Questa volta attorno all’Etna non c’era nemmeno una nuvola. In una settimana l’estate s’era avvicinata a grandi passi all’Italia e a Portopalo doveva essere già africana: la canicola del piazzale dell’aeroporto di Catania ne era un inequivocabile preannuncio.
L’auto a noleggio era scura ed enorme. Avevo raccomandato che fosse «grande», la più grande a disposizione, perché dentro dovevano starci altre due persone e il ROV, Remotely Operating Vehicle, un robot in grado di esplorare gli abissi più profondi. M’avevano accontentato: quella macchina sembrava un carro funebre per comitive.
È infrequente nel giornalismo la ricerca diretta della prova materiale d’un evento. Di solito si lavora sui testimoni: non si va a cercare l’uomo che morde i cani ma eventualmente si intervista il suo analista. Il giornalismo investigativo puro, quello che «trova» la prova, sta alla pratica delle redazioni quanto il dottor Kildare sta alla vita ospedaliera. Ci avevo pensato bene, prima di proporre che fossimo noi a condurre la ricerca del relitto della cosiddetta nave fantasma. Detta così, sembrava il titolo d’un film di Indiana Jones. Inoltre, a parte le certezze di Salvo, non esisteva alcuna garanzia di successo e non avevo la minima idea degli aspetti tecnici dell’impresa.
Subito dopo la pubblicazione del pezzo sul segreto di Portopalo, m’ero deciso a parlarne con Mauro Piccoli, il mio caporedattore, che aveva avuto l’OK della direzione. Roberto Orlando, uno dei suoi collaboratori, era stato incaricato di svolgere una specie di studio di fattibilità e, dopo aver parlato con alcune società di sommozzatori professionisti, aveva accertato che una simile impresa era molto costosa. Anziché rinunciare, Roberto aveva provato a cercare soluzioni alternative e, navigando su Internet, s’era a un certo punto imbattuto nel ROV, lo stesso robot sottomarino utilizzato per riprendere il relitto del Titanic. In Italia lo possedeva una cooperativa di Vibo Valentia, città della costa tirrenica della Calabria. I responsabili s’erano detti ben contenti di collaborare. Avevano qualche ricordo del naufragio del Natale 1996 e condividevano l’idea di chiarire definitivamente il cosiddetto mistero. L’accordo era stato raggiunto. Prevedeva la disponibilità, per tre giorni, del ROV e di due tecnici specializzati.
Erano le persone che, di lì a una mezz’ora, avrebbero dovuto raggiungermi nel parcheggio dell’aeroporto. Quando c’eravamo sentiti per definire le modalità dell’appuntamento, m’avevano detto che non avrei avuto alcuna difficoltà a riconoscerli perché sarebbero arrivati a bordo d’un furgone bianco con una grande scritta su entrambe le fiancate: «Cooperativa Nautilus – Ricerche oceanografiche».
La notizia m’aveva atterrito. Se fossimo entrati a Portopalo con un mezzo di quel genere, don Calogero avrebbe suonato le campane a stormo, tutti avrebbero saputo cosa avevamo in mente di fare, dietro il peschereccio di Salvo si sarebbe formata una tale coda di barche di curiosi che nemmeno il giorno della processione della Vergine del Mare. Avevo suggerito di trasferire tutto il materiale in un altro mezzo, anonimo. Adesso, più guardavo il «carro funebre», più avevo dubbi sulla bontà della mia idea.
Da un cartellone pubblicitario appresi l’esistenza, appena fuori dall’aeroporto, d’un grosso centro commerciale dotato di parcheggio. Misi in moto il catafalco. M’aggiravo tra i banchi del reparto alimentare quando, prima in modo lieve, poi sempre più intenso, cominciai a sentire quella speciale forma d’ansia che deriva dal terrore del ridicolo. Ne avevo avvertito i sintomi a Roma quando m’era stato detto il nome della Nautilus, lo stesso del sommergibile comandato dal capitano Nemo. Rischiavo di diventare per sempre «l’inviato Nemo». Le redazioni dei giornali sono nidi di vipere.
Subito dopo l’incontro nel piazzale dell’aeroporto e il trasferimento dell’attrezzatura dal furgone Nautilus a quello anonimo, saremmo partiti in direzione sud. Salvo ci avrebbe atteso nei pressi d’un distributore alla periferia di Pachino per poi guidarci direttamente, senza passare per Portopalo, fino alla sua casa di campagna, quella delle pizzate con Di Cosmo e famiglia. Se malauguratamente qualche vicino ci avesse notato, avremmo risposto che eravamo turisti appassionati di diving. Lanciai nel carrello una busta di limoni. Che cazzo se ne faceva di tutti quei limoni? «Contro lo scorbuto. Nemo era anche il medico di bordo.»
