La brutta estate
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La brutta estate

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La brutta estate

Informazioni su questo libro

"Le giornate tremende o meravigliose, quelle che ti cambieranno la vita e lasceranno un segno indelebile, cominciano come tutte le altre." Per questo, in un'assolata mattina di fine giugno, Marco Taviani, giornalista sportivo, non si aspetta di ricevere una chiamata che gli annuncia la visita di tre poliziotti. E ancora meno si aspetta che i poliziotti lo portino a casa di sua zia Elvira, la sua unica parente, una vecchia signora solitaria. Una vecchia signora solitaria che è stata appena assassinata. La scoperta segna un punto di non ritorno nell'esistenza di Marco. Con la scusa di dover mettere a posto la casa della zia e la speranza di fare luce sul suo omicidio, misterioso e brutale, Marco trova la forza di lasciare la moglie, abbandonando il matrimonio che, senza una vera ragione, da lungo tempo è entrato in crisi, nonostante il grande amore per la figlia. Così Marco si trasferisce nella casa della zia. Lì scopre che la vita dell'anziana parente nascondeva un grande segreto. E che non è l'unico dei segreti del palazzo in cui viveva. Nella splendida cornice della Milano estiva Enrico Ruggeri scrive un noir che è anche una meditazione sulle scelte che nella vita si rivelano determinanti quasi senza che ce ne accorgiamo, sotto traccia. Un romanzo venato di una sottile malinconia e di una profonda umanità, per mano di uno dei cantautori italiani più famosi e amati.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804649052
eBook ISBN
9788852058509

1

Le giornate tremende o meravigliose, quelle che ti cambieranno la vita e lasceranno un segno indelebile, cominciano come tutte le altre. A meno che tu non debba giocare una finale di Champions League o provare lo smoking per la notte degli Oscar. La partenza è sempre uguale, ma ogni tanto il viaggio porta dove non ti saresti mai aspettato, verso il cielo o nel fondo di un abisso.
A volte non lo capisci subito, vai da una parte invece che da un’altra, conosci una persona, e niente è più come prima. Altre volte, invece, ti senti investito da un treno e l’unica cosa che riesci a pensare è “perché proprio a me?”.
Io quella mattina di giugno non pensavo proprio a niente.
Camminavo in via Muratori, nella parte finale, con le vecchie case che si stringono attorno al ciottolato prima di aprirsi verso piazza Medaglie d’Oro.
Ho passato la vita a percorrere quel tratto di strada, per andare a scuola, per trovare gli amici, adesso per andare a lavorare. Conosco così bene questa strada che potrei camminare con il pilota automatico. Non è cambiato quasi nulla. L’unica cosa diversa è che una volta si andava in centro in tram, con il tredici, e Milano ti scorreva davanti con le facce che sembravano tutte uscite dallo stesso disegnatore. Adesso ci si infila sottoterra, in metropolitana.
Appena sei dentro al vagone rimpiangi i miasmi dei tubi di scappamento. Ti avvolgono odori aspri che vorticano in conflitto tra loro, profumi di bassa qualità che si fanno largo tra caffè mal assimilati, nel silenzio rotto da chi racconta tranquillamente la sua vita al cellulare. La lettura dei giornali sta per scomparire, le dita non sfogliano, scorrono sui tablet. Il terrore della solitudine in questo modo rende le persone ancora più chiuse e autoreferenziali.
Tutto come al solito.
Poche sofferte fermate, poi la scala per tornare in superficie, che per me rappresenta una liberazione.
Fuori, all’aria aperta, in centro, mi ritrovo tra gente che corre incontro al suo quotidiano destino: impiegati, manager, studenti, artisti di strada, sfruttati e sfruttatori, furbi e ingenui, millantatori, ciarlatani, geni sottovalutati e combattenti da strapazzo. Tutti con una sola cosa in comune: il pensiero di non aver ricevuto dalla vita quello che meritavano, di non aver potuto esprimere le loro qualità.
Entro nel grande portone a vetri del mio ufficio, mostro il badge ed eccomi alla solita macchinetta del caffè, insieme ai miei colleghi, a dire le stesse cose, a sentire le stesse battute.
Faccio il giornalista. Che oggi vuol dire scrivere cercando di aggiungere qualcosa a quello che la gente già sa, perché le notizie le hanno già lette su internet, e hanno già sorriso dei commenti fatti su facebook e Twitter da persone più spiritose e libere di noi. Persone che, però, spesso usano la loro petulanza per poter arrivare a scrivere su un giornale, cioè integrarsi nel sistema che criticano fino a quando ne stanno fuori.
Lavoro allo sport, cioè al calcio, perché per il resto, se non ci sono Olimpiadi o cose del genere, c’è poco spazio. Qualcosa sui motori o su un tennista, ma solo se si fidanza con una modella o una velina.
Il campionato è finito e l’unico modo per riempire le pagine è scrivere qualche cazzata sul calciomercato, sui giovani di questa o quella squadra, sui cambi di panchina. È un lavoro facile, perché accontenta tutti: i tifosi si illudono, sognano, e hanno qualcosa da dire al bar, le società accrescono il loro appeal per la campagna abbonamenti e i procuratori dei giocatori bravi, cioè quelli di cui noi parliamo, alzano il prezzo.
Sono loro, i procuratori, gli unici a chiamarmi: “Perché parli di quella pippa di Tizio e non scrivi che Caio e Sempronio – cioè i suoi assistiti – li stanno cercando tutti?”. E quando li assecondo arrivano casse di vino e ogni tanto anche regali più interessanti.
Mi hanno offerto di andare a parlare in una televisione privata. Lo farò quando avrò bisogno di soldi, per ora la timidezza è un blocco superiore alla mia vanità.
Mi siedo al computer, faccio qualche telefonata, butto giù due righe, vado alla riunione di redazione. Poi al bar a mangiare. Come sempre.
Quando torno in ufficio provo a chiamare la zia Elvira. È l’unica sorella di mia madre ancora in vita, abita a poche centinaia di metri da casa mia ma vado a trovarla raramente, solo quando i sensi di colpa si abbinano alla voglia di uscire di casa. Ha più di ottant’anni, vive da sola ed è perfettamente autonoma. Non si è mai sposata, e non mi sono mai giunte notizie di una sua vita sentimentale.
I nostri rapporti sono affettuosi, ma molto formali. Io sono il suo unico nipote, l’unico con cui passare il Natale, l’unico che possa occuparsi di lei, anche se non si è mai voluta avvalere di questa possibilità.
Vive nella classica casa in cui stanno le migliaia di persone come lei: mobili che erano molto meglio posizionati in case più grandi, salvati da antichi traslochi, una miriade di oggetti di scarso valore, ninnoli, fermacarte, ritratti che solo lei può capire e apprezzare.
La zia non risponde. Io il mio dovere l’ho fatto. La chiamerò domani e magari le dirò anche che mi sono preoccupato.
Sarà andata a fare la spesa: anche se non ci sono più “i negozi di una volta”, il salumiere, il macellaio o il fruttivendolo, c’è comunque il minimarket, il droghiere della zona che, come tanti, ha convertito la sua bottega in un piccolo supermercato. L’unica occasione mondana che la zia può permettersi: è capace di starci anche un’ora.
O forse non mi ha risposto perché si stava occupando della sua unica mania: tre bambole. Ma non tre bambole normali.
Sono bambole in vinile, realistiche in una maniera incredibile. Pezzi unici, lavorati artigianalmente per assomigliare in modo inquietante a veri bambini. Il colorito è naturale, con l’arrossamento tipico dei neonati, le vene a fior di pelle, le macchiette di latte e i piedini e le manine impreziositi da un accurato lavoro di pittura. Imbottite con fibre sintetiche, hanno peso e postura del tutto verosimili. La pubblicità insiste su questo concetto: “Avrete la sensazione di tenere in braccio un bambino”.
I tre “bambini” di zia Elvira, due femmine e un maschio, fanno veramente paura: sembrano veri, quindi sembrano morti.
Mia moglie e mia figlia hanno sempre fatto finta di non vederli, e la zia non ne parla volentieri. Ma ogni volta che vado a trovarla trovo i tre feticci di vite mai vissute in luoghi diversi, vestiti in maniera diversa, muti testimoni di una silenziosa mania.
Una volta mi sono informato: è una delirante tendenza che naturalmente è partita dagli Stati Uniti. Arrivano per corrispondenza e i clienti non sono pochi, quasi tutte persone senza figli o, peggio, persone prigioniere della follia che travolge chi i figli li ha persi.
Capisco perché piacciano tanto a zia Elvira. Sono il palese palliativo di una patologia.

