Imperfetta forma
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Imperfetta forma

Autobiografiax

  1. 180 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Imperfetta forma

Autobiografiax

Informazioni su questo libro

«Per chi viene da dove vengo io, cose così semplicemente non accadono. Sei programmato a una vita in cui devi servire le persone più ricche di te nella città più ricca vicino a dove puoi concederti di abitare. Devi fare l'elettricista, o l'idraulico, o il muratore. Devi aggiustare cose che non ti puoi permettere o costruire case in cui non potrai mai vivere. Di certo non puoi nemmeno immaginare di riuscire a sostenerti con la musica.» J-Ax viene dal paese della sfiga, che può essere qualsiasi paese dell'hinterland milanese o della provincia italiana, e ha in mente solo una cosa: andarsene. Perché lui è diverso: non ha le scarpe giuste, non ha il motorino, non ha una lira in tasca, non fa parte del branco. Al calcio preferisce i videogiochi, i fumetti, i film che guarda nella sua cameretta. Le ragazze lo ignorano, i ragazzi più grandi lo menano. Per tutti è un alieno, un nerd, e deve subire le aggressioni dei redneck delle cascine o dei jock delle villette: «ragazzi duri, abituati a vivere in campagna e a farsi i cazzi loro, a gestirsi il loro tempo senza gli adulti, sempre in giro da soli fin da piccoli. Ragazzi in forma, perché lo sport più praticato a Civesio era il bullismo. C'era davvero poco da fare da quelle parti se non prendere di mira uno e tormentarlo».

Ma come a volte accade, la fame di riscatto – unita al talento – è una miscela esplosiva. È la spinta per osare, per volere l'impossibile, per ottenerlo.

«Non capisco un cazzo di come funziona il mondo e di quello che il mondo vuole da me. Nessun disco rap parla di queste cose, quindi mi metto a farlo io.» Ecco, comincia tutto così. Ed è tutto in salita: il successo tarda ad arrivare, e anche quando arriva non è mai completo, o non dura, o ha un prezzo troppo alto. E ci sono momenti bui in cui tutto sembra finito: è così effimera la fama, e nel mondo del rap lo è ancora di più. Ma quel ragazzo che si sentiva «un fallito» oggi è una star, «un loser che ha vinto», per dirla con le sue parole. E ha vinto grazie alla sua rabbia, e alla capacità di metterla in rima e in musica.

Imperfetta forma è un'autobiografia che trasuda sincerità, e la sua imperfezione parla a tutti quelli che sono stati o sono adolescenti. Perché la sofferenza di non capire e non sentirsi capiti è il prezzo del crescere, negli anni Ottanta come oggi.

Ma il libro è anche una storia del rap italiano, che da gergo musicale delle periferie è arrivato a espugnare la roccaforte del nemico, la televisione nazionale, e ha scalato le classifiche diventando un fenomeno mainstream.

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Rise and fall degli Articolo 31

