticosamente per le stanze, mentre Alberto lo inseguiva brandendo il bastone e urlando: «Serrao, se ne vada subito se no l’ammazzo!».
A volte però era Alberto ad accompagnare Serrao sul Lungotevere, dalle parti di via Garibaldi, dove la sera passeggiavano i trans. Se Serrao si fermava a chiacchierare con qualcuno, Alberto lo aspettava in macchina, poi si faceva raccontare cosa si erano detti, com’era andata. E a volte il giorno dopo telefonava a Serrao e gli diceva: «Mi raccomando, stia attento, può essere pericoloso, con quelle persone può anche beccarsi l’AIDS. Veda di limitarsi a contatti non troppo intimi, meglio un pompino o roba del genere». Insomma, si preoccupava per lui.
In realtà Alberto era una buonissima persona, nonostante le sue sfuriate, ma guai a sconvolgere i suoi orari e le sue abitudini. Al telefono rispondeva sempre in modo brusco, sgarbato, anche perché ci sentiva poco. Un giorno Roberto Gancia lo chiamò chiedendo di me, visto che spesso gli dicevo: «Oggi non possiamo vederci, devo andare da Moravia». Alberto rispose strepitando come al solito: «Chi è, chi parla, cosa vuole? Cosa cerca?… Ha detto Marina? Lei ha sbagliato numero, il ministero della Marina sta qui, di fronte a casa mia… Non rompa le scatole!».
Quelle colazioni al Grand Hotel erano molto speciali: tre amici che chiacchieravano di tutto, che spettegolavano e si scambiavano confidenze, con la tacita consegna di non parlare di letteratura. Ad Alberto e Goffredo piaceva sentirmi raccontare delle mie avventure, dei miei amori, dei segreti piccanti delle signore che frequentavano il mio atelier d’alta moda, oppure ridere delle rotondità e dei crucci sentimentali di qualche matrona romana. Erano curiosi di sapere, per esempio, se era vero che Mimise Guttuso mi chiedeva di svelarle quale abito stavo realizzando per Marta Marzotto, perché voleva averne uno uguale con solo piccoli dettagli differenti. Si divertivano come due ragazzini che avevano marinato la scuola.
Fra un pettegolezzo e l’altro, Alberto e Goffredo non erano certo teneri nei miei confronti: con la loro ironia, mi mettevano spesso con le spalle al muro, mi facevano notare quanto a volte ero stata insopportabile, mi rimproveravano per i miei eccessi, per le mie baruffe, per le mie battutacce, ma senza moralismi, con allegria, con affetto, mai con l’intenzione di volermi “fare la predica”. Alberto, con quel suo fare asciutto e burbero, Goffredo con paterno sarcasmo.
Un giorno, forse per farsi perdonare il diluvio di critiche che mi rovesciavano addosso, cercarono di consolarmi con due lettere che cominciavano con le parole di rito “Cara Marina”, due lettere che vennero pubblicate una accanto all’altra e che suscitarono non poco scalpore nel mondo intellettuale romano.
Ricordo che stavamo tutt’e tre consultando il menu, quando a un tratto alzai la testa e ruppi il silenzio: «Sentite, ho un problema, dovete darmi una mano».
«Forza, parla» mi esortò Alberto.
«Roberto Granata mi ha chiesto di posare per un servizio fotografico senza veli per “Playmen”. Mi hanno offerto un bel gruzzoletto, che in questo momento mi farebbe molto comodo. Io però ho qualche scrupolo, già immagino che ai miei genitori verrebbe un colpo se solo aprissero il giornale. Non so che fare.»
Goffredo mi tolse subito il peso dal cuore. «Saresti sciocca a rifiutare, Marina. Che cosa vuoi che sia, per qualche foto osé non è mai morto nessuno! Anzi, mi è venuta un’idea, proponi alla redazione della rivista un mio commento alle tue foto. Che ne dici, Alberto? Potresti scrivere due righe anche tu. Non saremo certo noi due ad arricciare il naso davanti a una rivista cosiddetta “erotica”.»
«Ma sicuro» esclamò ridendo Alberto, «magari pagano bene pure gli articoli…»
Il giornale uscì nel maggio del 1980, con una mia foto in copertina e lo “strillo” Nudo d’autore. Marina Lante della Rovere “interpretata” da Moravia e Parise. All’interno mi avevano dedicato dieci pagine di foto, in cui indossavo (si fa per dire) abiti del mio atelier o schiuma da bagno. La rivista andò a ruba.
Qualche giorno dopo l’uscita, su un aereo Milano-Roma incontrai Eugenio Scalfari che, non appena mi vide, si alzò di scatto per venirmi a dire, solenne e pomposo come sempre: «Ma come hai fatto a convincere due grandi scrittori a dedicarti una lettera su una rivista come “Playmen”? Si vede che ti vogliono proprio bene…», e io completai mentalmente: “Per scendere così in basso”. Scalfari tornò al suo posto, scuotendo sconsolato la testa, con l’aria di chi pensa che il mondo va alla rovescia.
In quella lettera Alberto Moravia scriveva: “Tu non sei un’artista, Marina, ma si potrebbe affermare che c’è molta arte, sia pure a livello inconscio, nella tua vita”. E aggiungeva: “Perché sei volubile come colui che segue il proprio ‘particulare’ e questo è anche il tipico procedimento dell’arte: scansare come la peste le idee generali e tenersi al dettaglio, anche quando porta a contraddizioni e deviazioni”. E concludeva così: “Poco importa se domani con un altro capriccio, un altro estro distruggerai alla fine il tuo stesso ritratto. L’autodistruzione è il colmo del ‘particulare’”.
