Tutto cominciò con Napoleone. Se non fosse stato per lui, oggi non sarei qui seduto a scrivere queste pagine. Non mi riferisco al bellicoso criceto dorato che possedevo una volta e che avevo chiamato con quel nome, ma a Bonaparte in persona, perché fu una delle sue palle di cannone, sparata durante la guerra di Spagna, a strappare un braccio al mio trisavolo James Morris e a modificare l’intero corso della mia storia familiare.
Benché possa sembrare crudele da parte mia, ammetto che sono grato a quel proiettile. Prima che fosse sparato, i miei antenati avevano vissuto coltivando i fertili campi ondulati ai confini tra il Galles e l’Inghilterra, mentre dopo che ebbe fischiato nel cielo di Spagna disarmando il povero James, questi non poté più coltivare la terra. Tornato a casa invalido, decise di fare il libraio e aprì una libreria in una cittadina sede di mercato: Swindon, nel Wiltshire. Suo figlio William, il mio bisnonno, crebbe circondato dai libri e maturò una crescente ossessione per la parola scritta.
Divenuto un giovane uomo, William nel 1854 fondò un quotidiano di cui era editore, direttore, tipografo e giornalista. Fu il primo giornale da un penny mai pubblicato in Gran Bretagna e segnò una rivoluzione nel giornalismo nazionale. Prima d’allora i quotidiani erano stati talmente cari che solo l’élite se li poteva permettere, ma William detestava quella che definiva la “signorarchia” e voleva mettere le notizie a disposizione del grande pubblico.
L’iniziativa ebbe immediato successo e, benché il bisnonno fosse costantemente attaccato dai conservatori e la sua effigie venisse bruciata sulla piazza del mercato, il quotidiano vendette benissimo e aumentò il numero di pagine. William continuò a esserne il direttore per il resto della vita, ossia per trentasette anni, durante i quali maturò anche una passione per la storia naturale. Siccome da bambino aveva spasimato per i libri scientifici che il padre vendeva ai naturalisti locali, da adulto si era dato come obiettivo di mettere insieme una ragguardevole biblioteca privata.
Fu un volume superstite di quella biblioteca a cambiarmi la vita. Il grosso della collezione era stato venduto poco dopo la morte del bisnonno, ma mio padre aveva ereditato un baule pieno di cose sue, tra cui quell’unico, glorioso tomo.
Il baule era stato relegato nell’angolo più remoto della soffitta, ingombra di cianfrusaglie. Mio padre, scrittore di libri per l’infanzia, aveva la simpatica abitudine di non buttare mai via niente, e di conseguenza per un bambino curioso come me la soffitta si era trasformata in una misteriosa stanza del tesoro. Passavo molte ore lassù, a esaminare gli strani trofei che il babbo aveva riportato dai suoi viaggi all’estero. Alcuni bauli erano troppo pesanti perché li potessi spostare e aprire in mezzo a quella baraonda, e cominciai a fantasticare che in quegli oscuri recessi si annidassero entità magiche e sinistre di cui un giorno avrei conosciuto la natura.
Il grande momento arrivò quando, diventato abbastanza forte da poter spostare parecchi scatoloni e casse, scoprii il baule di William. Scoperchiandolo, ebbi la gioia di trovare un vecchio, magnifico microscopio di ottone in un astuccio di mogano. Accanto, avvolti in carta ingiallita, c’erano dei bellissimi minerali: fluorite e malachite dai vividi colori; pirite scura e sinistra; quarzo chiaro e scintillante. In una scatola a parte rinvenni un mucchio di fossili e conchiglie: grandi ammoniti e minuscoli gasteropodi, lisci bivalvi e bitorzoluti echinodermi, nonché un oggetto che mi affascinò moltissimo, uno splendido pezzo di legno fossilizzato. Dentro una scatola di latta arrugginita, accuratamente avvolti nell’ovatta e nella carta velina, trovai dei cavallucci marini essiccati, mentre in una bacheca di vetro c’era una collezione di vellutate farfalle tropicali.
Dal fondo del baule emerse un grande volume del diciassettesimo secolo, un pesante in folio rilegato in un cuoio scuro e rinsecchito come la pelle di una mummia egizia. Il titolo, che mi entusiasmò, era Anatomia Comparata di Stomaci e Intestini Principiata. Fu la parola “principiata” ad affascinarmi in modo particolare. Essendo io stesso un principiante, mi sentii incoraggiato a pensare che si potesse pubblicare un libro su un argomento che si era solo “principiato” a conoscere.
