Dino Buzzati non festeggiava il Natale. Non faceva l’albero, né tantomeno il presepio. Fino alla morte della madre, scomparsa nel 1961, la sera del 25 dicembre la passava da lei, insieme con i fratelli (Augusto e Adriano) e la sorella Nina. In qualsiasi posto del mondo si trovassero, arrivavano lì, per il classico cenone e lo scambio dei doni. Ma i regali erano riservati ai nipoti: Buzzati adulto non capiva (e non amava) quel rito con tutto ciò che comportava. Nei ricordi della moglie Almerina non ci sono pacchettini da dare e ricevere sotto l’albero, né a Milano né a Cortina, dove già scappavano il giorno di Santo Stefano per un po’ di riposo.
Morta la mamma, il testimone è passato alla sorella Nina e il copione si è ripetuto invariato. Fino al Natale del 1971, l’ultimo, che lo scrittore, ormai gravemente malato, passerà alla clinica La Madonnina di Milano, nella stanza 201, con le pareti chiare, le porte verdognole, il pavimento rosa e le luci al neon, circondato da pochi, strettissimi amici.
Perché per Dino Buzzati il Natale era un giorno come un altro; lo aveva scoperto proprio grazie al giornalismo: seduto al tavolo di redazione durante le lunghe notti di chiusura, quando il «Corriere della Sera» usciva anche il 25 dicembre; come corrispondente in Africa alla fine degli anni Trenta, come inviato al fronte a bordo dell’incrociatore Trieste durante il Secondo conflitto mondiale; come cronista di nera, di giudiziaria, di costume nel dopoguerra e oltre. «A Natale e Capodanno si lavorava regolarmente ed era allora che scattava lo spirito di corpo», ha raccontato Gaetano Afeltra, intimo amico e suo direttore al «Corriere d’informazione»: «Ogni redattore teneva ad essere al suo posto: lavoravano i tipografi, lavoravano i giornalisti».1 Lavorava naturalmente il «doverista» Buzzati, per il quale i giorni erano scanditi dalle notizie prima che dal calendario.
Dino Buzzati, insomma, non sentiva il Natale, e anzi rifiutava il suo armamentario di lustrini, biglietti d’auguri, consumismo, bontà a orologeria.
Eppure, nonostante come uomo lo fuggisse (sottraendosi appena poteva alla sua giostra), il «tema Natale» attraversa tutta la sua vita di scrittore e giornalista, ripetendosi, ritornando negli anni con cadenza quasi regolare, tanto da ritagliarsi un capitolo a parte (ma quanto buzzatiano!) nella sua produzione artistica. Un capitolo che questa antologia ha voluto ricostruire raccogliendo per la prima volta in volume tutti i suoi scritti sul Natale,2 dalla cronaca di quello africano da Addis Abeba ai consigli su come orientarsi nella scelta del regalo, dal ricordo del suo primo Gesù Bambino senza il padre al breve e caustico elzeviro sul Natale degli anni della contestazione giovanile.
Non solo racconti, dunque, ma anche articoli più strettamente giornalistici, fiabe disegnate, testimonianze autobiografiche. Poesie, cronache, commenti, persino pezzi di servizio3 – per la maggior parte mai più pubblicati da quando apparvero sulle pagine del «Corriere della Sera», del «Corriere d’informazione» e del «Corriere Lombardo», e su periodici come «L’Europeo», «Amica» e «Novità» – nei quali Buzzati analizza la festa per eccellenza da ogni angolazione; la indaga, la seziona fin nel profondo, usando la penna come l’anatomopatologo usa il bisturi: per mostrarcela com’è davvero, in tutte le sue sfaccettature. Per scoprirne gli aspetti più nascosti, contradditori e amari, e aiutarci ad affrontarla senza venirne travolti. Trasformandola in uno specchio nel quale mostrarci come siamo.
Non solo: proprio per il suo inevitabile e ciclico ripetersi, il Natale è anche un riflettore puntato sull’Italia che cambia, tanto che seguire il filo di questi scritti significa ripercorrere oltre trent’anni di storia del nostro Paese – dalla guerra al boom economico al Sessantotto. Ma soprattutto è una chiave per entrare nella vita (persino privata) di Dino Buzzati e scoprirla anno dopo anno; per disegnare il ritratto di un uomo e di quei momenti – fatti di riflessioni, sfoghi, emozioni, prove e ricordi – che l’hanno segnato.