Rimisi gli agrumi al loro posto e il pensiero improvviso di Salvo scacciò di colpo le ansie personali. In quella settimana c’eravamo sentiti quotidianamente per telefono. Fin dal giorno in cui era uscito l’articolo aveva avvertito attorno a sé un clima ostile. Nonostante tutte le precauzioni, era stato subito individuato come la fonte principale delle notizie apparse sul giornale. L’accusavano d’aver causato un grave danno all’immagine del paese. L’ultima novità era la leggenda del «pesce cannibale», un’autentica catastrofe per l’economia locale. Qualcuno dei grossisti aveva cominciato a trattare al ribasso, sostenendo che i clienti parlavano con orrore della possibilità che il pesce di Portopalo, essendosi mischiato con tanti cadaveri, se ne fosse anche nutrito e che perciò si fosse, in un certo senso, «umanizzato». Salvo aveva interrotto a metà la mia risata: «Guarda che lo dicono seriamente!».
La notizia del suo rapporto con me non aveva seguito le stesse dinamiche di quella del naufragio: non s’era nascosta tra i tavolini del bar Mizzi, non era stata dispersa dal vento tra Capo Passero e l’Isola delle Correnti, né s’era impigliata nei festoni protervi di don Calogero. Era arrivata in un baleno alla polizia e Salvo era stato subito convocato al commissariato di Pachino. Rischiava seriamente d’essere messo sotto accusa non solo da una parte non piccola e potente dei suoi compaesani, ma anche, in modo formale, dalla magistratura. Il recupero del tesserino provava che aveva avuto un contatto coi resti delle vittime e questo solo fatto l’esponeva al rischio d’una incriminazione per occultamento di cadavere.
Una posizione molto scomoda anche perché – mi era sempre più chiaro – c’era una parte della storia della carta d’identità di Anpalagan che Salvo non poteva raccontare, la parte iniziale: dal recupero del documento al momento in cui l’aveva affidato a Luciano Di Cosmo perché lo desse a qualche giornalista. Cinque mesi.
Il giorno della pubblicazione dell’articolo era andato a Portopalo un esperto collega siciliano, Attilio Bolzoni. Di buon mattino, con la copia del giornale tra le mani, era entrato nella sede dell’ufficio marittimo. Il marinaio di guardia, vedendo la prima pagina con la carta d’identità di Anpalagan, aveva esclamato questa strana frase, che Attilio aveva annotato testualmente: «Ma quella me l’ha data a me!». Poi s’era ammutolito. Alla richiesta di spiegazioni, aveva risposto balbettando d’essersi sbagliato. Subito dopo, il comandante dell’ufficio, Pietro Candido, aveva dichiarato che lui sulla vicenda dei cadaveri buttati in mare aveva sentito solo delle vaghissime voci alle quali non aveva dato peso. M’era sempre più chiaro che Salvo s’era imbattuto in qualche seguace dell’undicesimo comandamento.
L’articolo sui cadaveri ributtati in mare aveva fatto fare una pessima figura agli investigatori della zona. Era possibile che mai avessero avuto il sentore d’una vicenda nota a quasi tutto un intero paese? No. E infatti s’era scoperto che i poliziotti non solo ne avevano avuto il sentore ma che, meno di un anno prima, uno di loro aveva trasformato quelle «voci» in un rapporto ufficiale. Attilio Bolzoni ne era venuto in possesso e l’avevamo pubblicato. La data era 23 ottobre 2000: l’autore – un’ispettrice del commissariato di Pachino – scriveva d’aver saputo da «fonte confidenziale» che dopo il misterioso naufragio del Natale 1996 i pescatori avevano trovato i cadaveri di molte delle vittime e avevano preferito ributtarli in mare. Ma su quelle inquietanti voci, la polizia non aveva svolto alcun accertamento. Il rapporto era stato inviato alla procura della Repubblica di Siracusa, era finito nel fascicolo dell’inchiesta sul naufragio ed era rimasto là.
Ora si tentava di giustificare quell’inerzia attribuendone la responsabilità proprio a Salvo. La tesi era che se, anziché a un giornalista, avesse fatto avere quel documento alle autorità, il caso sarebbe stato risolto. Su questo postulato falso si fondava l’ipotesi successiva: che Salvo avesse recuperato il tesserino parecchi mesi prima, forse addirittura nei giorni immediatamente successivi al naufragio, e l’avesse tenuto per sé per qualche inconfessabile ragione.
