Una fiaba quasi vera
Dunque ascoltiamo senza batter ciglia
la famosa invasione degli orsi in Sicilia.
La quale fu nel tempo dei tempi
quando le bestie eran buone e gli uomini empi.
Comincia così, con versi lievi e ironicamente epici, uno dei più bei libri per l’infanzia che siano mai stati scritti nel nostro Paese, e certo il più bello di tutto il Novecento italiano: l’epopea di un popolo di orsi guerrieri alla conquista del mondo degli uomini, narrata da un autore per adulti la cui incursione nella fiaba appare in qualche modo naturale a chi conosca l’insieme delle sue opere, pronte a suggerire l’esistenza di un «altrove, una seconda dimensione che si aggiunge senza negarla alla sfera delle apparenze visibili».1
Libri come Il segreto del Bosco Vecchio, Il deserto dei Tartari, I sette messaggeri, Sessanta racconti, Il colombre o Il grande ritratto hanno infatti guadagnato a Dino Buzzati una fama di scrittore fantastico, surreale (ma non surrealista), incline a coltivare forme narrative che privilegiano il libero gioco dell’immaginazione e sostanzialmente estraneo a correnti, scuole, tendenze letterarie. Che abbia scritto una storia per bambini, illustrandola personalmente con meravigliose tavole a colori e piccoli, elegantissimi disegni al tratto,2 può dunque sembrare una sostanziale conferma del giudizio critico che gli è stato cucito addosso e che lo vorrebbe disimpegnato, lontano dalla realtà, immerso nel tempo senza tempo dell’allegoria e dell’apologo.
Un modo alquanto frettoloso di liquidare la complessità di un autore che sfugge alle classificazioni e si nutre, anzi, di contaminazioni continue, attingendo materiali dalla “vita vera” (che, giornalista di cronaca per lunghi anni, osservò da vicino nei suoi più minuti e crudeli accadimenti)3 per restituirceli trasfigurati secondo una personalissima ottica di moralista disilluso ma non dòmo, convinto che ognuno debba tendere a una salvezza quasi sempre irraggiungibile e non del tutto impossibile, come dimostrano le vicende del colonnello Procolo, morto inutilmente ma «da gran signore», o del guardaboschi Bàrnabo che trova il suo riscatto nel rifiuto della vendetta, o del tenente Drogo, che dopo una vita di attesa se ne va impeccabilmente e trasforma così la sconfitta in una vittoria che è poi, in tutta semplicità, la conquista finale del senso.
A Buzzati vanno dunque stretti sia i panni del Kafka in sedicesimo (un accostamento insistito e giustamente sgradito allo scrittore, ben lontano dalla negazione senza spiragli che è alla base dell’opera kafkiana) sia quelli dell’escapista incamminato lungo i sentieri della più sfrenata finzione, anche se l’autore del Deserto dei Tartari non ha mai fatto concessioni agli indirizzi letterari e artistici che, al tempo in cui apparve La famosa invasione degli orsi in Sicilia, già prefiguravano l’avvento del neorealismo, proclamando «la superiorità del documento e dei drammi della vita reale».4 E la sua fiaba ha quasi il sapore di una deliziosa, ironica e forse involontaria provocazione, se si pensa che apparve in uno dei momenti più drammatici della recente storia italiana, in una Milano bombardata, dove si sparava per le strade e i senzatetto si accampavano in Galleria.
Perfino il «Corriere dei Piccoli» – sul quale la prima stesura della Famosa invasione venne pubblicata a puntate e che già dal ’42 aveva ceduto alla propaganda bellica, ospitando nella sua ultima pagina un entusiastico «Corrierino della guerra» – rifletteva ormai l’atmosfera di sconfitta imminente e l’estrema incertezza di un Paese allo sbando, presentando personaggi come “Il Borghese Pippo Serra ch’era stanco della guerra”, oppure lo scolaro Franco Lelli, la cui scuola viene distrutta dalle bombe, o la Lia di Attilio Mussino, piccola sfollata “da Milan venuta via”, o Simplicio il Semplicione, sempre di Mussino, che sogna camion carichi di farina o piatti di gnocchi fumanti.
