La fine del terrorismo
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La fine del terrorismo

Oltre l'Isis e lo stato di emergenza

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La fine del terrorismo

Oltre l'Isis e lo stato di emergenza

Informazioni su questo libro

Il terrorismo, vale a dire l'uso indiscriminato della violenza contro civili, è una tattica adottata spesso nel corso della storia da gruppi armati decisi a sfidare un nemico più forte per raggiungere obiettivi politici o militari, ma anche da governi dittatoriali per garantirsi l'assoluta sottomissione dei propri cittadini. Ma l'attuale moltiplicarsi di attacchi e attentati terroristici di matrice islamista sempre più efferati e cruenti ha creato in Occidente un diffuso clima di insicurezza e di paura, esacerbato dalla sensazione di essere in balìa di un avversario invisibile e incontrollabile. Come si può scongiurare una simile minaccia al tempo stesso incombente e sconosciuta?

Benedetta Berti, analista di politica internazionale, tenta di rispondere a tale interrogativo esaminando la genesi e le attività dei numerosi gruppi jihadisti che quasi ogni giorno sono alla ribalta della cronaca, a partire da quello più noto e più potente, autoproclamatosi Stato Islamico di Iraq e Siria: l'ISIS.

Dall'accurato studio delle sue radici e rivendicazioni, del contesto in cui sono nati e si sono affermati, dei modi in cui si finanziano e fanno proseliti emerge uno scenario molto lontano dallo stereotipo del terrorista islamico clandestino, armato di kalashnikov e nascosto in una grotta. Come le multinazionali sul mercato globale, molti gruppi armati hanno sviluppato complessi modelli di business per arricchirsi; come i partiti politici moderni, hanno capito l'importanza del consenso; come le agenzie pubblicitarie di successo, hanno ideato campagne di marketing basate su un'ottima conoscenza della Rete. Fino ad assumere i compiti e le funzioni di un vero e proprio Stato: dalla gestione dell'«ordine pubblico» alla raccolta dei rifiuti, alla costruzione di scuole e strutture sanitarie.

In un quadro così complesso, le armi non sono l'unico, né forse il più efficace strumento per sconfiggere il terrorismo. È invece necessario, secondo Benedetta Berti, prosciugare le fonti che lo alimentano e, in particolare, rimuovere la causa prima di ogni forma di ribellione e insurrezione, in Medio Oriente come altrove: l'esistenza di Stati inefficienti e corrotti, dove la forbice della diseguaglianza sociale è eccessivamente ampia e il dissenso viene soffocato con il carcere e la tortura. Solo individuando i singoli tasselli di questo esplosivo mosaico, e intervenendo su di essi simultaneamente, si potrà pensare di porre fine al terrorismo e liberare il mondo dalla paura.

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Parte terza

BRANDING, MARKETING E VENDITA DELLA VIOLENZA

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Costruire un brand: il potere delle idee

