Il 25 marzo 2014, nelle stanze di Palazzo Giustiniani, a Roma, si svolge un incontro un po’ insolito per un luogo istituzionale che ospita l’appartamento di rappresentanza del presidente del Senato e gli uffici che i senatori a vita utilizzano per svolgere il loro incarico. Quel giorno, all’ora dell’aperitivo, sotto le volte dell’edificio cinquecentesco si ritrovano uno di fronte all’altro due personaggi molto diversi fra loro. Il primo è Mario Monti, economista con una sfilza lunghissima di incarichi: commissario europeo dal 1995 al 2004, senatore a vita, presidente del Consiglio dal novembre 2011 all’aprile 2013, presidente della prestigiosa università milanese Bocconi, dov’è conosciuto per i modi soft ma decisi con cui esercita il potere. Il secondo è invece Michele Ruggiero, un magistrato che dalla piccola procura di Trani, in Puglia, ha condotto in questi anni alcune indagini che hanno suscitato parecchio rumore. Si è messo in testa, in particolare, di capire se c’è stata qualche manovra speculativa dietro due decisioni che, nei primi giorni del 2012, hanno finito per avere gravi ripercussioni sui conti dello Stato italiano.
Era il momento in cui infuriava la tempesta sui titoli del debito pubblico dei Paesi più deboli dell’Eurozona, con i mercati che sembravano scommettere su altri casi di dissesto delle finanze pubbliche dopo quello che aveva colpito la Grecia. Nel mondo esiste un manipolo di agenzie specializzate proprio nel valutare l’affidabilità di un debitore, che sia uno Stato, un ente pubblico o un’azienda privata. Si chiamano agenzie di rating, e le più riconosciute a livello internazionale sono Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch, alle quali si è aggiunta in tempi più recenti la cinese Dagong, nata proprio per affermare l’autonomia di Pechino dalla struttura fondamentalmente anglosassone dei mercati finanziari internazionali. A finire nel mirino del pubblico ministero Ruggiero sono Standard & Poor’s e Fitch, responsabili di due colpi da knock out assestati all’Italia nel gennaio 2012. La prima riduce il proprio giudizio sul debito della Repubblica – come viene chiamato sui mercati – il 13 gennaio, portandolo da «A» a «BBB+». La seconda segue a ruota il 27 gennaio, declassandolo da «A+» ad «A–». Ma che cosa vogliono dire questi simboli?
Le scale di valutazione variano a seconda dell’agenzia. Per capire come funzionano, prendiamo per esempio quella di Standard & Poor’s. Se un Paese ha almeno una «A», significa che i suoi titoli di Stato sono considerati investment grade, buoni per un investimento con il quale non si vuole rischiare troppo. I più sicuri sono quelli «AAA», come la Germania, mentre per un Paese avere una sola «A» significa che il debitore ha una solida capacità di sostenere i propri impegni finanziari, anche se può essere esposto a qualche rischio in condizioni particolarmente avverse. Con il giudizio «BBB» iniziano i guai: i rischi che un rovescio economico abbia effetti negativi sulla capacità del debitore di rimborsare i prestiti sono ritenuti più alti e, soprattutto, ci si avvicina all’area «BB», dove il giudizio sul debito passa da investment grade a speculative, ovvero quei titoli sono consigliati solo a un investitore più aggressivo, disposto a rischiare un po’ di più. Non parliamo della «C»: se un titolo è bollato con un’unica «C», per il creditore la possibilità di non rivedere per intero il proprio investimento è più elevata di quanto lo sia quella di riavere indietro tutti i quattrini. Per questo un titolo etichettato come «C» viene chiamato spesso «titolo spazzatura». La Grecia, per esempio, per Standard & Poor’s è stata in area «C» per un lungo periodo, fino a quando il 22 gennaio 2016, grazie ai progressi fatti con le riforme intraprese dal governo di Alexis Tsipras, l’agenzia ha alzato il rating da «CCC+» a «B–».
Tu rating, io cash
Ogni giudizio, infatti, può essere accompagnato da un «più» o un «meno» per stabilire un’ulteriore graduatoria di merito fra debitori che hanno il medesimo rating. Per questo le decisioni del gennaio 2012 furono particolarmente gravi per l’Italia: sia Standard & Poor’s sia Fitch avevano ridotto i loro voti di due «scalini», o notch, come si chiamano in gergo finanziario con il termine inglese che vuol dire «tacca». Se avessero voluto, infatti, Standard & Poor’s avrebbe potuto limitarsi a ridurre il giudizio da «A» ad «A–», e Fitch da «A+» ad «A». E invece no: per entrambe le agenzie i rischi dell’Italia erano aumentati in maniera tanto rapida da rendere necessaria una retrocessione di ben due tacche. Una scelta che non si verifica spesso e che rappresenta un duro colpo per il debitore che la subisce.
