La nonna si alza lentamente dalla poltrona, usando le braccia come puntelli sui braccioli e issandosi sulle gambe.
Si avvicina alla credenza rossa accanto alla finestra, seguita dallo sguardo interrogativo dei bambini. Da un’anta tira fuori una vecchia scatola di cartone, piatta, nera, che in tempi remoti conteneva una camicia.
I bambini si radunano intorno al tavolo in religioso silenzio, gli occhi puntati sulla scatola e le orecchie tese.
Non appena il coperchio si dischiude, Monde infila il naso in quello scrigno di cartone.
Contiene un cumulo disordinato di fotografie in bianco e nero: volti sbiaditi che chiedono solo di essere riconosciuti.
La nonna ne prende una tra le dita ossute e la mostra ai bambini.
Nelson non è più un bambino.
È un uomo con le spalle forti, gli occhi strizzati per la gioia, e un sorriso così raggiante che fa venir voglia di ridere con lui.
Al suo fianco, un bambino di circa dieci anni indossa una giacca troppo grande e accenna un sorriso dietro il mento aguzzo e un velo di timidezza.
«È Thembi, il primo figlio di Nelson» dice la nonna. E la sua voce si spezza per un attimo.
Quando nacque Thembi, Nelson aveva ventisei anni e viveva a Johannesburg, nella township di Soweto, un sobborgo per soli neri.
Appena arrivato, aveva lavorato come guardia notturna nelle infernali miniere d’oro, ma presto era diventato praticante in uno studio legale di bianchi. Lo aveva aiutato molto Walter Sisulu, un nuovo amico che faceva l’agente immobiliare e conosceva tantissima gente.
I pochi soldi che Nelson guadagnava bastavano a malapena per l’affitto di una camera senza luce, acqua né riscaldamento, e per comprare decine e decine di candele che si scioglievano troppo presto, mentre lui studiava tutta la notte per laurearsi in Giurisprudenza con un corso a distanza.
Nel tempo libero andava a casa di Walter che, dietro gli occhiali spessi e la scrivania piena di scartoffie, sembrava un uomo vissuto.
Fu proprio lì che ritrovò l’amico di Fort Hare, Oliver Tambo.
E fu lì che conobbe Evelyn.
Era una ragazza di campagna, dal volto ovale e dolce, e dagli occhi sognanti. Si sentiva un po’ sperduta a casa di suo cugino Walter, dove tutti parlavano sempre e solo di politica.
Fu tra quelle mura che Sisulu e i suoi amici organizzarono una marcia di protesta contro l’aumento del prezzo del biglietto per gli autobus riservati ai neri.
Nelson partecipò insieme ad altre diecimila persone. E vinsero!
L’ANC, l’African National Congress, era la più antica organizzazione di neri del Paese, e Sisulu e gli altri volevano raccogliere più consensi, non solo nelle città ma anche nelle campagne, non solo tra i neri più istruiti ma anche tra le masse.
E fu a casa di Walter che Nelson trovò l’amore. Tra Evelyn e lui fu un colpo di fulmine.
Passeggiavano nel veld intorno alla città, e qualche volta si fermavano a fare un picnic, visto che molti ristoranti erano vietati ai neri.
Avevano pochi soldi e pochi diritti, ma l’amore era tanto. Così, dopo qualche mese, si sposarono.
E nacque Madiba Thembekile, detto Thembi. Prese il nome del clan del padre: Madiba. Però somigliava alla mamma.
Quando scendeva la sera, il papà adorava fare il bagno a Thembi nella vasca di latta, alla luce della lampada a kerosene, e per farlo addormentare gli raccontava storie come quelle che aveva ascoltato da bambino a Qunu.
Ma il mondo in cui suo figlio cresceva non era immerso nel verde e nella musica della natura. Thembi cresceva in un ghetto, con le strade sterrate piene di pozzanghere e l’aria che di notte si riempiva di fumo e di grida inquiete, disperate.
In eredità avrebbe ricevuto innumerevoli diritti negati.
Non poteva girare per la città senza un lasciapassare. I bianchi sì. Lui rischiava l’arresto.
Non poteva sedersi sulle panchine riservate ai bianchi, né salire sui loro autobus.
Non poteva passeggiare lungo le spiagge dei bianchi né ambire alle loro professioni.
Non poteva votare. A differenza dei bianchi.
«L’istruzione salverà i neri.» Lo diceva il capo bianco di Nelson. «Un uomo istruito non si lascia schiacciare.»