«Niente al mondo è potente quanto un’idea della quale sia giunto il tempo» è forse una delle frasi più citate di Victor Hugo. Abbiamo dedicato la prima parte di questo libro a cercare di capire cosa significhi che i tempi a un certo punto sono maturi; a esaminare come una speciale combinazione di tempismo, fattori politici esterni e modelli organizzativi interni possa causare l’ascesa e la caduta di organizzazioni violente complesse. Tuttavia, essere a conoscenza del fatto che le idee non sono tutto non deve portarci a pensare che le idee non contino: un messaggio coerente ed eloquente può smuovere le montagne, può unire e mobilitare le persone e spingerle a sobbarcarsi notevoli sacrifici. Da questo punto di vista le idee contano, eccome.
I movimenti sociopolitici, violenti o pacifici che siano, sono guidati da un insieme condiviso di idee e convinzioni e devono proporre una visione forte, coerente e ben articolata se vogliono affermare la loro identità, acquisire legittimità, trovare sostegno e spingere all’azione.
È vero che le persone entrano a far parte di questi movimenti per ragioni che vanno oltre la mera ideologia, ma una delle lezioni più sgradevoli che ho imparato studiando i gruppi violenti è che l’ideologia è un aspetto da prendere sul serio. Dico «sgradevoli» perché approfondire idee che giustifichino e promuovano attivamente l’uso della violenza contro i civili, o che affermino che le vite di passanti innocenti possono essere sacrificate senza tanti scrupoli in vista di un bene più grande, ci obbliga a calarci in uno dei lati oscuri dell’umanità. Eppure, per capire cosa possa spingere persone normali a commettere delle atrocità dobbiamo scavare in ciò che le motiva a livello politico, economico, sociale, ma anche psicologico ed emotivo. Per farlo, dobbiamo entrare nel mondo misterioso ed evanescente delle idee. Nei suoi studi sul genocidio, il professor Michael Freeman ha osservato che, perché un genocidio avvenga, deve esserci un’ideologia che giustifichi e promuova la violenza e che presenti la violenza stessa (in questo caso il genocidio) come «naturale, necessaria, razionale e/o obbligata».1
In altre parole, per commettere atrocità inenarrabili gli esseri umani hanno bisogno di ideologie in grado di «normalizzare» queste azioni, trasformandole da proibite e moralmente riprovevoli in necessarie e addirittura eroiche. La storia trabocca di esempi di come funziona questo principio nella pratica: dall’Olocausto all’istituzione della schiavitù e dell’apartheid, vediamo l’importanza delle ideologie politiche nel giustificare e incoraggiare indicibili crudeltà.
Le regole non sono molto diverse quando si tratta di giustificare la violenza contro i civili da parte di gruppi armati non statali: anche in questi casi dev’esserci un’ideologia coerente a sostegno della necessità e della legittimità della violenza. Spesso, questo insieme di idee disumanizza e reifica i civili, trasformandoli da passanti in bersagli. Tale doppia riformulazione è pericolosamente efficace: prima di tutto, il gruppo crea una netta divisione tra «noi» e «loro», rappresentando ogni persona esterna al gruppo come «altro» e iniziando a creare una distanza psicologica che renda più facile commettere la violenza. Ma il processo non si ferma qui: i civili non sono solo «gli altri», ma sono anche «colpevoli» di aiutare e sostenere i nemici del gruppo e, come tali, sono considerati bersagli legittimi. In molti casi, il processo di descrivere gli altri come colpevoli va a braccetto con quello della disumanizzazione: i civili sul fronte opposto sono etichettati come «inferiori», «intrinsecamente malvagi» e, per esempio, paragonati a «ratti, topi e scarafaggi». Infine, la violenza di massa contro i civili richiede un processo di reificazione: i civili non sono più visti come persone e come individui, ma come simboli del «sistema», il che di nuovo legittima, agli occhi del gruppo, il fatto che vengano presi di mira.
La giustificazione della violenza può essere motivata, tra le altre cose, dalla politica, dall’etnia, dalla nazionalità o dalla religione.
Se guardiamo al mondo di oggi, una domanda quasi inevitabile è: questi fattori sono tutti equivalenti, o la religione è una spinta più potente e più efficace?

La religione ha qualcosa di speciale?