Le illustrazioni erano a dir poco curiose. Le serie di visceri che l’autore, un fisiologo di nome Nehemiah Grew, aveva sezionato, erano raffigurate nelle loro circonvoluzioni con una precisione quasi maniacale, e ricordavano i vecchi radiatori dei riscaldamenti centralizzati. C’erano visceri eleganti, visceri osceni, visceri gotici e visceri rococò. La mia figura preferita era la numero 28, “Gozzo, magone e visceri di pollo ruspante”, che avrebbe sicuramente deliziato i surrealisti allora attivi a Parigi. Disincarnate, squisitamente incise e prive di odori sgradevoli, quelle interiora animali mi parvero oggetti meravigliosi.
Nel libro di Grew c’era un’altra sezione, un catalogo illustrato delle “Rarità naturali e artificiali” possedute dalla Royal Society, della quale il fisiologo era segretario. Il catalogo pullulava di voci bizzarre e leggendo capii che, in fondo, non ero il solo a essere attratto da strani oggetti. Penso per esempio a “Grosso calcolo asportato dalla vescica di un cane, donato dal reverendissimo Seth, Lord Vescovo di Salisbury”. Mi colpì molto il contrasto fra la vescica del cane e il vescovo membro della Camera dei Lord. Penso anche a “Due palle sferiche pelose, e ricoperte di una crosta liscia e sottile. Del diametro di circa cinque centimetri e del colore del bezoario occidentale, sono prive di sapore e di odore, e non reagiscono se intaccate da acido”. Erano state rinvenute nello stomaco di un animale non identificato, e il fatto che il dottor Nehemiah Grew le avesse assaggiate mi pareva un esempio di estrema devozione alla causa scientifica.
Alcune voci erano a dir poco sconcertanti e non riuscivo a capirle. “Dente estratto dal testicolo o dall’ovaio di una donna e donato al dottor Edward Tyson. Duro e bianco quanto un dente della bocca.” Nel corpo umano c’erano evidentemente dei misteri che superavano la mia capacità di comprensione, ma questo rendeva l’argomento ancora più interessante.
Mi piacevano soprattutto i nomi degli animali elencati, come la lumaca dalle labbra gonfie, il pesce pipa, il punee acuminato, il grande coleottero dagli occhi sporgenti, il nocoonaca, l’ostrica piede d’asino, il veliero perlaceo, il girino dal ventre lungo, il murice dalla conchiglia a grappolo, il tafano aprico, la pseudosfinge tetrio, il cardio nero dischiuso, il pesce palla egiziano, la grande strolaga picchiettata di Norvegia. Non si riuscirebbe neanche per scherzo a inventarsi nomi così curiosi, eppure quelli erano seriamente elencati come “rarità naturali” della grande collezione della Royal Society. La storia naturale mi sembrò non solo meravigliosamente inquietante (la raccolta comprendeva un “utero di donna gonfiato ed essiccato” e un “mostruoso vitello bicefalo”), ma anche molto divertente. Nehemiah Grew e io diventammo subito anime gemelle.
Quando scesi le ripide scale del solaio stringendo il pesante microscopio, ero tutto eccitato. Fin da piccolo amavo gli animali e avevo sempre avuto attorno tante bestiole domestiche. Per fortuna, la tolleranza di mia madre per le mie eccentricità infantili era infinita. Molti altri genitori avrebbero cercato di frenare le passioni stravaganti dei figli, ma io fui fortunato. La casa, il giardino e il garage della nostra dimora di Swindon traboccavano di una varietà faunistica che avrebbe fatto ammattire la maggior parte delle madri, lei invece guardava alla mia ossessione per gli animali con una serenità e una comprensione che, ripensandoci oggi, ha dell’incredibile. Aveva sopportato di trovare lucertole e serpenti nella stanza dei giochi, gatti in cucina, porcospini in garage, topi di campagna in soffitta, fringuelli nella serra, conigli e porcellini d’India nel rustico, pesci persici e leucischi nella vasca dei pesci, tritoni nel giardino giapponese, rospi nel giardino all’inglese, volpi nella voliera e un pappagallo in sala da pranzo. Adesso, armato del microscopio del bisnonno e incoraggiato dallo spettro solidale di Nehemiah Grew al mio fianco, stavo per esplorare ancora più capillarmente il mondo segreto della storia naturale che già assorbiva gran parte del mio tempo.
Alla base dell’astuccio c’era un cassetto poco profondo nel quale trovai alcuni vetrini di epoca vittoriana. Mi divertii a osservarli sotto la lente, ma in realtà erano gli esseri viventi che desideravo studiare e mi misi subito a cercarne qualcuno. Annesso alla proprietà di mia nonna c’era un laghetto e fu là che mi diressi, portandomi dietro un tintinnante armamentario di secchi, bottiglie e vasi in cui mettere il bottino di fango, melma e alghe. Appena arrivai, sguazzai nell’acqua bassa come un piccolo bufalo indiano, raccogliendo schifezze sferiche o filamentose fino a riempire i contenitori. Trionfante, tornai al lucido microscopio di ottone e iniziai la tanto sospirata esplorazione dell’infinitamente piccolo.
