Sono nato il 7 aprile del 1964. Da qualche parte ho letto che noi cinquantenni di oggi siamo tutti figli del baby boom. Sono in buona compagnia: con me ci sono Monica Bellucci, Sabrina Ferilli, Fabio Fazio, Cristina D’Avena e mettiamoci pure Rocco Siffredi (non volevo farlo: l’idea che Rocco Siffredi sia mio coetaneo mi fa sentire sfigatissimo). Sarà stato perché in televisione, fra Pippo Baudo e Mike Bongiorno, non c’era molta scelta, sarà stato perché Internet e i selfies non li avevano ancora inventati, fatto sta che negli anni Sessanta i nostri genitori sapevano come passare il tempo. E così siamo nati noi. Eppure, a pensarci bene, a casa mia il rapporto con il sesso non è mai stato poi così sereno. A questo proposito mia madre Lucia aveva le idee molto chiare. Sosteneva, con una punta d’orgoglio, che le donne lombarde come lei erano tutte frigide, che lei certe porcherie non le aveva mai fatte, che il primo uomo che aveva conosciuto se l’era sposato e che quelle che la pensavano diversamente erano tutte “schifose”. Proprio come mia nonna paterna, la mitica nonna Armida, che, dopo qualche mese di vedovanza, aveva osato risposarsi con “il Michele”, un rude fattore del piacentino, e che veniva abitualmente additata a me e a mia sorella quale esempio di donna perduta. In realtà mia nonna – poveretta – non aveva fatto niente di male, ma sulla questione la mamma era irremovibile: “Quel pover’uomo di tuo nonno leggeva Papini e D’Annunzio dal mattino alla sera. E lei? Si è risposata con un contadino. Schifosa che non è altro”. Con il senno di poi, credo che la decisione di mia nonna sia stata di assoluto buonsenso. Dopo anni trascorsi col marito sulle pagine di Papini, il rude Michele le avrà procurato di sicuro le ultime gioie della vita. Ma non ho mai osato affrontare questo argomento tabù. A dare man forte alla mamma arrivava puntuale sua sorella, la zia Ester, che ha sempre diviso la vita con noi. Rimasta vedova del marito Gualtiero dopo neppure un anno di matrimonio, non si risposò più e si trasferì a vivere due piani sopra il nostro. Noi al quinto, lei al settimo. Quando qualcuno le chiedeva perché, pur essendo ancora giovane, non avesse mai pensato di rifarsi una vita, la risposta era sempre la stessa: “Perché non intendo fare la serva a un uomo. Né di giorno, né di notte”. A quanto pare, lei e la mamma le avevano fatte con lo stampino. Mio padre Ivano praticamente ne aveva sposate due al prezzo di una. Sopraffatto da entrambe, sentendo i discorsi di sua moglie e di sua cognata, scuoteva ogni volta la testa e allargava sconsolato le braccia. Quando raggiunsi la maggiore età e la mamma attaccava con la sua solita lagna sull’asessualità delle donne lombarde o mia zia con quella sugli uomini tutti luridi e fetenti, lui mi prendeva da parte e mi diceva: “Tua zia, lasem perd (lasciamo perdere). Con tua madre è sempre stata una guerra persa in partenza. Due trombate, due figli. Più o meno”. Povero papà, un santo.
Come nella maggior parte delle famiglie italiane, a me e a mia sorella toccarono, appena nati, due nomi di morti. Lei, nata sette anni prima di me, fu chiamata Maria Daniela. Maria in onore alla Madonna, che, come ci veniva ripetuto all’infinito, era la mamma di tutte le mamme, e Daniela per ricordare una povera cuginetta morta di leucemia alla tenera età di tre anni. Io, Alfonso, il nome del nonno paterno. Un po’ perché lui era morto a gennaio e io ero nato ad aprile dello stesso anno, un po’ per far capire a mia nonna Armida, la vedova, che il nonno di casa sarebbe stato per tutti uno solo e di certo non quel Michele che lei, la schifosa, cominciava di nascosto a frequentare. Io questa storia di dare ai figli appena nati il nome di un morto non l’ho mai capita. L’ho sempre trovata di cattivo gusto e sotto sotto ho sempre pensato che portasse pure un po’ sfiga.