Discutere di religione, soprattutto in rapporto alla violenza politica, è piacevole e gratificante quanto fare una passeggiata in un campo minato. Possiamo essere sicuri che qualcuno si farà male. Per questo la tentazione di non menzionare mai la parola che inizia con «r» è abbastanza forte. Ma, ahimè, se parliamo di terrorismo e di violenza politica oggi, non possiamo eludere la questione. Quindi mi appresto a entrare nel campo minato. Auguratemi buona fortuna.
Iniziamo da qualche dato fondamentale e ampiamente riconosciuto: nel corso della storia, la religione è stata una forza politica e sociale di enorme potenza ed è stata usata per dichiarare guerra, per perseguitare comunità e individui e per giustificare la violenza (naturalmente è vero anche il contrario: la religione è stata usata anche per promuovere la pace e incoraggiare la riconciliazione). Ma poi, lungi dallo scomparire come forza politica nel mondo moderno, la religione è tornata alla ribalta nella politica locale e mondiale. Infatti, se nel 1966 la rivista «Time» aveva ottime ragioni per pubblicare una leggendaria copertina dall’evocativo titolo Dio è morto?, oggi nessuno si porrebbe più questa domanda dato che la religione, come tutti vediamo, è tornata in grande stile. Anche se prendiamo in esame l’evoluzione dell’uso del terrorismo nell’ultimo secolo, notiamo che dopo il 1979 la religione ha assunto un ruolo sempre più di primo piano, senza soppiantare del tutto le ideologie politiche o l’etno-nazionalismo, ma diventando certamente un fattore cruciale della violenza politica.
Ma coloro che uccidono affermando di avere Dio al loro fianco sono più pericolosi o efficaci di quelli che uccidono, per esempio, in nome della «rivoluzione del proletariato» o per «purificare la nazione»? Il dibattito sul tema non potrebbe essere più necessario, né più controverso.
Alcuni ritengono che la religione occupi un posto particolare in questo contesto. Ciò è senz’altro vero se guardiamo ad alcuni di tipi di gruppi religiosi, in particolare i «culti» o le piccole sette che seguono ciecamente un leader. Lo stesso vale per organizzazioni con obiettivi apocalittici e apolitici. Uno degli esempi più citati a questo proposito è il culto di Aum Shinrikyo, fondato in Giappone negli anni Ottanta, i cui membri furono responsabili – tra le altre cose – del famigerato attacco chimico del 1995 alla metropolitana di Tokyo, che uccise 12 persone e ne ferì circa 6000. L’attacco era mirato a facilitare l’ascesa al potere del leader Shoko Asahara – autonominatosi «Cristo» e profeta – e ad affrettare la terza guerra mondiale, che avrebbe fatto da preludio alla «fine dei tempi». Non ci sono molti dubbi sul fatto che perseguire questo programma apocalittico abbia spinto il gruppo a scegliere una strategia di violenza totale.
Tuttavia, questo tipo di gruppi apocalittici molto legati al culto della personalità rappresenta solo un’esigua percentuale dei gruppi che fondano il loro programma e i loro obiettivi sulla religione. Più in generale, le differenze tra estremisti «religiosi» e «laici» sono assai più ridotte di quanto pensiamo di solito. A volte i gruppi laici giustificano le loro azioni in base a motivazioni religiose, così come i gruppi religiosi collegano le loro rivendicazioni alla politica. Anche le loro ideologie tendono ad avere una serie di punti in comune. Entrambi considerano la società «corrotta» alla radice e intrisa di ingiustizia; ed entrambi sentono il dovere di combattere per cambiare le cose. Spesso condividono la convinzione di essere sotto attacco e di trovarsi ad affrontare un nemico terribile, con cui è impossibile scendere a compromessi. Infine sostengono la stessa tesi che la violenza sia la strategia migliore (e spesso l’unica) a loro disposizione.
Oltre a queste premesse comuni, i gruppi terroristi «laici» e «religiosi» tendono ad avere obiettivi o programmi politici, e non esitano a usare la violenza bruta per raggiungerli. Quando organizzarono e perpetrarono l’orrendo genocidio del loro stesso popolo in Cambogia, tra il 1975 e il 1979, Pol Pot e i suoi seguaci agivano in base a un miscuglio di ideologia marxista-rivoluzionaria e ultranazionalismo. Il fatto che Dio e la religione non facessero parte dell’equazione non ha mitigato la loro brutalità, né reso la vicenda meno atroce. È importante tenerlo a mente, perché questo fatto aiuta a dissipare la convinzione che la violenza politica a sfondo religioso sia, per sua natura, più sanguinaria e sfrenata di quella non religiosa.
D’altra parte, l’elemento religioso crea alcune dinamiche interessanti che si riscontrano più di rado nei gruppi laici.2 Commettere violenza come mezzo per esaudire quella che i membri del gruppo ritengono essere la volontà di Dio crea una doppia dinamica: l’atto violento è finalizzato a cambiare la situazione sociopolitica attuale, ma al tempo stesso diventa un atto simbolico, un modo di comunicare con Dio, di trascendere la realtà, come anche di espiare e purificarsi. Il fatto che molti estremisti religiosi si basino su interpretazioni molto dubbie della loro religione non significa che credano di meno nella virtuosità delle proprie azioni. E com’è ovvio la convinzione di avere «Dio dalla propria parte» rafforza l’identità di gruppo e il senso del dovere, insieme al rifiuto di qualsiasi compromesso e alla riluttanza a piegarsi alle norme e ai limiti imposti dalla società. Questo aumenta le probabilità che la violenza sia più indiscriminata e che le guerre con motivazione religiosa risultino più mortali. Come se non bastasse, la fede in una ricompensa divina dopo la morte e il risalto dato a tematiche millenariste possono incoraggiare e glorificare il sacrificio e il martirio, soprattutto quando si intrecciano con venature nazionalistiche ed etniche («per Dio e per la patria»). Quindi, anche se i confini tra «laico» e «religioso», e più ancora tra «politico» e «religioso» sono più sfocati di quanto si potrebbe pensare, basare un’ideologia sul concetto di fare la volontà di Dio è una strategia di grande efficacia.

