Lo sparo arrivò all’improvviso. Appena il tempo di voltarmi indietro, verso il Circolo Pickwick dove avevamo bevuto una birra e mangiato qualche crostino, e sentii il secondo colpo. E poi il terzo, quello finale, che lo prese in pieno viso. Riuscii a vedere a malapena la loro ombra. Erano in due, i volti coperti da caschi integrali scuri, forse neri. Li vidi allontanarsi, dileguarsi in pochi attimi a bordo di uno scooter grigio e bianco. Di loro restava il segno della sgommata sull’asfalto di via San Felice. E, poco più in là , il bersaglio umano abbattuto dalle pallottole.
Tutto accadde in pochi attimi. I dieci secondi che cambiarono la mia vita. Capii subito che la morte, la sua puzza, non mi avrebbe più abbandonato. Non c’è più scampo pensai, incredulo, quando vidi il cadavere di Luigi riverso sul bordo del marciapiede, rosso del suo sangue. Avevo la sensazione di trovarmi al capolinea del viaggio che avevo intrapreso con lui dieci mesi prima. L’ossessione della verità che sega il respiro. Che turba le notti, il sonno, la quiete.
Corsi verso di lui, mentre urlavo ai negozianti di chiamare l’ambulanza. Loro osservavano la scena, immobili e muti. Attenti a non oltrepassare il confine che separa il coraggio dalla viltà , segnato dalle guide delle saracinesche delle loro botteghe, a quell’ora semivuote. La paura di incrociare lo sguardo di qualche complice dei killer, magari ancora sul posto, li paralizzava.
«Fate presto, aiutateci, presto!» ripetevo sgolandomi, incapace di organizzare e coordinare i movimenti.
Raggiunsi il corpo di Luigi immerso in una pozza di sangue. L’impatto del mio piede sul terreno produsse una raggiera di schizzi microscopici che colorarono di piccoli pois scarlatti il muro chiaro di fronte a noi. Passai il braccio sotto la schiena del mio amico. Tentai di rianimarlo nella speranza che l’ambulanza ci raggiungesse il prima possibile. Ma dieci minuti dopo ancora nessuna sirena infrangeva quel silenzio denso d’impotenza e di morte. Luigi non reagiva, lo sguardo smarrito, l’espressione lontana di chi sogna a occhi aperti. Cosa pensi, Luigi? Qual è l’ultimo pensiero di un uomo che muore inseguendo la verità ? Quei bastardi l’avevano colpito alle spalle. Giustiziato di fronte ai commercianti tenuti sotto scacco con il racket del pizzo. Pagano per tranquillità , versano una parte del loro profitto per convenienza e tacciono.
Mentre i miei occhi passavano in rassegna i volti dell’omertà , irruppe il suono penetrante della volante della polizia. Scesero in due. «Chi è lei?» mi interrogarono. «Sono un collega della vittima, si chiama Luigi De Carlo, è un giornalista, un amico, un caro amico.»
«Come mai è qui?» chiese il giovane capopattuglia tradendo una certa insicurezza.
«Eravamo insieme in quel locale lì davanti, ci veniamo spesso, ci eravamo appena congedati» tentai di spiegare, mentre accarezzandomi il braccio sentivo il sangue di Luigi, ancora caldo, che impregnava il maglione.
Luigi, il mio maestro. Quello che sapevo del mestiere me l’aveva insegnato lui. Nei primi anni di pratica giornalistica mi portava nei quartieri più pericolosi della Milano anni Ottanta, quella da bere, da fumare, da bucare, da tirare. Quella del sogno socialista riformista di Bettino Craxi e dei sequestri di persona, con cui i padrini della ’ndrangheta si esercitavano in una prova di dialogo con i pezzi dell’economia lombarda. Giravamo, lui mi indicava i fortini dei boss, le ville dei capimafia, le piazze di spaccio. Mi aveva iniziato al cinismo necessario per rincorrere le volanti e arrivare prima degli altri cronisti davanti ai corpi massacrati nelle sparatorie. Luigi, il mio primo capo. Una guida. E poi di nuovo colleghi a Bologna. Lui caporedattore e io inviato della testata «Mezzogiorno del Nord», fondata da cinque imprenditori coraggiosi che con le loro denunce avevano mandato dietro le sbarre della Dozza una ventina tra boss, professionisti e politici. Le camminate in piazza Santo Stefano, le chiacchierate seduti sui gradini in piazza Maggiore, le bevute all’Irish Pub di via Zamboni con la scusa del posticipo della serie A.
