
- 352 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Bestiario
Informazioni su questo libro
Un volume che raccoglie articoli, interventi e prose in gran parte inedite che Buzzati raccolse lungo l'arco di tutta la vita. Una sorta di favoloso "bestiario", perché gli animali sono del resto una parte fondamentale del mondo dell'autore, proprio come le montagne, le pianure sterminate, i boschi oscuri e la metropoli. Dotati di anima e di una loro enigmatica psicologia, gli animali del libro disegnano così la mappa di un'umanità intermedia, da un lato inferiore, dall'altro privilegiata perché non condannata, come diceva Montale, a "rimanere a terra".
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Informazioni
Il «Bestiario» di Dino Buzzati
L’alfabeto dello zoo
Antilope
UN PRIGIONIERO UNICO AL MONDO PER LO ZOO DI ROMA
Per la prima volta nella storia della prigionia animale, una delle bestie più rare del mondo, che abita solo in Africa Orientale Italiana, il Niala di monte (Tragelaphus buxtoni), è stata catturata viva e cresce ora tranquillamente in cattività nell’attesa di partire per l’Italia. Il Niala di monte è una delle antilopi più maestose che si conoscano. Per grandiosità non la cede al celebre Cudu maggiore; le lunghe corna ritorte (attributo esclusivo del maschio) costituiscono un trofeo imponente, da Museo municipale; altezza al garrese metri uno e sessanta.
Si tratta di una specie endemica, localizzata esclusivamente nelle montagne degli Arussi (Harar), per essere più precisi sui massicci del Cilalo e del Galamo. Fu il colonnello inglese Buxton, nel 1911, a identificarla. Egli ne portò in patria, da imbalsamare, qualche campione ed ebbe l’onore di imporre il nome del proprio casato a una delle più splendide bestie dell’Africa. Non se ne trova in nessun’altra parte del mondo.
La caccia del Niala di monte è naturalmente proibita, data la rarità della specie. Ma in via eccezionale, nella speranza di procurarne qualche esemplare allo Zoo di Roma, è stata recentemente organizzata una spedizione. I nomi stessi dei partecipanti garantivano la serietà scientifica dell’impresa: il marchese Saverio Patrizi, sovrintendente alla caccia nell’A.O.I., che era accompagnato dalla sportivissima consorte, e il prof. Alula Taibel, direttore della Stazione sperimentale di pollicoltura di Rovigo, incaricato appunto di tali ricerche dallo Zoo di Roma per la sua grande competenza nell’arte di far vivere in prigionia gli animali più delicati o selvaggi.
In un primo tempo si è tentata la cattura di Niala adulti. Il tenente De Monte, Residente di Boccoggi, ha fatto una piccola mobilitazione di cavalieri Arussi, veri centauri della montagna tanta è la loro sicurezza ed audacia nel gettarsi coi loro cavallini nelle valli più rotte e precipitose. A centinaia, eccitandosi con grida barbariche quasi andassero a combattimento, i cavalieri nativi, dopo avere scovato un grandioso Niala, l’hanno accerchiato e inseguito lungamente, costringendolo a scendere in valle. A parte la straordinaria bellezza di una simile caccia in uno dei più pittoreschi ambienti dell’Impero, il tentativo è fallito. Non che gli Arussi siano stati incapaci di circondare e catturare la bestia senza torcerle un pelo. Ma, pochi minuti dopo essere stato fatto prigioniero e legato a una pianta, il Niala piombò a terra stecchito. L’eccessivo sforzo della fuga, l’orgasmo di vedersi attorniato da creature sconosciute, il terrore di sentirsi prigioniero? È difficile dire. La gigantesca antilope possedeva un delicato cuore da agnellino e la tremenda emozione l’aveva fermato per sempre.
Dopo questa prova piuttosto penosa si rinunciò alla caccia di Niala adulti, nella speranza di trovarne invece qualche esemplare giovanissimo, più facilmente adattabile. Intanto le ricerche si estendevano ad altre specie animali, ed ebbero brillante successo perché in pochi giorni, anche con la collaborazione dei nativi, vennero catturati, sempre per lo Zoo di Roma, diversi mammiferi e uccelli assai interessanti.
Citiamo, tra le antilopi, una Redunca bohor, affine all’antilope di acqua, una Ourebia montana, detta comunemente Oribi, un Tragelaphus scriptus meneliki (scriptus per via delle macchie sul mantello), nonché due Silvicaprae grimmi, dette anche Medaqua: tutti fatti prigionieri sull’altipiano degli Arussi, ad oltre 3000 metri, in piena foresta.