Chi parla in nome di Dio?

I gruppi armati non statali che si definiscono e giustificano le loro azioni sulla base della religione sono in ascesa dalla fine degli anni Settanta e, pur appartenendo a fedi diverse, in genere condividono una visione dogmatica, purista e «fondamentalista» della propria religione. In sostanza, questo comporta la convinzione di essere i veri (e spesso i soli legittimi) seguaci del loro credo, e che le altre interpretazioni siano false, sbagliate e fuorvianti, oltre al desiderio di ripristinare pratiche e riti nella loro forma «pura e originale», il tutto combinato con una lettura restrittiva, letterale e astorica delle rispettive sacre scritture. Inutile dire che non tutti i gruppi fondamentalisti ammettono la violenza o intraprendono azioni violente, ma quasi tutti i gruppi religiosi violenti tendono a essere fondamentalisti nell’approccio alla fede e alla religione. Le ragioni per il riemergere della religione come giustificazione per la violenza politica sono tante e complesse: tra queste, il periodo che ha portato alla guerra fredda e ne ha seguito la fine ha provocato l’indebolimento o il totale disgregamento di molti gruppi di stampo ideologico, oltre al declino generalizzato delle ideologie politiche che li sostenevano. Inoltre, il già illustrato arrivo delle forze della globalizzazione e l’indebolimento degli Stati hanno dato più forza alle identità preesistenti, in particolare a quelle religiose ed etniche.
Un’altra tendenza importante se si guarda alle guerre interne e alle insurrezioni a motivazione religiosa dell’epoca post-guerra fredda – e in maniera ancora più pronunciata dopo l’11 settembre – è il loro concentrarsi in paesi a maggioranza musulmana e l’ascesa di gruppi insurrezionali che dicono di agire in nome dell’Islam.3 È importante osservare qui che la religione da sola non spiega questa tendenza. Per essere chiari: se nell’Islam ci fosse qualcosa che rende le nazioni musulmane intrinsecamente più soggette al conflitto, questo si sarebbe potuto osservare in tutto il corso della storia. Peccato che non sia così: per esempio, durante la stessa guerra fredda il numero di guerre nei paesi a maggioranza musulmana è cresciuto «più lentamente della media».4 Al contrario, il numero di guerre civili nei paesi musulmani è aumentato soprattutto dopo il 2001, e il numero di rivolte proclamatesi musulmane nel mondo è diventato un fenomeno solo dopo il 1979, raggiungendo il culmine, di nuovo, dopo il 2001. Quindi è evidente che sono stati gli eventi politici, geopolitici e storici degli ultimi decenni (come ormai dovremmo sapere a questo punto del libro) a portare alla situazione attuale: per esempio, i postumi del colonialismo, l’ascesa post-coloniale di Stati molto disfunzionali e spesso autoritari e il disastroso impatto degli interventi stranieri. In questo contesto le interpretazioni estremistiche della religione sono state usate come efficaci strumenti politici e come mezzi per pubblicizzare e vendere la violenza, come vediamo nell’esempio dell’ISIS. Ma le idee e la contestualizzazione della realtà promosse da un gruppo come IS mostrano davvero differenze così drastiche rispetto ad altre organizzazioni violente, laiche o religiose, attive oggi?