Fatto sta che con l’idea della morte abbiamo sempre convissuto fin da piccoli. Nella camera dei miei genitori stavano appesi di fronte al letto i ritratti dei nonni defunti, che mi mettevano una paura fottuta ogni volta che li vedevo. Sembrava mi seguissero ovunque con i loro sguardi, tanto che, quando mi capitava di passare davanti alla camera da letto dei miei, lo facevo sempre di corsa, nel terrore che potessero uscire fuori dalla cornice. La mamma poi, la sera, quando ci si metteva a tavola, sciorinava un repertorio di morti e di disgrazie infinito. “Ma lo sai chi è morto?” chiedeva a mio padre mentre gli versava la minestra nel piatto. “Chi?” faceva lui distratto. “Il Pogliani. Pensa, poveretto, un colpo. La Marisa, sua moglie, è tornata a casa e l’ha trovato sotto il tavolo. Aveva gli occhi sbarrati. Era già freddo, quando è arrivata.” “E sapete cosa è successo a mio cugino Carlo?” “È morto pure lui?” chiedevo io, sempre più preso dall’argomento. “Ma va’ là, l’han tirato sotto con la bicicletta mentre tornava dalla bocciofila. Si è salvato per miracolo, poveraccio, ma è all’ospedale tutto ingessato.” Non chiedetemi chi fossero il Pogliani o il cugino Carlo. Non lo so. So solo che al momento di andare a dormire, me li trovavo davanti agli occhi e popolavano i miei incubi notturni. La verità è che non mi sono mai liberato di loro. A volte me li sogno ancora di notte. Due mesi fa mi è capitato con il Pogliani. Mi offriva un bicchiere di vino e mi diceva: “Dài, passa a trovarmi”. Ciò è bastato per farmi sprofondare nell’ennesimo attacco di panico alle tre e mezzo del mattino: occhi sbarrati fissi al soffitto, sudori freddi, tachicardia e la certezza che il Pogliani prima o poi sarebbe venuto a prendermi per portarmi dall’altra parte. Il mio analista lo definisce un transfert irrisolto. Per me è solo una gran rottura di coglioni.
Se penso alla mia infanzia complicata, tutto ruota intorno alla mia cameretta. La cameretta fu per me un segno di conquista e di autonomia. Partiamo dalla conquista. L’ho ereditata da mia sorella Maria Daniela, dopo il suo matrimonio. Papà e mamma erano assolutamente contrari che noi due, io maschio e lei femmina, dormissimo insieme. Non ho mai capito per quale motivo. Forse temevano che, diventando grande, volessi sbirciare sotto le sue gonne, e ciò confermerebbe che, almeno all’inizio, non brillavano in acume. Io, da sempre dotato di spirito pratico, in realtà pensavo che in quella cameretta di pochi metri quadrati in due non potessimo starci, nemmeno con i letti a castello. E credo sia stata proprio questa la vera ragione della nostra separazione forzata.
Abitavamo a Cormano, nell’hinterland milanese, in una casa in cooperativa: un palazzone di cemento alto nove piani, con un piccolo giardino provvisto di parco giochi, che da bambino ho sempre detestato. Ma di questo parlerò più avanti. Mia madre si lamentava spesso che con i soldi guadagnati da mio padre non ci saremmo mai potuti permettere il lusso di comperare una casa tutta nostra. Così vivevamo in un appartamento in affitto, di cui lei andava molto fiera, perché era il più grande di tutto il condominio: settantatré metri quadrati. “C’è gente che in settanta metri vive in dieci. Noi siamo solo in quattro” continuava a ripeterci. E io, anche se per un brevissimo momento, individuai in quella metratura il segno di un benessere che mi infondeva sicurezza. Se c’è una cosa che i nostri genitori non hanno mai fatto mancare a me e a mia sorella era la serenità. Sapevamo benissimo che papà non era un dirigente e che con il suo stipendio mamma faticava ad arrivare alla fine del mese. Eppure, con una dignità che poi mi sarebbe stata di grande esempio nella vita, riuscirono sempre a garantirci un’infanzia serena a prezzo di grandi sacrifici. A dire il vero, oggi che sono un uomo che ha realizzato i propri sogni, che vive da solo in una grande casa su due piani, mi ritrovo spesso a pensare a quel piccolo e modesto appartamento di periferia e a rimpiangere la felicità che vi si respirava. Una felicità fatta di piccole cose: i ghiaccioli che la mamma preparava d’estate con lo sciroppo all’amarena che mi colorava le labbra (il mio primo rossetto...), le ciliegie appese in coppia alle orecchie come preziosi orecchini di rubini, le sere d’estate profumate di tiglio trascorse sul balcone a chiacchierare con mia sorella, mentre papà seduto in poltrona guardava la partita alla TV, le bucce dei mandarini sui caloriferi accesi nei lunghi e bui pomeriggi d’inverno, che mi facevano capire che il Natale era alle porte. Quel Natale che ancora oggi porto dentro di me, così vivo, così pieno di ricordi magici e colorati.