Per Ruggiero, però, la questione su cui indagare era ancora più articolata. Le due agenzie avevano infatti preannunciato i rispettivi tagli in anticipo, con diverse comunicazioni, contribuendo ad alimentare la pressione speculativa sui titoli del Tesoro italiano. La riduzione del rating, per uno Stato, è infatti una mazzata: per convincere gli investitori a comprare i propri titoli, un Paese «Tripla A» può permettersi di pagare tassi d’interesse molto bassi. Chi li compra ci guadagnerà poco, dovrà accontentarsi di un profitto modesto ma, in cambio, dormirà sonni il più possibile tranquilli, perché il rischio di perderci è considerato dagli addetti ai lavori altrettanto modesto. Per un Paese «Tripla B», o peggio, la situazione invece si complica parecchio: i suoi titoli sono giudicati più rischiosi, e per renderli appetibili è necessario offrire tassi d’interesse più alti. Nell’impianto delle accuse formulate dal magistrato pugliese, le comunicazioni anticipate sul futuro taglio del rating da parte delle due agenzie – effettivamente arrivato a gennaio, ma di fatto annunciato più volte in precedenza – costituiscono dunque una manipolazione del mercato, perché hanno contribuito ad agitare ulteriormente le acque in un momento in cui i titoli di Stato italiani erano già sotto pressione. Di qui i procedimenti a carico di una serie di manager e analisti delle due agenzie, in un quadro che nel caso di Standard & Poor’s si arricchisce di un’ulteriore suggestione. L’agenzia americana fa infatti parte del grande gruppo editoriale McGraw Hill, il quale a sua volta vede fra i propri azionisti, anche se con quote minimali, la banca d’affari Morgan Stanley. Ecco il possibile nesso su cui Ruggiero ha costruito una parte delle sue accuse: mentre Standard & Poor’s contribuiva a terremotare i titoli di Stato italiani preannunciando che avrebbe ridotto il rating, Morgan Stanley passava all’incasso, incamerando i 3,4 miliardi di dollari cash grazie alla clausola di estinzione anticipata per i derivati che il Tesoro aveva sottoscritto con l’istituto molti anni prima.
Capita a volte di leggere articoli di stampa nei quali l’operato di Ruggiero in procedimenti finanziari come quello contro le agenzie di rating o contro altri operatori della finanza internazionale viene trattato con un po’ di sufficienza, se non altro perché può sembrare velleitario ricercare risvolti penalmente rilevanti nei meccanismi del capitalismo mondiale, e farlo per di più da una procura di provincia come Trani. Il magistrato pugliese, tuttavia, si muove secondo un principio cardine dell’ordinamento giudiziario italiano: se un reato è commesso all’estero, la procura competente è la prima che inizia a indagare. Inoltre, almeno nel caso di Standard & Poor’s e Fitch, le sue accuse sono state ritenute dal tribunale di Trani meritevoli di essere portate in aula, e alcuni esponenti delle agenzie sono stati rinviati a giudizio. I due processi, distinti l’uno dall’altro, nel momento in cui questo libro è andato in stampa non erano ancora arrivati al termine, per cui è impossibile trarre conclusioni su quale sarà il pronunciamento del tribunale. Dal nostro punto di vista, però, la fondatezza o meno dell’impianto accusatorio di Ruggiero nei confronti delle agenzie di rating non è molto rilevante. Quel che interessa è piuttosto il fatto che il processo in corso sul caso Standard & Poor’s abbia permesso di portare alla luce ulteriori verità sui derivati di Morgan Stanley costati così cari allo Stato italiano. E abbia fatto emergere per la prima volta anche i nomi di altre banche internazionali che, con questo genere di contratti, hanno realizzato cospicui profitti nei loro rapporti con il Tesoro.