I piccoli Niala sembravano invece introvabili. Di adulti, anche stupendi, se ne scorgevano abbastanza spesso, da lontano, inerpicati sulle nude creste emergenti dalla marea nera dei boschi. Ma Patrizi e Taibel vi rinunciavano a priori: perché sciupare tempo, fatica e crudeltà se poi il prigioniero moriva infallibilmente di crepacuore? Per fortuna, proprio alla vigilia del ritorno della spedizione, un indigeno Arussi si presentò al Residente di Boccoggi portandosi in spalla un Niala fanciulletto. Aveva saputo, spiegò, che i due grandi guitana venuti da Addis Abeba erano in cerca di Niala giovani e che per ogni esemplare vivo era stata promessa in compenso una vacca; lui ne aveva avvistato uno, lo aveva inseguito a piedi, gli aveva tirato la lancia, lo aveva colpito a una gamba, ed ora eccolo qui, a disposizione del signor Regio Residente.
Fortunata la bestiola di capitare nelle mani del prof. Taibel. Il quale ha avuto per essa cure assolutamente materne, senza alcuna esagerazione, ed è riuscito a salvarla. La lancia aveva trapassato completamente la coscia destra posteriore, sfiorando la sacca del peritoneo; ma la pronta ed abile medicazione valse a scongiurare la peritonite, la setticemia, il tetano. Tenuto al riparo in un tucul, il piccolo Niala, anzi la piccola Niala, perché si tratta di una femmina, si riebbe abbastanza rapidamente dal grave collasso, ricominciò a gustare il latte somministratole dal protettore con un biberone.
Adesso la convalescenza si compie felicemente nel giardino della villa Patrizi, in Addis Abeba, giardino che si può definire zoologico, tante bestie strane oramai lo abitano, chiuse in gabbie o recinti. Soltanto al piccolo Niala è consentito di andarsene a spasso a piacer suo. E la graziosa antilope, zoppicando ancora un poco per la ferita, segue come un’ombra il proprio salvatore su e giù per i prati. Un sincero affetto reciproco lega già il naturalista e la sua rara preda. Solo alla nostra comparsa il quadrupede è andato prudentemente a nascondersi in un cespuglio dove è rimasto fermo come una pietra, così da risultare invisibile. «E che voce ha?» abbiamo chiesto, non avendolo ancora udito fiatare. Il prof. Taibel, sorridendo, ha risposto: «Non vorrei sembrare esagerato ma la definirei proprio così: muggito lieve e soave».
La difficoltà , una volta che il Niala sarà completamente ristabilito, consisterà nel trasporto a Roma: con le incognite della discesa al bassopiano e relativo sbalzo di temperatura, del tragitto su mare, del clima italiano. Comunque, vale la pena di dedicare molta pazienza a una bestiola tanto preziosa. Una coppia di altri Niala, di specie assai meno rara, è stata pagata recentemente dallo Zoo di Roma ben cinquantamila lire.
«Corriere della Sera», 27 marzo 1940
LA MASSIMA ANTILOPE SCOPERTA IN A.O.I.
Addis Abeba
Una scoperta di notevole interesse, almeno per i naturalisti e i cacciatori: il marchese Saverio Patrizi, che, quale sovrintendente alla caccia per l’A.O.I. sta compiendo in queste settimane una ricognizione nella zona del basso Omo, ha scoperto l’esistenza in Etiopia dell’antilope alcina, bestia che finora non figurava nell’anagrafe zoologica del nostro Impero. Questo quadrupede, scientificamente denominato Taurotragus orix, è la più imponente delle antilopi conosciute. Il maschio adulto infatti può raggiungere i 6-7 quintali di peso e l’altezza di un metro e settanta. Neanche gli indigeni ne avevano mai segnalato la presenza.
Il marchese Patrizi, che dal campo stabilito nella zona di Magi sta compiendo puntate esplorative nella zona, ancora poco conosciuta, è stato messo sull’avviso da due corna, trovate in un villaggio indigeno e da lui riconosciute per quelle del Taurotragus. Nei giorni successivi, perlustrando la boscaglia circostante, ha avuto la fortuna di incontrare interi numerosi branchi della mastodontica antilope, di cui ha catturato qualche esemplare.
L’antilope alcina è assai nota nell’Africa del Sud perché suscettibile di essere addomesticata; gli indigeni di laggiù infatti sono riusciti a domarla, tanto che la usano come animale da traino.
«Corriere della Sera», 11 aprile 1940
Aquila
LE AQUILE
Una coraggiosa impresa è stata compiuta da alcune guide della Val di Fassa che hanno raggiunto e violato un nido di aquile reali su una parete dei dirupi di Larsec... La guida B è riuscita a catturare un aquilotto che però ha reagito artigliandole una mano; per liberarsene è stata costretta a ucciderlo sbattendolo contro la roccia. (Dai giornali.)
Benché siano passati più di trentamila anni, io, grande aquila dei Feruc, maschio, vecchissimo e forse ormai immortale, ricordo quel mattino come ieri.
Era l’età felice quando nella valle non c’erano né strade né ferrovia né ponti gettati sopra il fiume, e non si udivano altri rumori se non il vento, le acque, le frane, gli uccelli, e i boschi erano pieni di bestie buone da mangiare; e io non avevo visto ancora l’uomo.