Ma quella sera non avevamo parlato del più e del meno. Luigi mi aveva detto di stare attento, che le persone nominate nell’ultima nostra inchiesta, quella a puntate, non arretravano nelle minacce. Avevano provato prima ad ammorbidirlo in vari modi, e sempre la risposta era stata un no determinato. Sapevano che aveva altro materiale, più scottante, decisivo per svelare i loro loschi affari. Gli avevano chiesto di consegnarglielo, gli avevano proposto di barattarlo con una posizione da dirigente nella redazione di uno dei settimanali più importanti. Erano uomini potenti, fortemente irritati dalla pista che stavamo seguendo. Sapevano anche di me, ma lavoravano lui perché aveva fama di osso duro, di incorruttibile e, una volta addomesticato, gli altri si sarebbero adeguati. Ma Luigi non aveva ceduto. Da un mese gli squilli del telefono, durante la notte, lo svegliavano all’improvviso. «Pronto!» rispondeva assonnato, e dall’altra parte il silenzio seguito da un colpo secco di pistola. Poi di nuovo silenzio. Telefonate rivelatrici d’un pericolo inimmaginabile per una città come Bologna. E che adesso, nel suo corpo esangue, assumeva forma e sostanza.
Luigi aveva risposto nell’unico modo che conosceva. Aveva denunciato gli avvertimenti minacciosi di cui era oggetto e il prefetto aveva dato ordine di disporre una vigilanza sia sotto casa sua sia intorno alla redazione del giornale. Gli avevano consigliato di stare attento, di evitare gli orari ripetitivi, gli stessi locali. Insomma, di guardarsi le spalle. E la vita.
Non era un incosciente, Luigi, ma ogni tanto si concedeva una passeggiata. Solo. Lui e i suoi pensieri, lui e il rumore delle auto in corsa frenetica lungo i viali che abbracciano il centro di Bologna. Passeggiava per riconciliarsi con se stesso, per liberarsi dal macigno della barbarie quotidiana della quale era testimone e cronista. Lui, le sue amarezze, la sua rabbia, i suoi pensieri. Erano attimi in cui indossava l’abito dell’intimità . Dell’uomo di fronte alla propria coscienza, che fa i conti con i sentimenti. E quella sera non aveva detto di no quando gli avevo proposto di fermarci al Pickwick per una birra.
Tornai a guardare il suo cadavere. I suoi occhi grandi, sempre arrossati dal fumo, che avevano visto centinaia di morti ammazzati, erano già stati pietosamente chiusi da un agente. Fissavo la sagoma bianca che la polizia scientifica aveva disegnato attorno al corpo.
«Libero, eccomi.» Finalmente una voce amica. Tullio De Rosa. Un bravo investigatore. Più che a uno sbirro assomigliava a quei fisici nucleari sulla sessantina che di rado escono dal laboratorio per farsi baciare dalla luce del sole. Vestiva con jeans e maglioni colorati, la divisa non la indossava da dieci anni. Non era molto alto. E dietro gli occhiali tondi e piccoli lo sguardo fotografava ogni minimo particolare sulla scena del crimine. I riccioli bianchi, la barba incolta, le Clarks ai piedi, i pantaloni di fustagno marrone e un impermeabile logoro, che usava solo quando le giornate promettevano acquazzoni, gli davano un’aria da intellettuale. Ma non aveva mai amato le scartoffie e le firme. Era un poliziotto che viveva nei quartieri, nelle strade. Che conosceva ogni tipo di miseria. Aveva visto da vicino lo schifo assoluto dei ghetti metropolitani, eppure, di fronte al corpo di Luigi, non riuscì a trattenere le lacrime. Mi abbracciò. Erano buoni amici, come qualche volta capita tra giornalisti e poliziotti. Poi, senza dire nulla, asciugandosi gli occhi con il polso, si allontanò per iniziare l’analisi del luogo: cercava i bossoli e studiava le impronte del mezzo sul quale viaggiavano i killer. Siamo in buone mani, pensai. La verità ha qualche chance di venire a galla.
Io me ne stavo seduto. Aspettavo di vomitare il dolore acido che mi incideva le budella. Tra poco sarà tutto finito, mi ripetevo. Volevo crederlo, cercavo conforto. O forse era solo l’inizio, il primo passo di una corsa contro il tempo. Noi contro di loro. Loro che vogliono imporsi sulle nostre vite e gestirle con le armi e il denaro. Noi che vogliamo rendere noti i nomi, i cognomi, le facce e i travestimenti dietro cui si celano. Perché far conoscere il male che attanaglia un paese è un dovere, un contributo di giustizia alle vittime che non ne hanno avuta. È il riscatto offerto a chi è costretto ad aspettare, blindato nella propria casa, che la giustizia si faccia viva.