Guida all’uso della religione nel marketing della violenza

Vediamo ora il modo in cui un gruppo come l’ISIS usa la religione per rappresentare il ricorso alla violenza come qualcosa di naturale, necessario, razionale e addirittura obbligato; proprio come la maggioranza delle più efficaci ideologie violente. Ma prima di prendere in esame l’ideologia ufficiale del gruppo dobbiamo cercare di capire meglio il suo rapporto con la religione in generale e con l’Islam nel suo complesso.
Innanzitutto le branche estremiste, fondamentaliste e tendenti alla violenza di una certa religione spesso pretendono di parlare per conto del proprio credo, ma questo non è quasi mai vero. Il cosiddetto Stato Islamico non fa eccezione. Perché? Prima di tutto perché una delle caratteristiche del mondo musulmano è il fatto di essere molto vasto e variegato, e di comprendere un grande numero di scuole, pratiche e interpretazioni diverse. Dato che non esiste un leader centrale o un giudice supremo della «verità» (per capirci, non c’è un papa), questo consente a una pluralità di voci di coesistere senza un giudice finale, accettato da tutti e nominato formalmente, che stabilisca nel dettaglio il dogma da seguire. Cosa ancora più decisiva, l’interpretazione dell’Islam promossa dall’ISIS si distacca in maniera molto radicale da secoli di storia e di sviluppo, è stata criticata dalle principali autorità religiose del mondo musulmano e gode di uno scarso sostegno da parte della gente. Per esempio, il Pew Research Center – una delle istituzioni più affidabili in materia di indagini sull’opinione pubblica – ha raccolto informazioni in undici paesi con una popolazione musulmana significativa e ha concluso che le opinioni generali sull’ISIS erano «nella stragrande maggioranza negative» (altre ricerche sono arrivate alla stessa conclusione).
Detto questo, credo sarebbe scorretto tralasciare di sottolineare che la religione – anche se in una versione del tutto sui generis, e che molti considerano distorta – ha una grande importanza e plasma la visione del mondo del gruppo. Anche i suoi documenti e discorsi sono pieni di citazioni del Corano, sebbene la loro (molto restrittiva) selezione, (re)interpretazione, riformulazione e (de)contestualizzazione siano molto distanti dalla lettura e dalle regole interpretative correnti.
Di conseguenza sarebbe del tutto scorretto affermare che l’ISIS rappresenta o parla in nome dell’Islam (frase tanto sconcertante quanto ripetuta a tamburo battente dai mass media). Non è vero e non può essere vero, e sostenere il contrario tradisce una conoscenza assai fumosa della religione e della storia. D’altro canto è giusto dire che l’interpretazione violenta della religione da parte del gruppo e il suo rifiuto dell’attuale ordine sociopolitico plasmano e rafforzano le sue azioni e la sua strategia.
Per contestualizzare l’interpretazione e la pratica della religione da parte dell’ISIS su un più ampio sfondo storico, bisogna dire che il gruppo si allinea a una serie di movimenti marginali estremisti e fondamentalisti emersi (e scomparsi) in secoli di storia islamica (un po’ com’è successo nella storia e nello sviluppo di tutte le principali religioni mondiali). Da questo punto di vista non è una coincidenza che i detrattori del gruppo parlino dell’ISIS come dei nuovi «kharigiti», riferendosi a una setta violenta e fondamentalista dell’Islam sunnita che tentò di seminare il caos nell’Arabia del VII secolo.
Descrivere nel dettaglio le radici dottrinarie che sottendono all’ideologia dell’ISIS va molto oltre gli scopi di questo libro, e richiederebbe un’approfondita analisi storica e teologica: limitiamoci a di...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La fine del terrorismo
  4. Introduzione
  5. Parte prima. UNA QUESTIONE DI TEMPISMO
  6. Parte seconda. DALLA CANTINA ALL’ATTICO: LA VIOLENZA POLITICA OGGI
  7. Parte terza. BRANDING, MARKETING E VENDITA DELLA VIOLENZA
  8. Note
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright