I ragazzi della DEA, la Drug Enforcement Administration, fecero visita al New Dawn Wellness Center subito dopo la calca del mattino, quando pochi ultimi yuppies ritardatari – una vera e propria contraddizione in termini – stavano trangugiando le loro ciambelle di bulghur e le famose “uova fritte” vegetariane, a basso contenuto calorico e di colesterolo, con gli albumi fatti di tofu e i tuorli di zucca schiacciata. C’erano persone a sufficienza per suscitare il giusto scalpore, ma non abbastanza da essere d’intralcio o rischiare di farsi male sul serio. Nell’ultimo inverno degli anni Ottanta, i guerrieri antidroga d’America non potevano compiere errori davanti agli occhi della stampa, del pubblico o della legge, ma le autorità davano da intendere che se si fosse reso necessario andarci pesante, come sperava ampiamente ogni membro della squadra d’assalto, non avrebbero dovuto esserci troppi civili bucherellati a sanguinare davanti alle telecamere.
Soprattutto sulla scena di quello che per i media sarebbe stato il blitz del decennio: la DEA contro l’asso rinnegato.
Mentre gli agenti in borghese mettevano al sicuro i clienti e l’unica impiegata, tarchiata, scontrosa e con i capelli a spazzola, un’unità di tre uomini del CLET, Covert Lab Enforcement Team, il Reparto laboratori clandestini, si gettò nel ristorante con le loro uniformi alla Dart Fener e le CAR-15, strette in mani guantate di nero e con le canne avvolte dai silenziatori. Uno di loro si fermò e, prima di precipitarsi su per le scale, diede una testata allo stipite della porta di servizio con il suo casco di Kevlar.
«Ti stiamo aspettando, Lynn» disse il suo compagno Dooley mentre saliva al secondo piano. Le parole di Dooley erano attutite dalla maschera, ma, per una sorta di percezione derivante dalla lunga amicizia che li legava fin dai tempi delle medie, Lynn sapeva che stava sorridendo. Gli sorrise a sua volta e chinò la testa.
Lui e Dooley si addossarono ai due lati dell’uscio, mentre Matteoli faceva scivolare la punta di gomma di un grosso piede di porco arancione tra la cornice e la porta e faceva leva per aprirla. Gli altri due fecero irruzione – Lynn rasoterra a sinistra, Dooley sollevato a destra.
«DEA! Reparto laboratori clandestini! State fermi, figli di puttana!»
Un luna park, un maledetto luna park. Non era molto grande, ma nessuno di loro aveva mai visto una cosa simile al di fuori di una struttura governativa o di un’università. Si trattava del loro undicesimo blitz in un laboratorio e non avevano visto neanche la metà di tutta quella attrezzatura.
Le uniche cose fuori luogo erano i due uomini in mezzo a tutta quella luccicante tecnologia. L’unità d’assalto del CLET era stata avvertita di aspettarsi la classica feccia che bazzicava di solito intorno a un vecchio hippie, non un tizio nero di mezza età e un ispanico più magro e più giovane in giacca e cravatta.
L’ispanico infilò subito la mano nella giacca con un movimento che poteva significare soltanto una cosa: Dooley gli puntò addosso la sua arma.
«Fermo lì...»
La grossa Colt Python dalla bindella forata ruggì non appena fu in linea, falciando via Dooley nel bel mezzo della frase. La voluminosa corazza che gli rivestiva il corpo avrebbe fermato persino una pallottola .357 ad alta velocità, la lastra piatta lo avrebbe respinto, ma il proiettile a espansione incamiciato si infilò di colpo tra il bordo dell’elmetto e la parte superiore della maschera, trapassandogli l’occhio destro e il cranio.
«Dooley!» urlò Lynn e premette il grilletto. Come chiunque altro al CLET, aveva avuto il selettore di fuoco a tre posizioni sul fucile d’assalto disabilitato appena gli era stata fornita l’arma. Diede fondo a tutto il caricatore: sentì le pallottole ad alta velocità gorgogliare; Matteoli, dalla porta, faceva lo stesso.