Degli uomini mi avevano parlato a lungo i genitori, come di animali strani, ma non li avevo visti mai. Dicevano ch’erano bruttissimi ma furbi, più furbi di noi aquile e perfino delle marmotte e delle volpi che sono furbissime. Che non avevano becco né artigli, né ali né penne e neppure il pelo propriamente detto, di cui pure sono ricoperti anche i topi e i ghiri. Che si muovevano più lentamente di tutti gli animali eppure con la loro astuzia riuscivano a uccidere perfino gli orsi adulti. E si raccontava che un uomo avesse rubato le uova da uno dei nostri nidi; e le avesse bevute; ma questa era forse una leggenda. Certo il mondo allora era infinitamente più piacevole; più splendido il sole, più grandi le montagne, più verdi i boschi, tutto più allegro e più pulito. Oppure è una mia illusione e la sola differenza sta nel fatto che quella era la mia gioventù?
Anche oggi noi aquile siamo le regine delle rupi ma allora lo si era assai di più. Grandi e magnifiche eravamo. Poi cominciò la decadenza, ma la colpa è stata nostra? Dite, sinceramente, dite pure; è colpa nostra se oggi siamo ridotte così sole e poche?
Era mattino presto e già risplendevano, bianche, gialle e rosa, le guglie delle somme creste, bellissime. Ma giù nei valloni restava ancora un po’ del buio della notte. Il cielo limpido, l’aria del nord, l’odore delle rocce riscaldate dal sole a poco a poco, una dolce giornata cominciava.
Vidi salire velocissima, come se portasse una notizia, mia sorella, a cui volevo bene. Venne da me, disse che aveva scoperto un nido di uomini, maschio e femmina con tre quattro figli piccoli; era in una piccola caverna, nel fondo della valle, presso il fiume.
Le dissi: «Conducimi a vedere». Mi sentivo bene, avevo fame. Ci precipitammo a piombo. «Là ,» indicò mia sorella «dove c’è quel fumo.» Ora ci abbassavamo lentamente. La famiglia era tutta su un breve prato, dinanzi alla spelonca. Stavano riscaldandosi al primo sole.
Gli uomini! Rimasi sbalordito. Non mi aspettavo che fossero così grossi e neppure così orribili a vedersi. Proprio schifosi con quella pelle bianca e i grotteschi cespugli di pelo qua e là , e quelle due gambe davanti lasciate ciondolare. Sulle spalle avevano delle pelli di animale, forse di capra. Ma era stupefacente come stavano diritti sulle gambe posteriori alla guisa di scoiattoli, e si servivano delle altre due con meravigliosa varietà di movimenti. I figli poi di pelo non ne avevano, tranne in testa; dovevano essere molli, appetitosi.
Benché cercassi di tenermi contro sole, dovetti fare qualche manovra errata perché a un tratto mi videro. La madre, che aveva il pelo in testa più abbondante e due grandi mammelle, prese i figli ad uno ad uno e li portò di corsa nella tana mentre il maschio, agitando un’asta, lanciava verso di me degli urli come non avevo mai sentito, non tutti uguali come fanno di solito i mammiferi, ma di suono vario, cosicché ora sembrava un cane, ora una pecora, ora una cornacchia, ora un orso, ora una gallina.
Fortemente impressionato, ritornai al nido e dissi a mia sorella: «Bisogna far la posta. Pronti a lanciarci giù appena padre e madre si allontanano». «Per fare cosa?» disse lei. «Per catturare i piccoli. Non hai visto come sono belli rosa? Più rosa ancora dei porcellini appena nati.» «Impossibile» fece mia sorella «che siano buoni come i porcellini. Non c’è carne migliore del maiale.»
C’erano anche mio padre, mia madre, altre aquile amiche di famiglia tra cui la più vecchia del Feruc, un tipo verboso di filosofo. Ricordo che cominciò una discussione. «Ragazzo,» mi disse il patriarca «lascia stare gli uomini. Essi non sono come le altre bestie. Anche se non è capace di volare, l’uomo è uno dei grandi enigmi della natura, l’uomo accende il fuoco come fanno i fulmini, sa mettere pietra su pietra, emette suoni complicati. La sua intelligenza testimonia la saggezza dell’Eterno, arricchisce la maestà dell’universo. Fargli male sarebbe sacrilegio!»
«Balle!» ribatté senza riguardi uno della mia compagnia. «Lasciali fare, o vecchio, e poi te ne accorgerai. Li ho visti arrampicarsi su una rupe, sembravano camosci. Li ho visti andare a caccia, ammazzavano le lepri da lontano, lanciando degli stecchi. Lasciali fare!... Un giorno arriveranno qui, bruceranno i nostri nidi, ci faranno a pezzi. Altro che maestà dell’universo!» I vecchi era...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione. Dino Buzzati, un animalista «ante litteram» di Lorenzo Viganò
- Nota del curatore
- CANI, GATTI E ALTRI ANIMALI
- L’ALFABETO DELLO ZOO
- Copyright