Nel 1875, quando l’Italia come Stato unitario era appena nata, Leopoldo Franchetti, che tra l’altro era un conservatore, svolse un’indagine in Sicilia e giunse alla conclusione che negli ambienti controllati dalla mafia «si adopera la legge soltanto per eluderla». Attorno a Salvo era in atto quel movimento di risacca che, lentamente, trasforma il bianco in nero, l’accusatore in accusato, l’innocente in colpevole. In quei giorni, cercando su Internet qualche altra notizia su Portopalo, avevo trovato un articolo che parlava d’una inchiesta su un gruppo di mafiosi ai quali era venuta l’idea di arrotondare i guadagni obbligando i titolari dei duecento pescherecci della marineria portopalese a pagare centomila lire al mese, un po’ più di cinquanta euro, per la custodia delle loro barche. Il bello era che, quando nel 1999 diciassette di questi furbacchioni erano finiti in galera, i pescatori stessi li avevano difesi al grido di: «Vogliamo pagare il pizzo».
Anche lo zio Bala era stato interrogato immediatamente. Se, mentre mi aggiravo tra i banchi della frutta, avessi saputo come gli investigatori avevano utilizzato la sua testimonianza, i miei timori per Salvo si sarebbero trasformati in angoscia. «Questo ufficio» scrisse il dirigente del commissariato di Pachino in una relazione per la procura di Siracusa «ritiene altamente probabile che a rinvenire il documento identificativo sia stato proprio il Lupo Salvatore, non escludendosi che quest’ultimo possa essere stato uno dei pescatori che, subito dopo il naufragio, rinvennero i cadaveri. Ma vieppiù, infatti il documento in questione risulta essere in ottimo stato di conservazione e appare improbabile che esso sia stato rinvenuto pochi mesi orsono, quindi è verosimile che dopo il rinvenimento sia stato conservato, piuttosto che consegnato agli organi competenti nonostante vi fosse il fondato motivo di ritenere che esso potesse essere appartenuto a uno dei naufraghi del Natale 1996.»
Nel piazzale dell’aeroporto trovai il furgone della Nautilus. La scritta sulla fiancata era davvero enorme.
Ahmed Sheik Turab non è di buon umore mentre va all’appuntamento con Eftichios Zerboudakis. Non gli è mai piaciuto: è volgare e puzza. Una volta a cena, in un ristorante di Sliema, la zona turistica di Malta, se l’è fatto dire persino dalla cameriera: «Cos’è quest’odore?» ha domandato la ragazza, annusando l’aria attorno al loro tavolo. Non ci aveva fatto caso – era già mezzo ubriaco e la parte del cervello ancora in funzione era tutta concentrata nel business – ma lui, Turab, aveva sentito perfettamente e ancora ne rideva.
Era successo un anno prima. Quella volta stavano organizzando il trasferimento in Sicilia d’un carico di duecento persone. Sembravano tante. Adesso ne erano in arrivo più di quattrocento. Fece i conti: tolte le spese per i trasferimenti aerei, il pagamento degli agenti locali, la corruzione delle dogane e della polizia, a Pavlo e soci restavano circa tremila dollari per passeggero, un milione e duecentomila dollari di utile netto. Era senza dubbio il business più grosso mai fatto. E questo spiegava l’arrivo a Malta di Zerboudakis. In passato era sempre venuto solo alla vigilia del traghettamento.
Il fatto è che questa volta i soliti mezzi sono insufficienti. A usarli, ci vorrebbero da sei a otto viaggi dalla nave alla costa. Impensabile: già fare due sbarchi consecutivi è rischioso. È stata la prima cosa che ha detto a Pavlo: bisogna acquistare una barca abbastanza grande per portarli tutti in una volta. La trattativa si è complicata proprio su questo punto. Turab, applicando le tariffe normali, ha chiesto centomila dollari, duecento per ogni passeggero, Pavlo ha sostenuto che, se si ha un mezzo adeguato, il numero delle persone da trasportare non aumenta né il rischio né il tempo di lavoro. Alla fine hanno convenuto che era meglio parlarne a quattr’occhi e Pavlo ha detto a Zerboudakis di partire per Malta.