Tutti volevano passare in radio, e soprattutto a Deejay. Anche se poi, magari, quando incontravano Albertino nei club facevano le pose da superiori. Anche i nomi più underground che vi vengono in mente rimanevano svegli la notte sperando in un passaggio dal network di via Massena.
Tutti volevano vendere dischi e avere successo. Di stronzate se ne raccontavano tante. «Lo faccio per pochi.» «Lo faccio per le teste della scena.» «Lo faccio per me stesso.» Se lo vuoi fare veramente per te stesso ti riascolti nelle cuffie e non rompi i coglioni a nessuno.
Perché abbiamo avuto successo noi e non altri, che magari proponevano tematiche più dark? Perché una canzone deve dire qualcosa. Deve avere un messaggio. Un concept. Il rap italiano è, per gran parte, fallito negli anni Novanta perché era strettamente autoreferenziale. Il novanta per cento dei dischi che uscivano parlavano di «come i dischi che uscivano sarebbero dovuti essere». Erano oltre i concept album, sembravano manuali di istruzioni per persone che non hanno superato la fase anale di Freud. Pezzi di cinque minuti in cui ragazzini brufolosi bianchi e italiani – o, ben peggio, gente oltre i quaranta – fissavano dei dogmi da non violare per un’intera generazione.
Questa cosa è degenerata e ci ritroviamo oggi con i medesimi bianchi italiani, ora di cinquant’anni, che vogliono spiegare ai neri americani che la trap non è vero rap. È normale, in un Paese come il nostro, in cui l’«unicità» che possiamo «ammirare» nella politica e nella società si è infiltrata anche nel rap. Il paradosso che molti di loro non hanno mai colto è che, cercando di «essere più rap di te», si allontanavano dallo spirito originale del genere.
Ma nella scena rap non capivano il perché di questo mancato successo. A me è sempre sembrato piuttosto semplice. Era come se qualcuno sperasse di scalare la classifica di vendita di libri scrivendo un romanzo che parla di come si scrivono i romanzi. Non funziona così.
Scrivere una canzone, secondo me, significa anche trovare una premessa e un tema portante interessante. Una canzone non deve avere necessariamente un «messaggio», ma deve comunque dire qualcosa in cui le persone possano identificarsi. Questo è songwriting.
Magari esistono, fra i forum e i blog, rapper migliori di Eminem, rapper metricamente più bravi e con un flow più innovativo, ma che non vendono perché non hanno le idee per scrivere i pezzi. Non ti fanno tenere le cuffie con le mani per cercare di capire come chiuderanno la rima, dopo che con quella che hai appena sentito hai sorriso. Non ti fanno stare bene. Non ti fanno viaggiare come dentro un film.
Con gli Articolo 31 ho sempre cercato di trovare un concept prima di cominciare a scrivere un pezzo. Parlare di come lo facevamo mi sembrava pigro. Anche se un paio di pezzi a disco di ego trippin’ per fare saltare la gente mi piaceva comunque scriverli.
Per questo sono orgoglioso di pezzi come Tocca qui o Domani smetto.
Per questo, dopo il successo di Ohi Maria, dopo aver vinto il «Disco per l’estate», la pressione per riconfermarci con altri singoli e con un album di successo fu davvero pesante.
Io ero convinto che fossimo finiti.
Qualche tempo dopo Messa di vespiri emersero gli OTR, e io ero certo che ci avessero già sostituiti. Che saremmo stati uno dei tanti gruppi one hit wonder che spaccano per un’estate e poi rimangono solo nei ricordi dei limoni in spiaggia delle persone.
Di solito, nella musica italiana, funziona così.
Arriva qualcuno che porta una novità, poi diventa subito stantio e il suo posto viene preso da altri. Mi è capitato spesso di slogarmi le spalle per abbattere porte blindate e poi vedere soggetti entrare passeggiando con un mojito in mano.
Ma Così com’è uscì e fu il nostro più grande successo. Vendette seicentomila copie e creò una nuova generazione di rapper. Questo non l’ho detto io, ma me lo scrisse Sandro Orrù in una mail quando collaborammo in un pezzo. Lui è il Martin Luther King del rap underground italiano. Presente sulla scena come DJ Gruff fin dagli anni Ottanta con gli Isola Posse All Stars, i Sangue Misto e il suo progetto solista. Non una cosa scontata, visto che fu lui a lanciare per primo la fatwa contro di noi con il suo dissing intitolato 1 vs 2.
Così com’è ebbe così successo perché venne fuori nel momento giusto e con le persone giuste. Io e Jad eravamo più maturi e avevamo, finalmente, tutto il tempo e i mezzi a nostra disposizione per incidere su disco la nostra idea musicale.