C’è una poesia dal titolo Compleanni4 nella quale l’autore del Deserto dei Tartari racconta la propria esistenza affiancando per cinquantasette volte il giorno della nascita (il 16 ottobre) a una frase lapidaria, che riassume il suo status – emotivo e di vita – in quel momento: dall’attimo in cui venne alla luce – «ma che grazioso bambino» – ai primi palpiti amorosi – «la vide una mattina al Parco» –, dal suo debutto nel giornalismo – «fra i giovani più promettenti» – all’avvicinarsi della morte – «non senti quel rombo?» –. Nelle pagine di questa antologia, il Natale funziona allo stesso modo del compleanno: è un motore biografico e umano, che guida il lettore alla scoperta di un uomo nel quale vita e scrittura non possono mai essere separati.
In principio fu Dickens: una festa (non solo) da raccontare
L’abitudine a dedicare articoli e novelle al Natale nasce intorno alla metà dell’Ottocento. Per quanto non manchino esempi illustri anche prima, come lo Schiaccianoci e il Re dei topi di E.T.A. Hoffmann (del 1816), guardacaso uno scrittore particolarmente amato da Buzzati, tutto comincia infatti negli ultimi mesi del 1843 quando a Londra Charles Dickens dà alle stampe A Christmas Carol,5 ancora oggi un classico (e un modello) del genere, seguito negli anni successivi da altri racconti che, pubblicati separatamente su riviste e periodici, verranno raccolti sotto il titolo complessivo di Christmas Books.6 Da lì in poi, il racconto di Natale comincia a prendere forma, a ritagliarsi un proprio spazio, fino a diventare nella seconda metà di quel secolo un punto fermo della letteratura internazionale, con abbondanza di titoli e successo di pubblico. Una tendenza che investe anche l’Italia (dove i racconti di Dickens arrivano tradotti per la prima volta nel 1852), stimolando e coinvolgendo autori come Luigi Pirandello e Giovanni Pascoli. E che va via via consolidandosi fino a diventare una consuetudine radicata in tutto il Novecento.
Oltre ai libri, sono infatti molte le riviste che, a cavallo dei due secoli, dedicano all’argomento anche canzoni, disegni, poesie. Si tratta di periodici per famiglie, come «L’Illustrazione Italiana» e «Natura e Arte», e di pubblicazioni più strettamente letterarie, come «La lettura» di Giacosa o il «Fanfulla della Domenica», per le quali scrivono penne come Fogazzaro e Gozzano.
Ma anche i quotidiani sono sensibili al racconto di Natale. Soprattutto il «Corriere della Sera», che già prima della Grande guerra gli riserva l’elzeviro del 24-25 dicembre, avvalendosi di autori (oltre ai già citati Pirandello, Gozzano e Pascoli) quali Grazia Deledda, tra le firme più «fedeli» al genere, e d’Annunzio. Cui si aggiungono via via Italo Calvino, Mario Rigoni Stern, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Giovanni Arpino e, ai giorni nostri, Erri De Luca e John Grisham.
Dino Buzzati si inserisce a pieno titolo in questa tendenza, ma, come è nel suo stile, lo fa innanzi tutto da giornalista. Alternando (e mischiando) cronaca e letteratura, l’elzeviro al pezzo di costume e di servizio. Durante la sua lunga carriera (43 anni sulle ridotte della Fortezza di via Solferino, dove entra nel 1928 a soli 22 anni e dove, tranne una breve parentesi al «Corriere Lombardo», lavora quotidianamente fino alla scomparsa, nel gennaio 1972) lo scrittore bellunese dedica al Natale quasi un pezzo all’anno, a volte anche più d’uno, trasformandolo in una «definita occasione narrativa» come scrive Patrizia Zambon in un dotto e documentato saggio sull’argomento.7 Diventa insomma, soprattutto per quel che concerne i racconti, un modo di adattare (forse anche su commissione) la propria poetica e il proprio stile a un tema tanto diffuso, ma nel contempo «stanco» e ripetitivo, quanto il Natale. Esattamente come accade a molti altri scrittori che dal dopoguerra ai primi anni Settanta affiancano Buzzati in questo percorso: da Giuseppe Marotta a Giovanni Papini, da Orio Vergani a Riccardo Bacchelli, da Alberto Moravia a Ennio Flaiano, che dalle pagine del quotidiano di via Solferino allacciano un filo diretto con i lettori, attraverso storie nelle quali essi si possano identificare.