Secondo Turab – che sulle date m’ha dimostrato di avere ricordi molto precisi – quella riunione si svolse il 12 dicembre 1996. Questo significa che, quando la Yiohan giunse nel mare di Malta, l’organizzazione non disponeva ancora del mezzo navale idoneo a coprire l’ultima parte del viaggio. Una circostanza che aggrava la posizione di Pavlo, Zerboudakis e Turab, e che attenua le responsabilità di Youssef El Hallal il quale, almeno per questa parte della vicenda, assume un ruolo intermedio tra le vittime e i carnefici. Di certo i partecipanti a quell’incontro vanno inclusi nella lista dei nemici diretti di Anpalagan. Sono, oltre a Zerboudakis e Turab, il tunisino Khaled Ben Snoussi e il greco residente a Malta Dionisios Augerinos.
Ben Snoussi è un professionista del traffico d’esseri umani. Turab ci ha lavorato spesso assieme. L’ultima volta circa tre mesi prima, verso la fine dell’estate, e proprio per un altro traghettamento dalla Yiohan. Partirono da Malta nel primo pomeriggio con due mezzi: Ben Snoussi su un vecchio barcone che si chiamava Santa Maria, Turab con un motoscafo veloce. Raggiunta la Yiohan, trovarono due sorprese: una ragazza rumena molto giovane che, secondo Turab, Youssef El Hallal s’era portato appresso per il viaggio e quattro pakistani. Qualche giorno prima, in alto mare, avevano appiccato il fuoco a un mucchio di pezzi di cartone: un gesto da pazzi. A quanto pare non erano soddisfatti del trattamento a bordo. El Hallal e l’equipaggio li avevano bloccati e chiusi in una cabina. Concluso il trasbordo di tutti gli altri migranti, venne il momento di tirare fuori dalla cella i quattro ribelli e di riportarli rapidamente alla ragione, in modo da non correre rischi durante il trasferimento fino alla Sicilia. Li pestarono. Forse un po’ troppo: alla fine uno dei quattro non si reggeva in piedi, i suoi compagni dovettero prenderlo di peso per portarlo sulla Santa Maria.
Un professionista, Ben Snoussi, ma purtroppo anche un alcolizzato. Non che Turab si tirasse indietro davanti a una bottiglia di whisky, anzi. Ma Khaled, quando beveva, perdeva il controllo e diventava inaffidabile. Era stato lui ad accanirsi su quel pakistano fin quasi a ucciderlo. E forse l’avrebbe fatto, se non gliel’avessero tolto dalle mani. Turab ha deciso di tenerlo fuori dalle operazioni in mare.
Ma questa volta il tunisino ha un ruolo diverso. Possiede una barca che forse può risolvere il problema del traghettamento dei quattrocento fino alla Sicilia. Chiede cinquantamila dollari. Una bella cifra per un vecchio legno della Marina inglese che è passato in mille mani ma non ha mai avuto un nome, come un bastardo: viene individuato solo per la sigla che gli hanno attribuito le autorità marittime, F-174. Secondo Turab non vale nemmeno la metà del prezzo richiesto, ma il tempo è poco e non si può andare per il sottile. E poi a pagarlo sarà Pavlo. È lui che ha creato il problema.
L’altro partecipante alla riunione, Dionisios Augerinos, greco di nascita ma da anni cittadino maltese, è un uomo di Zerboudakis col quale è anche imparentato alla lontana. La prima volta che ha lavorato con lui, Turab è rimasto sorpreso: lo conosceva come ingegnere navale e come pilota dell’aliscafo di linea tra La Valletta e Pozzallo, una cittadina siciliana a venti chilometri da Portopalo, e mai aveva immaginato di poterselo trovare accanto negli sbarchi clandestini. Col tempo è diventato una sorta di proconsole di Zerboudakis a Malta: a dispetto dell’età e del suo status di insospettabile, verso il suo connazionale ha un atteggiamento sottomesso, timoroso.
Quando entra nell’appartamento dove è stato convocato il meeting, Turab nota subito i due greci che parlano tra loro. Zerboudakis è appena sceso dall’aereo, ma al solito non ha alcun bagaglio, nemmeno una borsa. Saluta con un movimento della testa, senza alzarsi dalla sedia, e gli versa da bere. Augerinos tende la mano in modo un po’ goffo.
Ben Snoussi s’è già attaccato a una bottiglia di whisky. Ha capito perfettamente la situazione di bisogno in cui si trova l’organizzazione e non abbassa il prezzo d’un centesimo. Zerboudakis chiede garanzie sull’affidabilità del mezzo e soprattutto sul fatto che sia disponibile in tempi rapidi. È a posto, assicura Khaled. Turab sa che mente e ha gi...