Adoravo scendere in cantina per prendere gli addobbi natalizi. Le palline di vetro dell’albero stavano in piccole scatole di cartoncino grigio divise in scomparti. Ogni anno ne trovavamo qualcuna rotta (ancora adesso non riesco a capire chi le rompesse) e si correva subito dal cartolaio a sostituirla. Facendo attenzione a non far cadere il preziosissimo puntale, che era l’addobbo più brillante e luminoso di tutti, concludevamo la decorazione dell’albero distribuendo sopra i rami la bambagia, a simulare i fiocchi di neve. Quanti pomeriggi ho trascorso a sognare davanti a quell’albero con le luci intermittenti. Mi piaceva starmene al buio, davanti a quei bagliori colorati che riempivano le pareti di casa di magici riflessi, incrociare le gambe e immaginarmi mondi fantastici. Quelli sono stati i miei primi viaggi. Ancora mi domando come la notte di Natale papà riuscisse a montare nella piccola sala in cui dormivo la pista delle macchinine o il trenino elettrico senza far rumore e svegliarmi. Fatto sta che il mattino, quando aprivo gli occhi, dopo aver dato un’occhiata alla tazza del latte che le renne di Babbo Natale avevano svuotato, mi incantavo davanti a quelle meraviglie. Da bambino, ho creduto con tutte le mie forze a Babbo Natale, e continuo a crederci tuttora. Guai a dirmi che non esiste. Sono convinto ancora adesso, a cinquant’anni suonati, che se ne stia nascosto in qualche luogo sperduto, in mezzo a elfi e gnomi. È grazie a lui se la notte di Natale non ha mai perso la sua magia, in qualunque parte del mondo uno si trovi. Ricordo che, quando andai a scuola, la prima cosa che i miei compagni fecero fu quella di distruggere le mie certezze. “Babbo Natale non esiste, cretino. Sono i tuoi genitori che comperano i giochi. Vai a frugare nell’armadio, guarda sotto il loro lettone e vedrai quanta roba ci trovi.” Ho pianto interi pomeriggi per quella cattiveria gratuita, ma non ho mai pensato di andare a sbirciare. Intanto perché Babbo Natale non me lo avrebbe perdonato e soprattutto perché non avrei mai trovato il coraggio di spiare nella camera dei miei, con le foto dei nonni defunti che mi guardavano severi. Ricordo ancora la tristezza nel disfare tutto quanto il giorno dell’Epifania. Raccoglievo la polvere d’argento del calendario dell’Avvento caduta per terra, i batuffoli di bambagia ormai ingialliti e mi prendeva il magone, pensando al lungo anno che mi avrebbe separato da quelle gioie tutte mie. Un retrogusto amaro che ancora oggi avverto, soprattutto la sera del 25 dicembre, che per me è la più triste dell’anno. Quando quel che resta della mia famiglia se ne va, spengo le luci e rimango nella mia grande casa vuota. Guardo il tavolo della festa, metto in sottofondo l’ultima carola di Natale e la tristezza mi assale. Mi è capitato anche lo scorso anno...
Ma torniamo alla cameretta. Dicevo che a mia sorella era toccata la cameretta e a me il divano della sala, che ogni sera dovevo ribaltare e trasformare nel mio letto. Me ne andavo a dormire subito dopo il “Carosello”, cioè intorno alle otto e mezzo. I miei genitori si trasferivano con Maria Daniela (per tutti “la Mary”) nella loro camera da letto, chiudevano la porta e insieme nel lettone guardavano un film o “Rischiatutto”. Io mi mettevo a pancia in giù, guardavo la luce della TV filtrare dalla porta chiusa e mi chiedevo perché dovessi dormire a comando, perché dovessi essere escluso dal calore di quel letto, di quei corpi. Lo so, vi sembreranno pensieri troppo adulti per un bambino di nove anni, ma era esattamente così che la pensavo.