Insomma, un modo colto ed elegante per dire che ero imprevedibile e capricciosa.
Goffredo, invece, esordiva dicendo che la differenza tra essere e apparire era enorme nel mio caso, e aggiungeva: “Credendo nella parola come mezzo di espressione, desidero tentare anch’io di dare un’immagine di te che non c’è, non può esserci nelle fotografie. Questa immagine non è pubblica, ma privata, non ‘assomiglia’ a nessuna fotografia e a nessuna immagine pubblica di te, ma vuole assomigliare (in breve) alla tua essenza, cioè alla tua originalità. Innanzitutto, tu sei una bambina e non una donna come può sembrare… Come tutti i bambini e contrariamente all’atteggiamento che tu vuoi che appaia al pubblico, sei insicura”.
Non che io avessi capito granché di tutto quello che Alberto e Goffredo avevano scritto su di me, e ancora oggi nel rileggere quelle lettere ho qualche perplessità. Comunque, avevano certo intuito una cosa che io stessa percepivo solo in modo vago, e cioè che sotto la mia spavalderia, la mia aggressività, ero fragile come una bimbetta che aspetta eternamente l’approvazione dei grandi. Goffredo arrivava a dirmi: «Marina, tu sei un’intellettuale pura». Io scoppiavo a ridere e lo guardavo fra l’ironico e l’incredulo, sospettando (anzi con la certezza) che mi stesse prendendo in giro. Lui allora cercava di spiegarmi il significato di quell’affermazione: «Perché tu arrivi per intuito, per istinto a capire cose molto complicate. Anche l’eros».
Forse alludeva a quello che La Capria chiama “talento umano” o “intelligenza del cuore”. Secondo Dudù, la grande dote di Goffredo era proprio quella di saper cercare la profondità in superficie.
La verità è che Parise non giudicava, accettava le persone per quello che erano, non lo disturbavano il candore, la semplicità, ma detestava gli atteggiamenti moralistici, pretenziosi, saccenti.
Diceva sempre che cultura non è leggere tanti libri, quanto piuttosto impegnarsi per tentare di capire le cose.
«Lo preoccupavano quelli che hanno letto tutto, conoscono Proust e Joyce, citano Shakespeare a memoria, ma sono rimasti cretini» mi ha detto di recente La Capria. «Li chiamava i “cretini intelligenti”.»
E dire che mia madre e mio padre, con quelle due bellone di figlie che si ritrovavano, una bionda con occhioni celesti e l’altra rossiccia con occhi verdastri, avevano sempre cercato di convincere me e mia sorella Paola che eravamo belle e quindi cretine.
Insomma, ero cretina e basta. Forse era questo che di me piaceva a Goffredo.
Quando gli confessavo che di libri io ne avevo letti pochini in vita mia, perché quelli che mi facevano leggere a scuola o che mi propinava mia madre mi annoiavano a morte, Goffredo diceva che non aveva nessuna importanza, e aggiungeva che un romanzo che mi sarebbe sicuramente piaciuto era Lolita: secondo lui Nabokov era il più grande scrittore del mondo. «Non sono d’accordo» obiettava allora Moravia. «Nabokov è freddo, intellettualistico, barocco, addirittura decadente.»
“Farò un giorno un ritrattino di Marina, come mai è apparsa in nessuna rivista di moda…” ha scritto Goffredo Parise in un testo di presentazione per una mostra di Franco Angeli, intitolato Il fiore dei Belli.
In realtà, quel ritrattino non lo fece mai, ma leggendo i suoi Sillabari a volte penso che, se lo avesse scritto, forse sarebbe cominciato così:
Una caldissima sera d’estate, in un locale romano, rumoroso, affollato di pittori, artisti e scrittori, una ragazza in minigonna sorrise a un uomo bruno, dal colorito olivastro, con occhi grandi e curiosi. Era una ragazza molto bella, ma aveva un piccolo difetto: gli incisivi leggermente lunghi e staccati.
«Che strani dentini… come sono distanti!» esclamò l’uomo con accento un po’ cantilenante. La ragazza lo guardò incuriosita: nessuno le aveva mai detto una cosa del genere.
Il locale era il Dom, un ristorante che Plinio de Martiis e Vittorio Gassman si erano inventati a due passi da piazza del Popolo. Quella ragazza ero io. E l’uomo dai grandi occhi curiosi era Goffredo Parise. Me lo aveva presentato il pittore Franco Angeli, il mio amore di allora. Quella sera capii che Parise sapeva cogliere al volo i minimi dettagli, anche quelli che agli altri in genere sfuggivano. Aveva una capacità di osservazione e di intuizione quasi “rabdomantica”, dice oggi La Capria.
Quel “difetto” che Goffredo aveva notato nel mio viso era una specie di messaggio in codice segreto fra noi due, quasi un segnale di riconoscimento.
Perché io quella sera ancora non lo sapevo, ma Goffredo amava l’anomalia, sosteneva la disobbedienza, il rifiuto della banalità dell’ovvio. Quel mio “difetto” era in fondo una sorta di atto di ribellione al conformismo.
Goffredo, quando scriveva di se stesso (spesso in terza persona), un difetto lo tirava sempre in ballo, come un’allusione alla grande ferita da cui non era mai guarito, quella di essere figlio illegittimo di una ragazza-madre, rifiutato dal padre naturale e cresciuto in una soffocante cittadina di provincia come Vicenza.
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