Cronache sotto l’albero: da via Solferino al Mediterraneo, passando per l’Africa
Il primo incontro letterario con il Natale Buzzati ce l’ha però da ragazzo, a 14 anni, attraverso il racconto dell’avaro Scrooge inventato da Dickens. Lo legge per scuola, preferendolo a un libro di Barzini «perché è più corto».8 È lui stesso a confidarlo ad Arturo Brambilla, amico fraterno e compagno di scuola al liceo Parini di Milano, in una lettera del 28 dicembre 1920, anno in cui i due frequentano il Ginnasio superiore. E il giorno dopo, in un’altra missiva, precisa: «Io ho già copiato il tema e il francese, sono dietro a ripassare il greco, leggo Dickens, Il cantico di Natale e per Gualdi Histoire comme ça di Kipling che sono molto originali e satirici».9 Una lettura che lo colpisce e gli rimarrà dentro per tutta la vita, contribuendo a formare la sua predisposizione al genere. Tanto che molti anni più tardi, nel corso della sua ultima, lunga, intervista concessa al buzzatologo Yves Panafieu, ricorderà: «Di lui [Dickens] pure ho amato il racconto di Natale, sai, quella favoletta di una perfezione meravigliosa, dove c’è quel vecchio avaro che torna a casa la sera di Natale e vede lo spettro del suo amico e del suo socio morto. Allora vengono gli spettri di un Natale passato che lo conducono in giro alla terra… È bellissimo…».10
Tuttavia il suo primo scritto sul Natale non è un racconto, ma un «pezzo» giornalistico, che esce sulle colonne del «Corriere della Sera» il 19 dicembre 1934. A quel tempo Buzzati, passato professionista da due anni, lavora in redazione al fianco di Emilio Radius, ed è, prima che scrittore, uno dei «cuochi» del giornale, uno che partecipa e contribuisce quotidianamente alla sua fattura. Così, pur avendo già debuttato come elzevirista,11 dato alle stampe il romanzo breve Bàrnabo delle Montagne (nel 1933) e terminata la stesura del Segreto del bosco vecchio, si cimenta con un articolo di costume. Si intitola Tecnica del presepio, ed è un pezzo nel quale Buzzati, oltre a operare una disamina dei vari tipi di presepio, analizza abitudini e comportamenti legati a questo «rito gentile»,12 dispensando anche qualche consiglio pratico per assolvere al meglio un «lavoro che può sembrare un giuoco ed è invece carico di serietà e di mistero». Perché per costruire un presepio vero, «genuino», «ispirato e felice» – impresa che, sostiene provocatoriamente, «non è per le mamme, poiché richiede capacità organizzativa, ingegnosità tecnica e slancio di fantasia, doti precipuamente maschili» – occorre innanzi tutto ritrovare la perduta «semplicità di un tempo», quel misto di innocenza e fantasia che si addormenta con la crescita, come racconta Sir James Matthew Barrie nella fiaba di Peter Pan, ma che è l’unico sentimento che permette di sognare e di volare verso l’Isola che non c’è. Quello stato d’animo che i signori Darling riassaporano come una «madeleine» solo alla fine della storia, rigustando le gioie perdute dell’infanzia. È quella semplicità, dice Buzzati, che trasforma un presepio apparentemente logoro e misero, povero e filologicamente inesatto in un piccolo capolavoro, rendendolo vivo, più struggente ed evocativo di quelli perfetti e scintillanti «delle grandi botteghe del centro». È la nostra fantasia a farlo pulsare, quella fantasia che molti anni dopo si incarnerà in un babau svolazzante sui tetti della città, un rassicurante mostro blu «fatto di quell’impalpabile sostanza che volgarmente si chiama favola o illusione»,13 che noi, scriteriati e incoscienti, uccideremo senza sapere che così facendo uccideremo una parte di noi stessi.
Ecco dunque che già da un semplice articolo di costume si affacciano timidamente alcuni dei temi che si ritroveranno nei lavori (racconti e romanzi) futuri: la fantasia, il mistero, l’inevitabile scorrere del tempo. E contemporaneamente vengono tracciate le prime, leggere pennellate del ritratto dell’uomo-Buzzati. Ma in fondo è ancora un pezzo di routine, il suo, di mestiere, di approccio un po’ meccanico a un tema che forse né il giornalista né lo scrittore immaginano torneranno a trattare negli anni a venire. Dunque non emergono ancora chiari riferimenti autobiografici. Piuttosto...