Pensandoci bene, non sono mai stato un bambino facile. L’ho capito fin dai primi giorni di scuola. Ero così contento di iniziare la prima elementare. Zia Ester mi aveva regalato una cartella verde con il pelo di cavallino bianco e nero. E già lì facevo il difficile. “Questa è una mucca, non è un cavallino” dicevo a papà. “Mica ho mai visto cavalli bianchi e neri.” Ma mio padre, che era una persona con i piedi per terra e aveva una risposta per tutto, controbatteva: “In Olanda i cavalli sono tutti così”, e io la davo per buona. Comunque sia, accarezzavo quella cartella giorno e notte, mi sembrava la borsa delle meraviglie. La aprivo e sentivo l’odore della cartoleria Lucchini, quella che stava nel centro del paese vecchio e che era il mio negozio preferito. Là dentro c’era tutto il mio mondo. Il mio astuccio, con le matite Caran d’Ache tutte disposte in ordine di colore e perfettamente temperate, le gomme profumate, la Bic rossa, blu e nera. Il righello e il compasso. C’era anche il mio diario di Paperino. Il sussidiario pieno di figure da colorare e di storie meravigliose che non vedevo l’ora di imparare. Ero molto fiero pure del mio grembiule nero con un grande fiocco azzurro, che mamma stirava la sera, inamidandolo con acqua e zucchero. Quando stavo seduto nel mio banco e mi prendeva la nostalgia, ne succhiavo sempre un angolino e il sapore dolciastro di quel tessuto mi faceva sentire in qualche modo a casa. E poi era la volta della merenda, il vero legame con la mia famiglia. La mamma mi preparava sempre un panino con il prosciutto cotto. A dire il vero, poiché il prosciutto cotto costava caro, me lo farciva con la spalla, che era un tipo di prosciutto più grasso e pieno zeppo di fosfati (ma a quei tempi chi ci faceva caso?) oppure con la mortadella. Quando la campanella dell’intervallo suonava, i miei compagni scappavano in giardino come api impazzite. C’era chi giocava al pallone, chi a nascondino, chi faceva il gioco dell’elastico o della campana. Io me ne stavo sempre in aula, seduto nel banco, a mangiare la merenda che la mamma mi aveva preparato con tutto il suo amore. Non mancava mai però qualcuno dei miei compagni che si divertiva a prendermi in giro per questo. “Alfi, cosa ti ha preparato oggi la mammina? Alfiiii, Alfiiiiii.” Sulla scia di quel nome storpiato, che odiavo, arrivavano tutti gli altri che intonavano in coro: “Alfiiii, vediamo la merenda di Alfiiiiii”. Me la strappavano di mano e se la passavano fra loro. A volte ci giocavano a pallone. E io mi mettevo a piangere. Oh sì, piangevo. Mi dispiaceva veder trattare così male quella prova d’amore. Quanto ho sofferto... “La spalla non ci piace. Domani devi portare il prosciutto crudo, sennò ti gonfiamo di botte. Hai capito Alfi?” Avevo paura di quelle minacce, mi terrorizzavano, ma le tenevo per me. Non avrei mai raccontato nulla a casa, non volevo ferire nessuno. E così il giorno dopo uscivo di casa di corsa, salutavo mamma alla finestra, facendo finta di andare a scuola. Quindi, quando lei non poteva più vedermi, ritornavo indietro e mi infilavo alla Coop, il supermercato che stava sotto casa mia. Toglievo in gran fretta la spalla dal panino, la mandavo giù in un battibaleno e andavo dal salumaio a farmelo imbottire di prosciutto crudo. Lo facevo di nascosto, dando fondo ogni volta ai risparmi che tenevo nel mio salvadanaio a forma di porcellino. Ma quando durante l’intervallo i miei compagni si presentavano al mio banco reclamando la merenda e si dividevano il mio panino affamati, mi premiavano con una manata sulle spalle che per me valeva oro. “Bravo Alfi, questo sì che è un panino.” Alla fine se ne andavano soddisfatti, e io ero felice, perché quel gesto significava che ero stato accettato dal branco. In realtà avevo soltanto comperato la loro approvazione, ma quello l’avrei capito molto più tardi.