Fausto Cogliati e Giacomo Godi furono fondamentali per dare forma al sound. Fausto e Giacomo – quest’ultimo, ai tempi, un ragazzo di soli diciannove anni – avevano un orecchio pop assoluto e sapevano come far suonare bene i pezzi per le radio. Con loro trovammo una sintonia perfetta. Davvero. Tutte le nostre idiosincrasie, passioni e follie confluirono in un prodotto confezionato ad arte. Un prodotto che non avrebbe potuto non spaccare. Ne ero assolutamente convinto.
Ricordo bene quando ho avuto questa sensazione.
Ero sereno. Ero a New York.
Avevo in mano il master appena concluso del disco. Una cassettina da walkman che ascoltavo mentre camminavo per la Grande Mela, e me lo sentivo. Lo sentivo. Jad era lì con me mentre ridevo ubriaco di eccitazione. «Ce l’abbiamo fatta» gli dicevo. «Questo è quello giusto. L’album che cambierà per sempre la nostra vita.» Mi è accaduto ben poche altre volte di avere una sensazione tanto netta ma, in quel caso, ci avrei scommesso qualsiasi cosa.
È stata la prima volta che ho detto a me stesso: «Ho fatto un disco bello. Un disco perfetto, per ciò che il mio talento e le mie capacità sono in grado di esprimere. Qualcosa per rendere orgogliosi i miei genitori».
Questo perché la voglia era di tornare, riconfermarci, ma non solo. Volevamo spaccare ancora di più, dimostrare a tutti gli hater chi stava in cima alla catena alimentare. Perché con gli Articolo 31, oltre a essere stati i primi a passare al «disco clock» di Radio Deejay, fummo anche i primi artefici di qualcosa di ben più difficile. Unire l’intera scena rap italiana... contro di noi.
Gli Articolo 31, per quasi tutta la loro esistenza, sono stati come gli alieni che invadono la terra nei blockbuster americani. Tutti gli umani che fino a cinque minuti prima combattevano una guerra durata ininterrottamente per cinquemila anni, si uniscono per abbattere il nemico comune.
Noi abbiamo ricevuto tantissimo odio. Un odio che facevamo fatica a spiegare a chi ci stava vicino ma ignorava le dinamiche della musica rap. Siamo stati odiati prima ancora che esistesse la parola hater.
Ma finiva a botte sempre e solo quando io non c’ero. In mia presenza nessuno ha mai detto nulla. Quando poi, magari, in mia assenza membri della mia crew si trovavano nella stessa stanza di qualcuno che dissava la Spaghetti Funk, partivano le mani.
Non poteva essere altrimenti per una crew, la Spaghetti Funk, creata da me, Space One e il writer Raptuz nel 1994. Dentro c’erano anche DJ Zak e mio fratello Grido e molti che hanno militato nella scena rap italiana.
Eravamo tutti tamarri di provincia, alla fine. Da noi «discutere animatamente» significa tornare con i buchi nei pantaloni e una maglietta diventata di due misure più larga. Sono cresciuto con persone che si mettevano scarpe a punta, canotte traforate trasparenti e pantaloni di pelle aderenti. Sembravano ballerini di una boyband, ma bastava un SMS per vederli partire con coltelli e mazze. Non ho mai visto nessuno osare dire loro che sembravano «finocchi». Era l’ultimo dei pensieri di chiunque se li trovasse vicino.
Facevano così paura che li potevi vedere anche piangere.
Ho visto piangere tutte le persone più pericolose che ho incrociato nella mia vita. Io stesso piango spesso, o mi commuovo. Gli stupidi lo vedono come un segno di debolezza, ma se piangi, o ti vesti di rosa o fai qualsiasi cosa ritenuta «femminile», è perché sei così sicuro di te stesso che non te ne frega un cazzo di come ciò può essere visto dagli altri.
Io ho vissuto anche in prima persona alcuni episodi di violenza. Al Bataclan, per esempio. Un vecchio locale, ormai chiuso da tempo, che stava in centro a Milano, in zona Moscova. Era gestito da ragazzi di colore, e a metà anni Novanta era uno dei luoghi in cui la scena rap italiana si ritrovava più spesso. Le serate di musica black a Milano erano poche, ma si facevano sentire. Oltre al Bataclan mettevano rap anche a Le Terrazze, in cui suonava Vito War, un DJ leggendario ideatore della prima trasmissione radiofonica dedicata al reggae, in onda su Radio Popolare.
Io e i miei amici andavamo spesso al Bataclan a fare serata con i ragazzi della comunità senegalese e di quella eritrea. Siamo cresciuti tutti assieme durante quelle notti. Il rap italiano, anche agli inizi, non era un affare solo per bianchi, ma includeva già un’importante comunità di ragazzi africani e arabi. Non sono mai emersi perché non erano immigrati di seconda generazione, come accade adesso, ma di prima. Non conoscevano bene l’italiano e molti di loro, infatti, rappavano in francese o inglese.