Tullio ritornò. «Libero, è incredibile, sembra di essere in un film. Non ti voglio chiedere nulla, hai la faccia d’un cadavere e gli occhi che sembrano buttare sangue. Vai a casa, va’, che domani ti vengo a trovare e ne parliamo. Ormai, qui purtroppo non puoi fare più nulla, né per noi né tantomeno per Luigi. Dal tuo giornale sta già arrivando Enzo Spasimato. Gli dirò che ti ho mandato via io. Che non eri in condizioni di restare. Lo rassicuro io. Vai, ci pensi su, e domani mi fai sapere se ti sei fatto un’idea.»
«Guarda, Tullio, non saprei da dove cominciare.» Mentivo. Dentro di me sapevo bene dove andare a scavare. Mi fidavo di De Rosa, ma non potevo rivelare a nessuno i particolari dell’inchiesta da cui erano scaturiti gli articoli che a Luigi erano costati la vita. «Credo comunque che si tratti di ordini arrivati dall’alto, non è roba da picciotti in carriera. Uccidere un cronista, di questi tempi, vuol dire fare scoppiare un casino mediatico di dimensioni eccezionali. Se sono arrivati a tanto, se hanno deciso di ucciderlo, be’, la decisione è stata ponderata. È stata la soluzione finale, perché il gioco a cui stanno giocando vale un cadavere eccellente.»
«Mi nascondi qualcosa, Libero?»
«Ma no, figurati, siamo amici, non potrei mai, però ho in mente cose su cui voglio vederci chiaro.»
Aspettavo la sua reazione. «Ehi, ti avverto, non ho intenzione di raccogliere da terra un altro amico. Quindi ti prego, non fare di testa tua come al solito. Luigi è stato ammazzato. Scopriremo chi è stato. Ma non giocare a nascondere le notizie. Questi non scherzano. E su una cosa ti do ragione: farlo fuori è stata una decisione fredda, razionale, per questo ti chiedo di portarmi il materiale che avete raccolto finora, tu e Luigi.»
Cazzo, sapeva dell’inchiesta. Fu in quel momento che mi venne in mente la pen drive che io e Luigi avevamo nascosto a casa sua, la nostra cassaforte informatica dei rapporti tra politica e mafia. Quasi sobbalzai al pensiero che avrei dovuto recuperarla appena possibile, ma riuscii a controllarmi. «Non è tanta roba, comunque ti farò avere i file» minimizzai.
Ci salutammo. Il corpo di Luigi venne portato via dall’ambulanza. Il medico legale avrebbe fatto l’autopsia, estratto i proiettili e analizzato i fori d’entrata e di uscita. I periti avrebbero cercato di risalire all’arma che aveva sparato. Ero pronto a scommettere che si trattava di un’arma con la matricola abrasa. Di provenienza sicuramente clandestina.
Il suono delle sirene dell’ambulanza si faceva via via più distante, sfumava tra i palazzi della periferia. Ma nella mia testa continuava a fare da sfondo a pensieri liquidi in perpetuo movimento. Salii sul motorino e lasciai quel luogo infestato di fantasmi travestiti da commercianti silenziosi. Mi portavo addosso la sensazione di essere anch’io un fantasma. Non percepivo le mie membra, avvertivo un dolore diffuso che partiva dalle gambe e arrivava fin dentro il cuore. La mente annebbiata. Entrai in casa senza accendere la luce e mi buttai sul divano. Le luci della via penetravano attraverso i fori delle tapparelle semichiuse e disegnavano sul muro piccoli rettangoli luminosi. Seguivo con gli occhi quelle piccole tessere e a ognuna di esse assegnavo un nome, uno di quelli contenuti nei file custoditi a casa di Luigi, e a ciascuna un ruolo. Mi addormentai senza accorgermene. Dormii senza sogni.
Il mattino dopo mi svegliai tardi, la testa pesante e il cuore agitato. Buttai giù un caffè, che non riuscì a smorzare il senso di nausea che mi attanagliava, e uscii di casa. Avevo bisogno di vedere una faccia amica. Di lasciare che qualcuno si prendesse cura di me anche solo per cinque minuti.
Dietro il bancone del bar, Marcello, le mani poggiate sul piano, scosse ripetutamente la testa. Aveva gli occhi arrossati, il collo teso. Aveva saputo dell’omicidio dal notiziario delle otto. «Quelli che Luigi ha smascherato e inchiodato con le sue inchieste, anche quelli più collusi che siedono in Parlamento, lo descrivono come un eroe» batté i pugni sul bancone.
«Ti disprezzano in vita, ti scaricano addosso interi cassoni di fango e poi, quando qualcuno ti fa fuori, è come se fossi stato il loro più caro amico» gli risposi senza pensarci, come se quella frase fosse stata pronta da sempre.
«Hai ragione» disse Marcello. «Coperti da un lenzuolo bianco e all’obitorio, non fanno più paura.»