2

Non ho molti ricordi della prima parte di quel pomeriggio. Devo aver scritto qualcosa su uno scambio di centrocampisti tra due grosse squadre, avventurandomi in una dietrologia provocata da un’intervista nella quale uno dei due diceva “Roma è una bellissima città” e sulle prossime vacanze in Brasile di un esterno destro.
Avevo assistito al corteggiamento di una segretaria da parte di Rosmini, un redattore piacione che si sente Mastroianni nella Dolce vita. Lei, come sempre in bilico tra l’imbarazzo e il compiacimento, lui più preoccupato dello spettacolo allestito per noi che dell’effettivo conseguimento del risultato.
Poi, le solite vuote conversazioni tra colleghi, il teatrino di tutti i posti di lavoro, tra persone che non si sono scelte, che hanno poco in comune, che spesso si ritengono superiori l’uno all’altro, ma che sanno che la giornata deve pur passare: meglio interagire che chiudersi in se stessi.
Tra discussioni sull’aria condizionata – “Potresti alzarla un po’, per favore?”, “L’abbassate? Qui si gela” – e sigarette fumate sul balconcino tra i bagni e la tromba delle scale, il pomeriggio stava scivolando via.
Poi il telefono.
Dal centralino mi dicono che «stanno salendo tre signori per lei, dottore, sono della polizia e hanno qualcosa da comunicarle».
“Polizia” è una parola che mette ansia, comunque, anche se siamo le persone più oneste al mondo. Dopo “finanza” è il termine che meno ci piace sentir dire. Nei casi in cui ci troviamo in difficoltà, ne rimpiangiamo l’assenza: “Quando c’è bisogno non arriva mai nessuno” è la frase più tenera che si usa.
In un secondo mi scorrono nella mente gli errori giudiziari di cui si ha letto qualcosa, il tipo dell’Oregon che si è fatto trent’anni di prigione per un caso di omonimia o quello che ha avuto la vita rovinata per un’accusa infamante con il finale da “scusi, ci siamo sbagliati”. Tutti casi eccezionali, certo. Ma quando arriva la polizia non è mai una cosa piacevole, a meno che tu non sia in pericolo di vita.
Sono in tre: due in uniforme e uno, il più giovane, in borghese, con un maglioncino del quale deve essere molto pentito, perché ormai fa caldo.
“Sarà uscito presto stamattina, quando faceva ancora fresco” ho fatto a tempo a pensare.
«Il signor Marco Taviani?» dice uno dei due in uniforme. «Buongiorno, dovrebbe seguirci immediatamente.»
«Perché, scusi?» e mi accorgo che mi trema la voce.
«Lei non si preoccupi» è la maldestra risposta. «Prego» mi invita indicando la porta.
Intorno a me si è formata una piccola folla di colleghi, e questo mi dà sicurezza.
«Non penso che possiate portarmi via senza dirmi il motivo» rispondo con fierezza. «Mi state arrestando?»
«No, signor Taviani, lei non è accusato di niente. Per motivi di riservatezza non posso aggiungere altro. Ci segua, la prego.»
Mi tocca leggermente il braccio, con delicatezza. Ma non fa piacere comunque. Metto la giacca e mi avvio con loro, inebetito. Le parole di incoraggiamento dei miei colleghi mi giungono ovattate, come se arrivassero da lontano.
«Stai tranquillo.»
«Facci sapere.»
«Che modi! Non si può stare in pace in questo Paese.»
«Chiamami appena puoi.»
Entrare in una macchina della polizia senza sapere perché, certi di non aver fatto nulla di male, ha un tremendo sapore kafkiano, toglie il fiato.
«Ci scusi ancora, dottor Taviani, ma la sua presenza è assolutamente necessaria» prosegue il graduato.
Un tuffo al cuore. Il sospetto che sia successo qualcosa alla mia famiglia.
«Non abbiamo trovato il suo numero di cellulare. È stata la signora...» Si fruga le tasche, ne estrae un foglietto e legge: «Maria Musumeci, a dirci che lei lavora qui».
«Ma io non conosco nessuna Maria Musumeci, almeno non mi sembra.»
«Ci pensi bene, è la portinaia dello stabile di sua zia.»
La Maria, certo. Non conoscevo il cognome, ma so benissimo chi è.
«Non avevo idea si chiamasse così» balbetto, come se fossi stato colto in fallo.
«È successo qualcosa, quindi... mia zia? Si è sentita male?»
«La prego dottor Taviani, non mi metta in difficoltà, le ho già ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. 18
  21. 19
  22. 20
  23. 21
  24. 22
  25. 23
  26. 24
  27. 25
  28. 26
  29. 27
  30. 28
  31. 29
  32. Ringraziamenti
  33. Copyright