Come dicevo, non sono mai stato un bambino facile. Di ogni cosa volevo sapere il perché. Ricordo che l’ultima ora del sabato la maestra Cordani ci faceva cantare. Io ero affascinato dalla musica, ma non capivo il senso delle filastrocche che lei ci insegnava. Ce n’era una che non ho mai dimenticato. Faceva più o meno così: “Lassù in cima al Monte Nero c’è una piccola caverna, ci son dodici briganti al chiaror di una lanterna”. Io non riuscivo a comprendere come dodici briganti grandi e grossi potessero stare in una caverna tanto piccola. La maestra mi diceva che non era importante e non lo era neppure sapere dove fosse il Monte Nero. Così ho imparato in fretta a non domandarmi sempre il perché delle cose e, soprattutto, che non sempre a ogni domanda deve per forza seguire una risposta. C’erano però delle cose sulle quali mi intestardivo e non volevo saperne di ricredermi. Per esempio, quando la maestra ci diceva di disegnare la mamma. Tutti i miei compagni la raffiguravano con il solito faccione tondo, i capelli lunghi, le braccia e le gambe rinsecchite come tanti rami d’autunno. Ma le mamme così mi mettevano un po’ paura. Per me la mamma era il sole: ogni volta disegnavo un bel sole sorridente, con i pomelli rossi e gli occhi grandi grandi. La maestra, prima con le buone, poi sempre più seccata, mi riprendeva: “Alfonso, non disubbidire. Ti ho detto di disegnare la mamma, non il sole. La tua mamma, hai capito?”. Io facevo di sì con la testa, ma ridisegnavo sempre il sole, perché quella per me era la cosa più simile alla mia idea di mamma. In seguito capii che già allora possedevo quella capacità di astrazione che si manifesta in ciascuno di noi più avanti negli anni. Ma a quei tempi credo che neppure le maestre sapessero cosa fosse. Al massimo, giusto per mostrarsi erudite, discutevano fra loro delle camerette pastello del metodo Montessori, ma niente di più. Così un giorno, esasperata, la maestra Cordani prese il mio diario di Paperino e ci piazzò la prima nota: “Alfonso disubbidisce alla maestra. La mamma è pregata di presentarsi domani a colloquio”. Il giorno dopo la mamma mi accompagnò a scuola prima che suonasse la campanella. La maestra le spiegò tutto. Per anni ho tentato di cancellare l’immagine di quel mattino: ricordo solo il gran bruciore sulla guancia per lo schiaffo che mia madre mi diede davanti a tutti i compagni, i quali in quell’occasione se la risero di gusto sotto i banchi. Nient’altro. A ben pensarci, quello è stato uno dei giorni più tristi della mia vita. Non ero stato capito dalla persona che più amavo al mondo. E da quel giorno incominciai a disegnare la mamma come tutti gli altri bambini, con le braccia e le gambe rinsecchite. Solo con le mani un po’ più grandi.
Il ricordo più spensierato della mia infanzia, a parte il Natale, è indubbiamente legato alle vacanze. A casa mia vigeva una tradizione. Si partiva il giorno dopo la festa dei santi Pietro e Paolo. Lo ricordo perfettamente, perché la notte prima, come ogni anno, mettevamo sulla finestra un vaso pieno d’acqua con tre albumi d’uovo per fare la barca di san Pietro, per me uno dei misteri più ostici da digerire dopo quello della Trinità. Bisognava aspettare tutta la notte. All’alba si tirava su la tapparella per vedere se era avvenuto il “miracolo”. Se l’albume si era trasformato in un veliero (sì, lo so che san Pietro in realtà avrà avuto una barchetta sfigatissima, ma per mia madre aveva un veliero), allora si prospettava un anno pieno di meraviglie, in caso contrario, era una tragedia. La mamma non era mai contenta del risultato: un anno mancava una vela, un anno ce n’erano sei ma mancava la barca, un altro ancora mancavano i remi. Mi chiedevo che senso avesse praticare quel rito prima di partire per le vacanze, dato che più che sciagure non preannunciava. A quel punto sarebbe stato meglio fare come la mia bisnonna, che appena sveglia, rigorosamente a digiuno, apriva la finestra e sputava fuori. Contro la negatività, sosteneva, ma io pensavo solo ai poveracci che passavano sotto.