Mi vennero in mente i giudici antimafia di Palermo. Odiati fino a che il tritolo o le pallottole non li avevano eliminati. Lasciati soli, additati pubblicamente come carrieristi alla ricerca di notorietà , chiamati bastardi e infami nei salotti privati, erano diventati eroi una volta fatti fuori. Resi innocui dal silenzio eterno, tutti avevano gareggiato nel proclamarsene amici e discepoli. Solo che loro non potevano più scegliere di chi essere amici. Perché erano morti, uccisi come tonni. Mentre i corvi, vigliacchi, ne approfittavano, ingrassavano con la carne delle vittime eccellenti. La storia si ripete sempre. L’ipocrisia copre le responsabilità , salva i colpevoli. Cancella il passato e le complicità .
«Marcello, fammi un caffè con un goccio di grappa» gli dissi mentre scivolavo sul divanetto di fronte al bancone del bar. Sul tavolino in vetro, quattro quotidiani circondavano l’unico posacenere del locale. Ne presi uno, lo sfogliai a caso, senza cercare la notizia ma col pensiero fisso sull’immagine di Luigi, cercando di mettere a fuoco gli attimi più intensi passati insieme. Le notti in redazione. Le cene da Vito, l’osteria dove era facile incontrare Francesco Guccini. Le feste sui colli d’estate. I blitz al seguito degli investigatori nei palazzi dell’alta borghesia bolognese. Le serate con Edy, educatrice nel quartiere ghetto del Pilastro, quello della banda della Uno bianca, che ci chiedeva spesso aiuto per saperne di più sui brutti ceffi che giravano nel quartiere in cerca di giovane manovalanza da arruolare.
Una cascata di ricordi, interrotta da Marcello che mi portava il caffè. L’aroma d’arabica misto all’odore forte e secco della grappa mi risvegliò la nausea. Bevvi tutto d’un sorso. Sentii i brividi arrivare fin dentro lo stomaco. Guardai Marcello, e lui intuì di cosa avevo bisogno. Mi porse le chiavi del bagno. Feci appena in tempo a chiudermi dentro e i conati coprirono il suono soffuso della radio. Mi sedetti per terra, sulle mattonelle nere e fredde, per riprendere contatto con la realtà . La radio annunciava nuovi dettagli sull’omicidio De Carlo. La giornalista riferiva di un agguato mafioso. Descriveva Luigi come un alieno, un eroe senza paure, una specie di superman che non si ferma davanti a nulla. No. Lui, le paure ce le aveva eccome, e anche i dubbi, e ogni giorno faceva i conti con l’ansia. Semplicemente perché era umano.
Adesso, però, dovevo assolutamente recuperare la pen drive nascosta a casa di Luigi. Di certo, gli assassini erano già alla ricerca di quel materiale. Se Luigi gli avesse consegnato quell’archivio di file, che scottava più di una colata di lava, forse si sarebbe salvato. Se avesse accettato le loro proposte, sarebbe stato ancora qui. Ma, se in quegli anni avevo imparato a conoscerlo, dopo non avrebbe avuto il coraggio di uscire di casa. Avrebbe preferito morire piuttosto che abbassare la testa. Lo ripeteva spesso. Suo padre non gli aveva lasciato proprietà o denaro in eredità , solo gli aveva raccomandato di non permettere a nessuno di mettergli i piedi in testa.
Le informazioni in nostro possesso avevano una potenza devastante. La loro pubblicazione avrebbe gettato nel panico i collusi nascosti nei palazzi del potere.
Uscito dal bagno, mi appoggiai al bancone, quasi senza forze. Mentre il dolore mi artigliava lo stomaco, Marcello mi mise le mani grosse e ruvide sulle spalle. Era preoccupato. Pure lui.
«Sarei un ipocrita se ti dicessi di dimenticare il prima possibile il sangue di Luigi. L’unica cosa che mi sento di dirti è di portare avanti quel che avete iniziato.» Il contatto con Marcello, sentirlo vicino, mi rassicurò. «Continua il lavoro, sputtanali, mostragli che gli uomini passano, che ne possono ammazzare a migliaia, ma ce ne saranno altri che si ribelleranno, anche nel nome di chi non c’è più.»
Parole trite, ne avevo le palle piene della retorica della giustizia. Marcello però era un amico, quello che diceva lo pensava sul serio. E gli amici, in certi momenti, sono quanto di più prezioso esista. Era sincero, Marcello, onesto e pieno di umanità . Ma in quel preciso istante ogni buon sentimento era offuscato dalla voglia di vendetta, un istinto animalesco e rabbioso che sembrava potersi placare soltanto con altro sangue. Non si trattava più di accertare fatti e sperare nella giustizia.
Mio padre mi raccontava spesso della Resistenza sugli Appennini assieme ai suoi compagni. Giornate intere nell’attesa che passassero i camion ted...