Come sono fortunata.
È una notte incantevole, tiepida, nera, piena di stelle. Bellissima. Spengo le luci di casa ed esco sul terrazzo. Mi stendo sulla vecchia sdraio di legno che scricchiola a ogni mio respiro. Si può impazzire di serenità? Si può morire di buon umore? È quello che mi succederà stanotte, temo.
Harpo e Nyo si alzano pigri dalle loro cucce e mi raggiungono. Il ticchettìo delle zampe sulle piastrelle è musica pura e mi ruba un sorriso beato.
Eccoci qua, tutti insieme, avvolti dal buio e dal profumo del rincospermum, della bouganville, dell’edera che è cresciuta tanto in questi ultimi mesi. Forse bouganville e edera non profumano affatto, ma a me pare di sì. Sarà la bellezza di questo momento.
Guardo la notte inesorabile e splendida sopra di me e penso: “Come sono fortunata”. Nyo salta sulla sdraio, che scricchiola più forte. Si accuccia in fondo ai miei piedi e sospira pacifico. Amo questa stoffa a fiori rosa e verdi, questo legno scrostato. Era la sdraio della casa dei nonni, al mare. È sopravvissuta a tanti di quei traslochi. Con un colpo di mano me ne sono appropriata e ora è qui, è mia, cara memoria di famiglia. Dovrei farla restaurare ma non riesco a decidermi. La amo così com’è, lisa, usata. Vecchia.
Harpo mi cerca, si avvicina, mi dà un bacio, Nyo, geloso, si alza e viene a leccarmi la faccia. Li bacio tutti e due, li accarezzo, ci scambiamo tenerezze.
Stiamo tutti pensando: “Come siamo fortunati”.
Saranno le due, le tre.
Dieci piani sotto, i rumori della città ci fanno compagnia.
Rare macchine, il camion della nettezza urbana che svuota i cassonetti, i ragazzi che schiamazzano, si fanno le canne e si corteggiano furiosamente ai giardinetti dei bambini. Le spaccheranno quelle giostrine a furia di salirci in cinque, in sei, in dieci. Fanno un gran chiasso, ma è inevitabile. Hanno quindici anni e il loro momento è adesso, è questa notte. Fra un’erezione incontrollata e la paura dell’interrogazione di domani si appropriano della loro porzione di notte e di vita e se ne fregano di chi dorme. Peggio per lui, non sa cosa si perde. Direi che hanno ragione.
Stanotte, chi dorme non sa cosa si perde.
Che culo ho avuto a trovare questa casa.
Dopo tanto vagabondare, ho sbattuto contro un cartello AFFITTASI che faceva ben sperare ed eccomi qua.
È una piccola casa ben rifinita, forse un po’ troppo morigerata per i miei gusti, ma non posso certo lamentarmi se è tutto beige. Evidentemente i proprietari hanno sposato un’idea di anonimato che, considerate le piastrelle anni Settanta sbreccate che mi sono lasciata alle spalle e la moquette disastrata a cui la mia precedente padrona di casa era insensatamente affezionata, ha una sua innegabile dignità. Un po’ noiosa, è vero, ma l’assenza di personalità di muri e pavimenti (piastrelle beige, marmo beige, ripiani beige, grechine beige) è tenacemente avversata da una vita di oggetti, quadri, tappeti, libri e mobili comprati, incontrati, desiderati, collezionati, inseguiti, raccattati da me nel corso degli anni. Tutto quello che ho.
Il manifesto bianco e nero di Lindsay Kemp risale al 1981. Sedicenne, avevo appena visto Duende, uno degli spettacoli più belli della mia vita. Questo grande poster mi ha seguito in tutti i traslochi degli ultimi trentacinque anni. E ora è qui. È un pezzo di storia mia e della danza mondiale. Una reliquia.
Lo sguardo languido di Kemp si posa su un armadio della metà dell’Ottocento che i miei genitori mi hanno regalato qualche anno fa. È bellissimo, semplice. Probabilmente troneggiava in qualche antica cucina contadina e adesso custodisce stoviglie, posate, candele, tovaglie e la scatolina d’argento smaltato con la bandiera francese dove conservo i dentini da latte di Harpo.
Sì, li ho conservati. È venuta anche la fata col soldino, quando gli sono caduti.
Di fronte all’armadio, Yorik, il mio primo cane, figlio di pochi ma onesti genitori, sorride a tutti da una grande foto sulla libreria. Adorato Yorik, classe 1972, portentoso cacciatore di lucertole, spauracchio di ogni mosca che, incosciente, ardisse ronzargli sul naso.
Sotto di lui, sul ripiano in basso, c’è la raccolta dei vecchissimi numeri di “Linus”, di “Photo” e un “Vogue” centenario con Andy Warhol in copertina comprato col cuore a mille quando ero innamorata pazza di lui. Sono passata con disinvoltura da Bud Spencer, mio fidanzato alle elementari, al re della pop art durante l’adolescenza, senza negarmi una scappatella con Herbert von Karajan intorno ai nove anni. Bellissimo con quei capelli bianchi e l’aria severa, eroico domatore delle più grandi orchestre del mondo.
Lo so, non c’è alcun nesso fra i tre, ma al cuore non si comanda e nemmeno all’immaginazione.
Sublime il peso dei ricordi.