Ciò che vidi mi annichilì. Ero entrato in un regno segreto in cui i flagelli avevano un movimento ondulatorio, le ciglia battevano con regolarità, le cellule si dividevano, le antenne erano articolate, gli organuli pulsavano. Passavo così tanto tempo chino sull’oculare del magico strumento ed ero talmente affascinato dallo spettacolo, che mi sarei lasciato volentieri inghiottire dal tubo del microscopio come aveva fatto Alice nella tana del coniglio.
Mi pareva incredibile che chi si entusiasmava per la bellezza del Wiltshire non conoscesse il paesaggio altrettanto meraviglioso delle forme e degli organismi microscopici. Quelle persone si perdevano uno spettacolo mozzafiato, presente in ogni goccia di acqua stagnante, in ogni chiazza di fango, in ogni particella di muffa. Il più volgare frammento di terriccio si trasformava in una foresta brulicante di forme di vita strane e incredibilmente complesse, al confronto delle quali i mostri e i robot della fantascienza risultavano rozzi e banali.
Crescendo, persi gradatamente interesse per le bestiole domestiche e cominciai a interessarmi sempre più all’osservazione degli animali nel loro habitat naturale. Da padrone di animali mi stavo a poco a poco trasformando in osservatore di animali. Passavo sempre più tempo sul lago della nonna, solo con i miei amici animali. Siccome mio padre, che si era rovinato la salute nelle trincee della Prima guerra mondiale, era ormai costretto a letto, la mamma doveva dividersi tra lui e la gestione della piccola attività di famiglia, sicché io, figlio unico, stavo quasi sempre per conto mio. Ma non ero mai triste. Mi godevo la mia solitudine e mi ritirai sempre più nel regno della biologia.
Smisi di catturare animali e anche di pescare, e abbandonai la canna da pesca in garage, dove ben presto si ruppe e diventò inutilizzabile. In un vecchio capannone trovai lo scheletro di una canoa con la tela strappata e logora, ma la struttura in legno perfettamente integra. Comprai della pece, la misi in un pentolone e la sciolsi sul fuoco. Poi ricavai diversi quadrati da una vecchia stoffa e ne rivestii tutta la canoa. Facendomi aiutare, la trasportai al lago e la varai, navigando per la prima volta in vita mia. Sdraiato a pancia in giù sull’imbarcazione, tenevo la faccia a pelo dell’acqua e guardavo i pesci nel loro oscuro mondo subacqueo. Giorno dopo giorno, passavo le ore a galleggiare con il viso quasi dentro l’acqua.
L’idea di catturare un pesce con un amo acuminato adesso mi pareva orribile. Sapevo dove si procurava il cibo la grossa tinca e dove il luccio più grande aspettava di divorarsi gli ignari avannotti di leucischi. Vidi che il luccio muoveva le mascelle da un lato all’altro quando aggrediva la preda con un guizzo simile a quello dei serpenti, e che quello strano movimento faceva ruotare la preda, che così gli entrava in bocca dalla parte della testa. Notai che il pesce persico era molto più audace degli altri pesci, perché aveva pinne dotate di aculei e raggi spinosi che si conficcavano nella gola del luccio impedendogli di deglutire.
L’ansia di dominare e controllare gli animali del mio ambiente, così comune tra i maschietti, si stava convertendo nel desiderio di capirli. Non mi sentivo però di parlare di questo cambiamento con gli amici. In una contea rurale sarebbe stato considerato un atteggiamento da deboli, per cui non ne feci parola con nessuno e proseguii nelle mie osservazioni.
In primavera gli uccelli acquatici si radunavano sul lago e le loro strane danze ed esibizioni di corteggiamento mi distraevano dagli studi sui pesci. Trovavo difficile comprendere quei movimenti, tuttavia ne restavo affascinato. Tornato a riva, spesso vagavo per il fitto sottobosco, dove molti altri uccelli più piccoli facevano il nido tra alberi e cespugli. Imparai che era importante stare seduti tranquilli ad aspettare. Era incredibile vedere quanto brulicasse di vita il sottobosco dopo pochi minuti di silenzio. I miei amici campagnoli mi avrebbero apprezzato solo se me ne fossi rimasto rannicchiato in attesa di sparare con un fucile ad aria compressa o a canne mozze, ma niente era più lontano dalla mia mente. Ero diventato un cacciatore di cose da vedere, non da uccidere.
Nella pozza di una radura scoprii una colonia di rospi che stava deponendo le uova. Tornavo lì ogni giorno per controllare lo sviluppo dei girini e rimasi stupito quando vidi che spesso nuotavano tutti in una zona ignorando l’altra. Non capivo il motivo di quel comportamento e cominciai a chiedermi quale “ragionamento” inducesse un girino a unirsi agli altri. Mi domandai, inoltre, se la nozione appresa dal girino sarebbe poi stata ricordata dal rospo adulto o se la metamorfosi avrebbe cancellato quella memoria.