Pezze d’appoggio
È proprio nel corso delle indagini sull’agenzia di rating americana che Ruggiero, il 25 marzo 2014, si reca a Roma per ascoltare la testimonianza di Mario Monti nel suo ufficio da senatore a vita, a Palazzo Giustiniani. Il magistrato vuole chiarire il senso di una frase che, nei giorni in cui Standard & Poor’s aveva tagliato il giudizio sull’Italia e su altri Paesi europei, il «Corriere della Sera» aveva attribuito fra virgolette all’economista, che all’epoca era diventato da poche settimane presidente del Consiglio, in sostituzione di Silvio Berlusconi. Monti, sosteneva il quotidiano, avrebbe bollato la mossa dell’agenzia come «un attacco all’Europa».1 Il senatore, tuttavia, di fronte a Ruggiero nega di aver mai pronunciato quella frase.2 E anticipa la versione dei fatti che fornirà anche durante il processo, nell’udienza del 29 gennaio 2016, mostrando di non dare alcuna credibilità all’ipotesi di un complotto ai danni dell’Italia attraverso i rating di Standard & Poor’s. La causa dei guai dell’Italia, in quella fase storica, a giudizio del senatore era piuttosto «la diffusa convinzione dei mercati che l’euro potesse non sopravvivere», al punto che, dice Monti, «la motivazione della decisione del doppio declassamento dell’Italia avrei potuta scriverla io», anche se «da capo del governo non avrei certo potuto condividerla».
Durante l’audizione svolta di fronte a Ruggiero a Roma nei primi giorni di primavera del 2014, ci sono alcuni accenni interessanti a proposito dei derivati di Morgan Stanley. Il magistrato li introduce nel colloquio perché Monti, al momento di staccare il mega-assegno a favore della banca americana, era ad interim anche ministro dell’Economia. Ecco il primo passaggio del verbale, poi depositato fra gli atti del processo, che riporta lo scambio fra l’ex premier e il pubblico ministero pugliese:
Pm: Senta Professore, mi conferma che a dicembre 2011 a valere sul decreto Salva Italia il suo governo ha provveduto a liquidare un’esposizione del Tesoro in derivati nei confronti di Morgan Stanley per circa 2 miliardi e mezzo?3
Sen. Monti: Non sono in grado di dare risposta. Non ho la documentazione.
Ruggiero sembra stupito. Un pagamento di questa portata agli occhi di un comune cittadino dovrebbe restare ben impresso nella memoria di chi ha dovuto scucire i quattrini. Forse, però, Monti non è persona abituata a rispondere a un magistrato sulla base di ricordi sommari. Il pubblico ministero, però, non demorde.
Pm: Non si ricorda che lei come ministro dell’Economia ha provveduto, diciamo così, a liquidare a Morgan Stanley circa 2 miliardi e mezzo come chiusura della posizione in derivati di questa banca nei confronti del Tesoro?
Sen. Monti: No, non sono in grado in questo momento di darle una risposta.
Pm: Ma può accertarla questa circostanza, eventualmente? Cioè può riservarsi di farmi sapere?
Sen. Monti: Ove lei mi dimostri la rilevanza rispetto al tema, perché?
La risposta dell’ex premier ribalta i ruoli. È lui a porre le domande. Ma il pubblico ministero non si fa cogliere di sorpresa.
Pm: Perché per esempio ci si potrebbe dire: se è vero che lei ha provveduto a liquidare queste esposizioni del Tesoro con 2 miliardi e mezzo nei confronti di questa banca potrebbe essere verosimile, ragionevole, l’irritazione che si prova quando, nonostante questa solida prova di liquidità dello Stato, l’Italia subisce poi nel gennaio 2012 un doppio declassamento.
Sen. Monti: Ah, beh… quindi questo sarebbe…
Pm: Questa è una mia congettura. È ovvio, diciamo così, che se esiste un dato e cioè liquidare una posizione bancaria in derivati, pagando un’importante somma e poi allo stesso tempo subire, nonostante questa dimostrazione di liquidità, di solidità finanziaria, il doppio declassamento, questo può in un certo senso spiegarmi le ragioni per le quali poteva eventualmente lei nutrire un disappunto e questo potrebbe fare…
Sen. Monti: Che peraltro non ho nutrito [il disappunto], tanto che lei è sorpreso che io non l’abbia nutrito.
Ruggiero è dunque alla ricerca di elementi che possano corroborare la sua ipotesi di una macchinazione ai danni dell’Italia, e tenta di dimostrare che la riduzione del rating era ingiustificata, visto che pochi giorni prima della decisione di Standard & Poor’s il Tesoro aveva dato prova della propria solidità finanziaria, sborsando un sacco di quattrini a Morgan Stanley. Monti, però, non vuole seguirlo su questa strada, e nelle sue risposte mostra di non credere ad alcun complotto e ad alcun preordinato «attacco all’Europa». Al di là degli aspetti legati al processo, tuttavia, colpisce vedere come l’ex primo ministro mostri di non ricordare un’operazione costata così cara al suo governo e di aver bisogno di pezze d’appoggio p...