Forse troppo sublime per questa povera libreria sempre più stanca, che non ce la fa proprio più a reggere tutti i libri che ho comprato nella mia vita. Non sono tipo da Kindle, ahimè, voglio ancora stropicciare le pagine e sentire il profumo della carta. Sono antica come il vaso che mi ha regalato Etta e che fa bella mostra di sé sulla mensola di ferro battuto che ho comprato... dove? Non mi ricordo più. Quante cose.
Tutto quello che ho.
Scaldare questa piccola cripta è stata la mia sfida e l’ho vinta. Ora non sembra più una tomba di famiglia, giuro.
Le molte finestre e porte a vetri, poi, hanno fatto il resto, regalandomi albe radiose ed elettrizzanti raffiche di vento disordinate, prepotenti, esaltanti.
Dulcis in fundo, un terrazzo che si affaccia sul cupolone e sulla città che, da qui, è più eterna che mai. Sono dirimpettaia di papa Francesco, potremmo tirare un filo da me a lui e stendere, io mutande e calze, e lui tiare e mitrie. Se gli mancasse il sale e mi desse una voce glielo potrei fiondare direttamente sulla tavola.
Una volta mi sono beccata una benedizione in diretta perché ero a favore di vento. Le parole mi sono arrivate così chiare che ne ho approfittato.
I gabbiani volteggiano sulla mia testa e hanno la buona creanza di non cacarmi addosso, anche se, stando alle loro dimensioni, il pavimento dovrebbe essere spalmato di guano. Invece le grosse piastrelle del terrazzo (beige, of course) splendono linde sotto il sole. O questi possenti uccelli sono stitici o la fanno da qualche altra parte. Non indago, mi va bene così.
Sono le tre e mezzo, dovrei andare a dormire.
Il tepore di fine maggio mi ha imbambolato e non mi va proprio di alzarmi dalla sdraio scassata a fiori rosa e verdi. Harpo e Nyo dormono profondamente, ogni tanto mi arriva un sospiro canino pieno di pace.
Li prendo in braccio tutti e due e, scricchiolando, mi alzo. Papa Francesco dorme della grossa, ne sono sicura.
Buonanotte Lindsay. Buonanotte Yorik. Buonanotte a tutti.
Mi volto a dare un ultimo sguardo alla città.
Non posso non pensare, ancora una volta: “Come sono fortunata”.
***
«Signora, lei sa che non troverà più niente, vero?»
Non rispondo, guardo il mio interlocutore con un’espressione tutt’altro che intelligente.
«Signora, mi ha capito? Ha capito quello che le ho detto?»
«Sì... sì...» biascico. «Non c’è più niente. Ho capito.»
Il tizio lancia un’occhiata al collega. È evidente che non ho capito e lui lo sa benissimo. Gli sarà capitato un migliaio di volte.
«Allora, se vuole, possiamo salire.»
«Sì, signora. L’accompagniamo.»
«Mh. Va bene.»
Giordana mi guarda, guarda quei due. È preoccupatissima. Non solo perché lo è di default (è fatta così), ma perché stavolta c’è davvero da preoccuparsi. Anche lei pensa che io non abbia capito e sa che io so di non aver capito, ma entrambe sappiamo che non ha importanza perché non c’è scelta. Bisogna salire.
«L’aiuto?»
«No, grazie.»
«Riesce a far le scale?»
«Sì, grazie.»
Perché non dovrei riuscire a fare le scale? Non sono mica zoppa.
Gio si avvicina.
«Riesci a fare le scale?»
Oh, Madonna, anche lei? Cos’è ’sta paura, di punto in bianco, che io non riesca più a fare le scale?
«Sì, Giordana, riesco a far le scale, non sono mica zoppa.»
Facciamo tutti la prima rampa mentre rivoli d’acqua sporca ci sgocciolano sulla testa. Fastidiosi, davvero.
«Signora, come va?»
«Bene, grazie.»
«Sicura?»
«Sì, grazie.»
Mai detti tanti grazie in vita mia.
I due ci precedono, Giordana mi raggiunge e mi dà una stretta al braccio, solidale. Sono rintronata, preoccupata. Continuiamo a salire.
Seconda rampa. Terza rampa. Le scale sono bagnate, rigagnoli grigiastri colano lungo il corrimano.
Dieci piani sono dieci piani e arriviamo in cima con la lingua di fuori.
I due, molto più allenati di noi, non hanno un filo di fiatone e ci guardano con un mezzo sorriso mezzo incoraggiante.
La porta di casa è semichiusa. Nera. Arrostita. Sbucciata. Sul pianerottolo c’è un caldo infernale.
I due, sudati e sporchi, mi fanno cenno di seguirli. Arriva un terzo che mi piazza un casco giallo in testa.
«Si metta questo.»
Penso che devo essere irresistibile col pigiama e il casco, ma il residuo di vanità si affloscia immediatamente appena il capo della baracca mi domanda: «Allora, vuole entrare?».
«Sì.»
Poi aggiungo «Grazie» per non sbagliare.
Mi volto verso Giordana. Il suo sorriso tiratissimo sbuca da sotto un enorme casco giallo canarino. Hanno impacchettato pure lei. È spaurita, dispiaciuta, stordita. Il contrasto faccia-casco è esilarante, ma non rido.
Il capo mi apre la porta. Faccio due passi. Caldo bollente. Buio. Nero.
Il pavimento non c’è più, il soffitto non c’è più. Le pareti, manco a dirlo, non ci sono più. I libri? I quadri? Le scarpe? La scatolina d’argento con i dentini da latte di Harpo? Gli occhiali? Le sedie? La porta del bagno?
Lindsay? Andy?
Non c...