Era una persona aperta abbastanza da aiutare Nelson a diventare avvocato, ma allo stesso tempo lo metteva in guardia dalla politica.
Dopo la laurea per corrispondenza, Nelson si iscrisse – unico nero – alla prestigiosa università inglese di Witwaterstrand, a Johannesburg.
Lì conobbe anche alcuni bianchi che non si vergognavano di stare seduti accanto a lui, ma anzi difendevano i diritti di tutti.
Nelson, però, cominciava a pensare che l’istruzione non fosse abbastanza.
Se i diritti dei neri continuavano a dipendere dalla volontà dei bianchi, c’era una sola via d’uscita: ribellarsi.
Quando Thembi aveva due anni la situazione peggiorò.
Fu eletto un nuovo governo bianco dominato dagli afrikaner, discendenti dei coloni olandesi, che consideravano inferiori i neri e tutti i “non bianchi”.
Imposero l’apartheid.
Questa parola, che nella lingua afrikaans significa “separazione”, segnò il destino di Nelson e di tutti i neri. Indicava un sistema di leggi studiate per discriminarli in ogni aspetto della vita.
Bianchi, neri, meticci e indiani furono divisi in categorie basate sulla razza. Dovevano vivere in zone separate e i matrimoni misti non erano permessi.
Presto l’apartheid colpì anche l’istruzione.
Inutile insegnare la matematica ai bambini neri, tanto il loro destino era quello di svolgere i lavori più umili.
Inutile sprecare soldi per le loro scuole, che quindi non avevano luce elettrica né insegnanti qualificati, e per giunta erano a pagamento, in modo che sempre meno bambini potessero frequentarle.
Inutile sognare: i bambini neri non avevano più nemmeno il diritto di sperare in un futuro migliore.
Quando la gente si ribellò, la polizia sparò e uccise, e il governo rese illegali tutte le proteste contro lo Stato.
Ma Sisulu, Nelson e l’ANC non si diedero per vinti.
Thembi aveva cinque anni, e stava imparando a scrivere, quando venne organizzata la Giornata della protesta, un grande sciopero nazionale dei neri insieme agli indiani e ai meticci.
Quel giorno Evelyn diede alla luce il fratellino di Thembi, Makgatho, dal nome di un vecchio leader dell’ANC.
Presto sarebbe nata anche Makaziwe.
Nelson si vedeva sempre di meno a casa. Quelle rare volte in cui tornava in tempo per la buonanotte, raccontava a Thembi e a Makgatho le storie di come i bianchi avevano rubato la terra ai neri.
Più spesso, però, arrivava troppo tardi, quando i bambini erano già nel mondo dei sogni, e usciva prima che si svegliassero.
«Dove vive papà?» chiese una volta Thembi alla mamma. Ma lei non rispose.
Quando Thembi aveva sei anni, suo padre fu arrestato durante la Campagna di sfida alle leggi dell’apartheid. I manifestanti, disarmati, entravano nelle zone riservate ai soli bianchi: nelle sale d’aspetto delle stazioni, sugli autobus, nei bagni… proprio con l’obiettivo di farsi arrestare, senza opporre resistenza.
Lo fecero centinaia di persone in un solo giorno, e migliaia nei cinque mesi successivi.
Volevano mettere a nudo le ingiustizie che la società di allora considerava normali.
Quando li portavano via sui furgoni della polizia, tutti insieme cantavano con orgoglio: Nkosi Sikelel’ iAfrika, “Dio salvi l’Africa”.
Nelson fu rilasciato presto, ma gli fu proibito di partecipare a qualsiasi incontro con più di una persona, perciò non poté farsi vedere nemmeno al compleanno di suo figlio.
Thembi non era arrabbiato con il padre, ne era orgoglioso. Però non capiva perché lui e la mamma non andavano più d’accordo, perché non si amavano come lui amava entrambi.
Dal letto che divideva con i suoi fratelli, di sera Thembi sentiva i genitori litigare.
«Evelyn, la politica non è una distrazione, è il lavoro della mia vita!» protestava il papà, a voce alta.
«Non faresti meglio a pregare Dio?» rispondeva la mamma, che era sempre più religiosa e ostile alla politica.
Quando papà non c’era, Thembi indossava le camicie e le giacche di Nelson e provava a immaginare cosa stesse facendo in quel momento… cose importanti, sicuramente, come aprire il primo studio legale di africani nel Pae...