L’ispanico lasciò cadere la Python e fece qualche passetto di danza a ritmo di jazz, mentre la sua camicia candida diventava rossa. Il tizio di colore si gettò fuori dal campo visivo.
Lynn ruotò su se stesso e si mise di schiena contro un tavolo da laboratorio: non avrebbe certo fermato un proiettile, ma almeno poteva nasconderlo alla vista. Abbandonò il caricatore usato, ne cercò tastoni un altro nel portamunizioni attaccato alla cintura e lo ficcò nell’arma.
«Matty, lancia a quella merda una granata stordente!» gridò.
«Rinforzi!» rispose gridando Matteoli. «Dobbiamo chiamare i rinforzi!»
“’Fanculo” pensò Lynn. Gli bruciavano gli occhi dalle lacrime. “Voglio vendicarmi.” Aprì la leva d’armamento, si alzò e... in mezzo a tutti quei macchinari vide un braccio nero ondeggiare con in mano un portadistintivo di pelle nera su cui si scorgeva perfettamente uno scudo dorato.
«Squadra Antidroga. Siamo della Polizia di New York, brutti stronzi figli di puttana!»
SPARATORIA CON DUE MORTI NEL LABORATORIO PER LA PRODUZIONE DI DROGA DI UN ASSO, diceva – o strillava – il giornale. Il sottotitolo recitava: “Il laboratorio clandestino ‘più sofisticato che si sia mai visto’, secondo lo zar dell’antidroga. Dichiarata caccia all’uomo in tutta la nazione”.
Il dottor Pretorius sospirò e guardò da sopra le lenti a mezzaluna dei suoi occhiali da lettura vecchio stile. «Dunque un paio dei vostri cowboys ci hanno preso un po’ la mano e hanno avuto uno scontro a fuoco con la polizia di New York. Che cosa avrebbe a che fare con il mio cliente?»
Il più giovane dei tre saltò su dalla poltrona di pelle con uno sconnesso grido di rabbia. Pretorius sollevò un sopracciglio.
«Lynn» disse il più anziano, non ad alta voce, ma con un tono secco da addestratore di cani da guerra. «Forse faresti meglio ad aspettare fuori.» Il giovane, con l’arruffata massa di capelli neri che gli ricadevano sugli occhi selvaggi, si voltò e picchiò un pugno contro la parete, facendo traballare la vetrinetta in cui erano esposti insetti esotici. Poi si precipitò fuori dall’ufficio dell’avvocato.
«Che cosa gli è preso?» domandò Pretorius.
«L’agente Saxon era coinvolto nell’incidente a cui lei ha accennato con così poco tatto» disse il terzo uomo. Aveva superato da poco la cinquantina ed era comune in tutto, tranne nel taglio costoso del suo tre pezzi da avvocato e la mite levigatezza del viso. Un uomo per l’America di George Bush. «È rimasto ucciso il suo compagno.» Si adagiò allo schienale, apparentemente in cerca di un’espressione di pentimento o di compassione.
«Non avete ancora risposto alla mia domanda» disse Pretorius.
Il volto del terzo uomo si irrigidì per un istante. «In base alle leggi di New York, si può ritenere il dottor Meadows responsabile per le morti violente associate ai suoi crimini.»
«Qui si parla di pena di morte» aggiunse l’addestratore di cani da guerra.
Pretorius si mise a ridere. Gli altri due lo guardarono come se avesse dispiegato grandi ali bianche simili a quelle di Peregrine. «Era tanto che non sentivo un’interpretazione della legge così tirata per i capelli» disse, levandosi gli occhiali e asciugandosi gli occhi. «Ma non c’è limite all’arrogante disprezzo che nutrite per concetti come “diritti” e “giusto processo”, per non parlare del buon senso?»