Proprio davanti al Bataclan successero diversi episodi spiacevoli. Una sera, uno degli esponenti più importanti della prima generazione di rapper che si avvicinò all’hip hop picchiò gran parte dei più famosi rapper e DJ italiani degli anni Novanta. Così, uno alla volta, in fila. Perché? Perché anche degli insospettabili «fedeli alla linea underground italiana» per alcuni puristi erano diventati «troppo commerciali».
Era una psicosi.
Io non sopportavo questo modo di pensare. Secondo alcuni quello dell’anziano che ti doveva mettere in riga doveva essere un «rito di passaggio». Io lo trovavo assurdo. Io volevo fare rap per essere libero – e per libero intendevo dal controllo di tutti. Volevo poter fare e dire quello che volevo, e invece negli anni Novanta ti trovavi questi ultraquarantenni davanti ai quali dovevi abbassare il capo perché «i veri b-boy fanno così».
Vaffanculo.
’Fanculo a chi la pensava e la pensa così. Ho sempre trovato esilarante che questi talebani, nei loro discorsi e nelle loro canzoni, avessero puntualmente da ridire contro la polizia «fascista» e poi, nella vita di tutti i giorni, i primi a comportarsi come fascisti erano proprio loro. Il compito di un giovane artista è quello di andare contro ai vecchi della sua scena. I mediocri li riconosci perché, invece di cambiare le cose, si adeguano a come le cose sono sempre andate.
Una sera, sempre al Bataclan, uno di quei rapper duri e puri, uno dei «King» dell’underground ancora sulla scena, provò a picchiare pure me.
«Provò» è il termine giusto. Prima mi avvicinò in amicizia. Passammo tutta la sera a bere insieme, poi, dopo che me ne andai a cercare la mia ragazza di allora, con cui avevo litigato, chiese a un amico di telefonarmi perché aveva voglia – testuali parole – «di fare a botte». Io già ai tempi mi ero rotto il cazzo di questa mafia dei poveri, figuriamoci quando il «mafioso» in questione aveva carburato il coraggio di alzare le mani solo due ore e duecento birre dopo che me n’ero andato. Risi al telefono e me ne andai a casa dalla mia ragazza.
Questo King provò a fare il duro anche con Space One, e finì steso in orizzontale. Per quattro volte, in tre decadi diverse.
A noi della Spaghetti Funk non ci toccava nessuno. Non perché fossimo dei Rambo o facessimo particolarmente «brutto», ma semplicemente perché eravamo di più. E venivamo da posti più cattivi.
Il paradosso che si era creato era più o meno questo: noi, mainstream, venivamo dalla provincia e dalla periferia ed eravamo allegri e spensierati, mentre i tizi che si sentivano i gangstapoliziotti del rap erano spesso di origine borghese e sempre incazzati.
E quando la borghesia sbaglia strada e si perde di sera nelle vie senza abbastanza soldi per l’illuminazione, finisce sempre male.
È quello che successe quando, a uno di noi, venne dato uno schiaffo. Era il momento in cui avevamo letteralmente tutta la scena contro, quindi, per vendicarsi, alcuni decisero di aizzare e provocare delle «teste calde». Nostri vecchi amici che avevamo smesso di frequentare poiché presi dal lavoro in studio e dai tour in giro per l’Italia. Si erano sentiti abbandonati da noi, e qualcuno approfittò del loro stato d’animo per spronarli a farci del male.
Un giorno decidono di circondare uno di noi e di colpirlo.
Questo nostro amico torna a casa nel suo quartiere, viene visto con lividi e tumefazioni. La gente gli chiede cosa gli sia accaduto e non capisce. È stato malmenato, racconta lui, perché «commerciale». La gente chiede cosa voglia dire. Proviamo a spiegarglielo e non capisce. «Cioè, ti hanno alzato le mani perché fai uno stile diverso dal loro? E perché non lo fanno anche loro?» è la risposta. «Che cosa gliene frega?»
A ripensarci adesso mi viene da sorridere. Ma era veramente impossibile spiegare a qualcuno fuori dalla scena rap italiana le seghe mentali di chi ascoltava e viveva l’hip hop. Era come cercare di dare una spiegazione logica a un attentato terroristico. Semplicemente questi credevano che solo loro facevano il rap nel modo corretto e che qui...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Imperfetta forma
  4. Intro
  5. Polvere di stalle
  6. Come ho impedito alla scuola di interferire con la mia educazione
  7. Si lavora e si fatica per il pane e per l’Amiga
  8. L’importanza di pensare negativo
  9. Un fallito di successo
  10. Rise and fall degli Articolo 31
  11. Ricominciare da meno di zero
  12. Come ho trollato la televisione
  13. Outro
  14. Ringraziamenti
  15. Copyright