Mentre la sera mamma sbatteva gli albumi per la barca di san Pietro, a me ogni anno toccava un compito di grande responsabilità: scendere in garage con papà a caricare la macchina. Ecco, incominciamo dalla macchina. Avevamo una Simca 1000 color verde metallizzato. E se dico “Simca 1000 verde metallizzato”, c’è un perché. Eravamo troppo poveri per acquistare una 1100 di cilindrata: i miei avevano già fatto passi da gigante sostituendo una FIAT 850 con una Simca 1000, ma oltre non sarebbero mai andati. “La 1100 se la possono permettere solo i signori, consuma troppo” tagliava corto mio padre, quando gli chiedevo perché non aumentassimo un po’ la potenza del motore. In compenso il verde metallizzato faceva la differenza, era il dettaglio figo non proprio alla portata di tutte le tasche. Una sorta di status symbol, che applicato a una cabrio faceva la sua figura, ma a una Simca... be’, l’effetto era leggermente diverso. Ma torniamo ai bagagli. La Simca aveva un bagagliaio dove al massimo ci sarebbe entrata una ventiquattrore. Perciò bisognava caricare tutto sul tetto con tanto di portabagagli e legarlo bene con degli elastici. A me spettava il compito delicatissimo di tendere l’elastico una volta che papà avesse agganciato l’altro capo al portabagagli. Operazione infame: occorreva avere una forza pazzesca per appiattire al meglio le valigie, e c’era sempre il rischio che l’elastico si tendesse troppo e arrivasse a rompersi colpendoti in faccia. Ricordo che tiravo a tal punto da avere le vene del collo completamente gonfie: a ripensarci bene tirare gli elastici sulla Simca è stata la mia prima prova di virilità, come per un bambino masai sgozzare un’antilope. Ogni volta dovevamo caricare una quantità industriale di bagagli. Mia madre, quando andavamo in vacanza, si portava tutto da casa: dall’olio alla carta igienica, dagli antibiotici alla purga, indispensabile quando si cambiava aria (a proposito, perché oggi la purga non si prende più? Perché è cambiata l’aria o perché era semplicemente una stronzata?). Se facevo notare che sarebbe stato più semplice fare la spesa in un supermercato una volta arrivati a destinazione, la risposta era sempre la stessa: “I prezzi là sono il doppio. E noi non ci facciamo fregare”. Amen. Un anno io e il papà esagerammo a tal punto con i bagagli che non riuscimmo più a far entrare la macchina nel garage, perché le valigie erano più alte del soffitto. E così decidemmo di lasciarla sul marciapiede davanti a casa per tutta la notte, facendo a turno – io, mia sorella e i miei genitori – a mo’ di sentinelle alla finestra per controllare che nessuno si avvicinasse.
Il giorno seguente, dopo aver guardato la barca di san Pietro ed elencato tutte le disgrazie che ci sarebbero capitate nell’autunno a venire, finalmente si partiva. Non più tardi delle cinque del mattino: era l’unico modo per evitare la coda in autostrada. Il viaggio era immancabilmente un trauma. Innanzitutto, per il caldo. Con tutti i finestrini su, quando fuori c’erano circa trenta gradi. Non esisteva ancora l’aria condizionata in macchina e, se anche fosse esistita, mia madre sarebbe stata di certo contraria: il finestrino doveva rimanere ermeticamente chiuso. “Aria di fessura porta alla sepoltura” proclamavano in coro lei e zia Ester, con l’inguaribile ottimismo che le contraddistingueva. Io non capivo perché ci toccasse sudare tutti come cavalli, quando sarebbe bastato far entrare un po’ d’aria nell’abitacolo. Niente da fare. Una volta, sul punto di scoppiare dal caldo, protestai e minacciai mio padre di abbassare il finestrino. “Non farlo o ti prendi una sberla.” “Si può sapere perché?” urlai mettendo...