L’Uomo adatto a Bush sorrise. «Visto che il settanta percento del pubblico americano ritiene giustificata qualsiasi misura per combattere la minaccia della droga,» rispose «direi di no.»
L’Addestratore di cani estrasse un fascio di carte da una tasca interna della sua giacca casual. «C’è qualcosa anche per lei, Pretorius.» Sbatté un pacco di documenti dall’aria ufficiale sulla scrivania e sorrise con la soddisfazione che gli brillava nei grigi occhi d’acciaio. Pretorius gli assegnò un 6.5.
«Come certo saprà,» disse l’Uomo adatto a Bush, in un tono mellifluo come la sua faccia «in base alla Legge sulle organizzazioni corrotte e malavitose e alla Legge contro i crimini reiterati, tutte le proprietà appartenenti ai narcotrafficanti sono passibili di confisca. E sarà altresì consapevole, ne sono certo, che le recenti interpretazioni della legge ci permettono di sequestrare le proprietà degli avvocati che rappresentino una simile feccia. Non possiamo permettere che le ingenti somme a disposizione dei narcotrafficanti rischino di sviare il corso della giustizia. O no, avvocato?» e sorrise a sua volta.
“Oh Dio, siamo proprio una bella compagnia quest’oggi” pensò Pretorius. Afferrò il telefono, premette un pulsante. Quando dall’altro capo risposero, disse soltanto: «Vai».
I suoi ospiti si irrigidirono. L’Addestratore di cani da guerra era così piegato in avanti che rischiava di ruzzolare e spaccare in due la scrivania di Pretorius con la lama del suo viso. «Che sta cercando di fare?» sbraitò.
Era il turno di Pretorius di cimentarsi in un sorriso e ci mise tutto se stesso. «La vostra ultima piccola distorsione del giusto processo non mi coglie proprio alla sprovvista, signori. Parlavo con un mio associato che sta aspettando al tribunale federale. Qualche istante di pazienza e arriverà un messo con un ordine del tribunale che annulla la vostra confisca.»
I due lo fissarono con tanto d’occhi. Pretorius infilò la mano in un cassetto della scrivania. L’Addestratore si irrigidì e avvicinò la destra all’interno della giacca.
L’Uomo adatto a Bush gli mise una mano sulla spalla. «Non sta prendendo una pistola, Pat. Comportati come si deve.»
«Fin dall’inizio del caso sulla custodia dei Meadows,» disse Pretorius «ho avuto il presentimento che voi signori, con le vostre tattiche da tribunale speciale, poteste finire coinvolti. E, personalmente, non ho bisogno di soldi.»
«Non puoi tirarti fuori sventolando il tuo onorario» disse l’Addestratore.
«Non l’ho fatto.» Come contromossa al fascio di carte dell’Addestratore, Pretorius giocò una busta legale stampata in rilievo. «Ho fatto addebitare al dottor Meadows la mia tariffa oraria piena, pagabile, in base ai termini di questo contratto, direttamente alla fondazione March of Dimes per la ricerca sul ritardo mentale. E se volete provare a confiscare i loro beni, signori, vi auguro buona fortuna.»
«Siamo noi il futuro, amico!»
Una pacca a mano aperta gli colpì la striscia tinta di giallo al centro del cranio rasato. La battigia intasata di spazzatura e gli edifici cadenti incrostati di graffiti nuotavano in un fetore denso come una nube di calore, o forse era la botta. L’uomo alto curvò le spalle e sollevò le braccia davanti alla faccia per difendersi.
Era venuto a cercare rifugio alle Rocce a bordo di una medusa gigante. Non l’aveva sorpreso granché scoprire che non c’era rifugio nemmeno in quel posto. Ma l’aveva intristito, quello sì.
Non era sicuro di quanti ragazzi joker gli fossero addosso. Mai avuto gran testa per i dettagli su macro scala. Non era poi così im...