Ultimo giornale rimasto in edicola, il «Corrierino» cessò le pubblicazioni il 29 marzo del 1945 e le riprese un mese dopo, con piccoli eroi come l’Orsetto Punzipù o il Mimmo disegnato da Manca («Ma papà, sei proprio certo / chiede Mimmo alquanto incerto / che perbene finalmente / ritornata sia la gente?»). Intanto, però, i bambini avevano fatto in tempo a leggere le undici puntate della fiaba di Buzzati, illustrata da tavole a colori che occupavano due terzi di pagina, e piuttosto diversa da quella apparsa poi in volume.
Nella sua prima versione, infatti, la storia si componeva di due racconti distinti: “La famosa invasione degli orsi” (dal n. 1 del 7 gennaio al n. 7 del 18 febbraio), e “Vecchi orsi addio!” (dal n. 14 dell’8 aprile al n. 17 del 29 aprile) che rimase incompleto perché il giornalino chiuse i battenti.
Le differenze tra il testo apparso sul «Corrierino» e quello pubblicato nel dicembre del ’45 dall’editore Rizzoli sono notevoli,5 anche se l’impianto della fiaba resta sostanzialmente lo stesso: al posto del Granducato di Maremma, infatti, c’è quello di Sicilia, e sono state aggiunte sia le parti in versi sia la spiritosa presentazione dei personaggi e dei luoghi, mentre scompare una parte dei disegni più piccoli.
Dell’originaria divisione in due racconti non rimaneva che una differenza di tono: la prima parte ha un andamento più spiccatamente fiabesco, ma allo stesso tempo cita e rivisita motivi del classico romanzo d’avventura, del gotico e della letteratura popolare, con tanto di agnizioni; la seconda è più riflessiva, più lenta (benché non manchino episodi drammatici e movimentati), introduce un forte elemento di suspense e un rimando (non sappiamo quanto intenzionale) al celebre romanzo fantastico La Fata delle Briciole di Charles Nodier,6 di cui riprende il tema del sontuoso palazzo “camuffato” da capanna con un colpo di bacchetta magica, ampiamente utilizzato nella fiabistica letteraria del XVIII secolo.
Molti episodi, inoltre, sono stati rimaneggiati, come se la fine della guerra, che aveva coinciso con l’accurata revisione del testo da parte dell’autore, l’avesse spinto ad alleggerire ulteriormente il racconto e a conferirgli un tocco di gioiosa comicità: tra la scrittura di Buzzati e il mondo reale non c’è dunque troppa distanza, visto che in ciascuna delle sue opere, dai romanzi ai racconti, fino a questa fiaba singolare e ritenuta a torto minore, l’aria del tempo non manca di farsi puntualmente sentire.
È facile rendersi conto, del resto, che La famosa invasione è piena di sottili allusioni a quanto stava accadendo al di là del cerchio di luce che illuminava la scrivania di Buzzati, abituato a scrivere dopo le due di notte, quando, concluso il lavoro al giornale, tornava a casa e ogni distrazione era impossibile. Nata in tempo di guerra, la fiaba parla non a caso di grandi battaglie, realisticamente descritte e per nulla stilizzate, tra i buoni ed eroici orsi e gli uomini dell’infame Granduca, tiranno che ha molto in comune con quelli responsabili della catastrofe bellica:
Regnava in quell’epoca il Granduca
di cui ne dovremo sentir tante:
secco che pareva una festuca
villano brutto e tracotante.