Certo, non conoscevo la parola “metamorfosi” e le mie idee non erano chiare e ben definite, ma facevo ragionamenti più o meno di questo tipo. Senza alcuna istruzione specifica, cominciavo a modo mio a maturare una curiosità scientifica e presto avrei conosciuto un uomo che l’avrebbe ulteriormente stimolata, inducendomi a fare un salto di qualità.
Nessuno sapeva perché fosse soprannominato “Ranuncolo” e io non ho mai osato chiederglielo, ma il nome era così discordante dal personaggio da risultare perfetto. La maggior parte degli insegnanti ignora il proprio nomignolo, lui invece lo conosceva e, nelle poche occasioni in cui ci scrivemmo, si firmò sempre così.
Ranuncolo fu il mio insegnante di zoologia al college e, a suo modo, era un piccolo genio. Non avrei mai più incontrato un insegnante come lui, e fu per me una grande fortuna che la zoologia fosse sia la mia passione sia la sua materia. Nella sua impostazione eterodossa, partiva da un sovrano disprezzo per il programma di studio e dall’idea che, come studenti del sesto anno, dovessimo fare di più, impegnandoci in progetti di ricerca di livello già universitario. È incredibile quanta strada possa fare uno studente se gliene viene data una minima possibilità. Ranuncolo aveva però un difetto: nutriva rabbia e un profondo disprezzo per chiunque dei suoi allievi non provasse interesse per la materia. Non c’era niente di equo e di imparziale in lui e questo faceva parte del suo fascino. Persona vera, animata da forti passioni, Ranuncolo era un eccentrico e se ne infischiava di conservare la “facciata” del docente.
Il suo primo principio era che la zoologia non poteva essere insegnata. Diceva che lui avrebbe potuto solo insegnarci a imparare, metterci nelle condizioni di interrogarci da soli; poi sarebbe toccato a noi trovare le risposte. Altri professori, osservava sprezzante, insegnavano le risposte, cosa perfettamente inutile, giacché riempire il cervello di fatti indigesti inibisce il vero ragionamento. Il suo metodo mi affascinava e, desiderando compiacerlo, studiai molto più di quanto avessi mai fatto per altri insegnanti.
Prima di incontrare Ranuncolo i miei giorni di scuola non erano stati particolarmente felici. Anzi, non è esagerato dire che il 18 settembre 1941, il primo giorno che passai al college, via da casa, fu il più triste della mia vita. Figlio unico cresciuto negli anni Trenta della crisi economica, non avevo trascorso una sola notte lontano dai miei genitori, e in quell’epoca di ristrettezze e vacche magre non avevamo praticamente mai viaggiato. Assorbito dal mio mondo di animali, mi ero ritirato sempre di più in me stesso. Detestavo l’idea di lasciare la mia casa per andare a studiare lontano, ma siccome i miei genitori volevano che avessi un’istruzione migliore di quella offerta dalle scuole di Swindon, non ebbi scelta.
Preoccupato per il mio atteggiamento negativo nei confronti del college, il babbo mise le mani avanti scrivendo una lettera al preside. “L’unica caratteristica di spicco in mio figlio” scrisse “è, a mio avviso, una certa tendenza alla riservatezza.” Il preside della mia vecchia scuola di Swindon scrisse di me: “Desmond Morris è un ragazzo tranquillo, schivo, riservato... Quando acquisterà più fiducia in se stesso, migliorerà anche il suo rendimento”. In realtà non mi mancava la fiducia in me stesso – il mio Io era perfettamente integro – ma per qualche motivo ero diventato un solitario. Non sapevo se avessi cercato la compagnia degli animali perché ero timido o se fossi diventato timido perché mi piaceva passare molto tempo con gli animali; ma certo l’idea di venire scaraventato in un ambiente sociale popolato di completi sconosciuti mi riempiva di inquietudine e brutti presentimenti.
I miei primi giorni al college, con tutti quei ragazzi vivaci ed estroversi, furono un incubo. Il problema era aggravato dal fatto che, proprio in quel periodo, mio padre si stava avvicinando alla fine dei suoi giorni ed era entrato nel suo ultimo anno di vita. Dovevo quindi scrivere lettere allegre perché non si preoccupasse, mentre ero d’accordo con mia madre di aggiungere una parola in codice per farle sapere come stavo realmente e se ero ancora infelice. La parola era “colcapper”, mutuata da un film con Burgess Meredith, che avevamo visto insieme durante le vacanze e per molti mesi apparve regolarmente in calce a ogni lettera.
A poco a poco mi adattai. Mi aiutò il fatto che il college a ...