Un «crudelissimo tiran», dunque, così attento alla propria immagine da cambiarsi d’abito più volte al giorno, preso in giro in segreto dal suo popolo e connotato da una fisicità che si affida a pochi tratti caratteristici, quasi caricaturali e indimenticabili, come il gran naso a becco e l’estrema magrezza (e qui vengono in mente i ridicoli baffetti neri divenuti il marchio di fabbrica hitleriano, ma anche il mascellone e la zucca pelata di Mussolini). Ed è una soluzione degna di Hitler quella destinata a placare l’ansia paranoica del Granduca, che invia l’esercito sulle montagne con l’ordine di uccidere «tutti gli esseri viventi incontrati lassù: erano vecchi taglialegna, pastorelli, scoiattoli, ghiri, marmotte, perfino uccelletti innocenti. Si salvarono soltanto gli orsi, nascosti nelle caverne profondissime…». Un rastrellamento tedesco in piena regola, insomma, come quelli che stavano devastando l’Italia di allora.
Né va dimenticata la battaglia con il Serpenton dei mari, attaccato dal terragnolo Re Leonzio a bordo di un navicello: un ricordo dei giorni in cui il montanaro Buzzati aveva partecipato con calma e coraggio, come corrispondente di guerra imbarcato su un incrociatore, alle battaglie navali di Capo Matapan, della Sirte e di Capo Teulada? Quanto al professor De Ambrosiis, mago di stampo hoffmaniano che trasforma in palloni aerostatici i feroci cinghiali del Sire di Molfetta, e all’orso Frangipane che progetta e costruisce i marchingegni necessari a espugnare la capitale, non fanno forse pensare agli scienziati che, con le loro invenzioni mortali, avevano infine ribaltato le sorti della guerra, quella vera?
Il gioco delle coincidenze potrebbe proseguire, ed è bene interromperlo prima di trasformare la fiaba buzzatiana in una semplice parabola sui “tempi che corrono”; ma va comunque ricordato, perché lo scrittore stesso lo raccontò in un’intervista, che gli fu imposto di rifare in una sola notte una tavola a colori in cui era rappresentato l’ingresso degli orsi nella capitale del Granduca, raffigurata come una città inequivocabilmente nordica: gli occhi attenti del direttore, infatti, avevano colto un’allarmante somiglianza fra il trionfo ursinesco e l’ingresso dei russi a Berlino.
Orsacchiotti, non ve ne andate
Le collusioni tra La famosa invasione e la realtà non sono, comunque, la caratteristica più importante del testo, che almeno nella prima parte rispetta la struttura della fiaba di magia, riproducendone le tappe principali: il Viaggio, che vede gli orsi allontanarsi dalle amate ma desolate montagne per scendere a valle, in cerca di cibo e di vendetta; la Prova, ossia la guerra contro il più numeroso e agguerrito esercito del Granduca e l’incontro-scontro con mostri e spettri assortiti; il Premio, ovvero la conquista della città e il ricongiungimento dell’orsatto Tonio al padre, Re Leonzio, al quale era stato rapito molti anni prima.
Ma, ancor più della struttura, è l’atmosfera a essere prettamente fiabesca, grazie ad alcune scelte dell’autore, come la collocazione della vicenda in un tempo remotissimo e leggendario e in una Sicilia del tutto inventata e straniante, che somiglia molto ai paesaggi delle Dolomiti, ma fa anche pensare agli scenari dei Grimm, di Hauff, di Bechstein e della fiaba nordica in generale.
Non vanno poi trascurati la presenza di un mago in piena regola, sia pur scalcinato come il professor De Ambrosiis, e l’uso abbondante di mostri e babau riveduti e corretti, ma comunque tipici del folklore popolare e infantile: il Gatto Mammone, il Lupo Mannaro – che appare nella presentazione ma non nel testo, mentre Buzzati commenta: «Terzo mostro. Può darsi che nella storia non compaia, anzi non dovrebbe comparire mai, se siamo bene informati. Ma non si sa mai. Potrebbe capitar dentro da un momento all’altro. E allora che figura ci faremmo senza averlo annunciato?» –, il Serpenton dei mari, l’Orco che ha appena finito di divorare tale Beppino Malinverni, «alunno della terza elementare, che quel mattino aveva bigiato la scuola», gli amabili fantasmi che non somigliano tanto a quelli del romanzo gotico, quanto agli Spiriti burloni del folklore italiano (ed è commovente e rincuorante l’incontro quasi “virgiliano” del Re...