Dopo più di ventiquattr’ore di assenza di Eleuteria, l’inquietudine dei Minguzzi era al culmine. Gigino era andato a trovare un funzionario di polizia meno cane degli altri. Quando rientrò, scosse il capo e allargò le braccia.
«Nessuna notizia, né buona né cattiva. Non sono state trovate persone in stato di confusione mentale.» Abbassò la voce. «E neanche cadaveri, in città o lungo il fiume Ronco.»
Reglio era forse il più prostrato. Senza manifestarlo del tutto, perché non era nel suo carattere, per Eleuteria nutriva una vera adorazione. Avrebbe potuto essere definita “amore”, se non fosse stata da lui spogliata a forza di risvolti carnali. Quando il suo pensiero toccava quell’aspetto, come era inevitabile, lo respingeva fino a soffocarlo. Non per via delle convenzioni, della parentela. Ele, nella sua fragilità, era una creatura perfetta. Non doveva contaminarla nemmeno con l’immaginazione.
«Vado a cercarla io» annunciò con voce arrochita. «Non ho lavoro, ho il tempo per farlo.»
«Va bene» disse Gigino «ma che direzione prenderai? Nessuno si ricorda di averla vista.»
«Se è ancora... Se è ancora...»
«Viva» completò Laura. Pronunciò la parola con fatica.
«... Avrà trovato rifugio presso parenti o amici. Pirazzoli ad Alfonsine, Canzio a Bagnacavallo, Giosuè a Molinella, Riccardo Minguzzi a Ducenta. Sono località non distanti. In bicicletta posso raggiungerle tutte.»
«Vai» assentì Gigino «e se la trovi pregala di tornare. Non deve disperarsi. L’operaia che l’ha accusata di crumiraggio era una delle molte amanti di Arturo Bartolazzi. La storia ormai è nota. Ele era stata scelta quale capro espiatorio per giustificare la chiusura del calzaturificio. Aspettavano una debole come lei.»
Laura, che non aveva mai parole di odio, mormorò: «La vipera che le ha scatenato contro le compagne andrebbe punita».
«Lo è. Viene boicottata. Se va a comprare il pane, nessuno la serve. Se cammina per strada, nessuno la saluta. Presto o tardi dovrà lasciare Ravenna. Qui è di fatto invisibile.»
«Una punizione molto crudele» commentò Laura, impressionata.
Gigino si strinse nelle spalle. «La lotta di classe è fatta così. Si risponde colpo su colpo. Hanno distrutto Ele? Noi distruggiamo chi ne è responsabile.»
La mattina successiva Reglio pedalò verso Alfonsine. Non dovette raggiungere il centro del paese, perché le Officine meccaniche Pirazzoli al completo gli vennero incontro a Mezzano, mentre attraversava il Lamone, col consueto frastuono di carabattole. Reglio si presentò a Nilo, che scese dal carro e gli strinse la mano con calore. Il fabbro lo ascoltò pensieroso.
«Non ho più visto Eleuteria da quando è venuta a stare da voi. Povera figliola. Era delicata come un passerotto. Spero che non abbia fatto qualche sciocchezza.»
«Informatevi, vi prego. Voi girate la provincia. Magari qualcuno l’ha vista.»
«Lo farò. Statene certo, giovanotto.»
Prima di risalire sulla bicicletta, Reglio domandò: «Scusate, cos’è quel sigaro che avete sul berretto?».
Pirazzoli, invece del consueto cappello che nascondeva la calvizie, aveva in testa un berretto da marinaio (forse un tributo al recente sciopero fallito dei Lavoratori del mare), avvolto da una fascia metallica. Da questa sporgeva un braccetto che reggeva in verticale un sigaro acceso. Dalla base pendeva un tubicino munito di bocchino all’estremità. Gli oscillava alla base del mento.
«Ah, lo avete notato? È l’ultimo prodigio della tecnica. Permette di fumare a chi ha le mani impegnate. Tranvieri, macchinisti, carrettieri, ciclisti. Basta tenere il cannello in bocca. Ne ho l’esclusiva per la Romagna. Se ne volete comprare uno, vi faccio un prezzo speciale.»
«Ma il sigaro non si spegne?»
«Vi pare spento il mio? È sufficiente tirare in continuazione. Io ho tolto il bocchino dalle labbra solo per parlarvi.» Suggestionato dal tema, Pirazzoli tossì con fragore e sputò lontano un grumo di catarro. «I benefici sono innumerevoli. Da un lato purificate i polmoni con il fumo di sigaro, che uccide i germi, e dall’altro continuate il vostro lavoro a mani libere. Volete una confezione? Il berretto non è compreso.»
«No, grazie. Non fumo.»
«Siete giovane. Quando comincerete, venite a trovarmi.»
Reglio inforcò la bicicletta e si avviò verso casa. Qualcosa di utile lo aveva fatto e si sentiva stanco. Sulla via del ritorno, notò una stalla che bruciava. I contadini si affrettavano a portare fuori gli animali che, paralizzati dal terrore, lanciavano muggiti, ragli e nitriti. Lui pensò di andare a offrire aiuto, ma la sua prima preoccupazione era un’altra. Continuò a pedalare.
Giunse a Ravenna nel primo pomeriggio. Gigino rientrò alla sera, e il figlio gli comunicò l’esito delle sue ricerche.
«D’altra parte nessun corpo è stato ritrovato» commentò il capofamiglia. «Dove pensi di andare domani?»
«Lo devo ancora decidere. Visiterò prima i posti più vicini, poi quelli più distanti. O viceversa, se l’aria resta freddina e non fa sudare. Il sole non scalda, anche se le stalle bruciano lo stesso.»
Raccontò la scena dell’incendio a cui aveva assistito, subito fuori Mezzano.
Gigino si rabbuiò. «Episodi del genere sono numerosi, purtroppo. Il clima non c’entra. Se non è stato un incidente, è il gallo rosso.»
«Cosa sarebbe il gallo rosso?»
Gigino lo spiegò a tavola, mentre Laura serviva la polenta insaporita da un pezzetto di salsiccia tagliato in tre parti.
«L’espressione “gallo rosso” viene dalla Russia, dalle cronache della rivoluzione di due anni fa. Si dà fuoco ai pagliai e alle stalle di contadini che hanno preso posizione con i padroni contro i proletari ribelli. È una rappresaglia. Purtroppo è sempre più frequente anche in Romagna, dove i lavoratori dei campi, braccianti o coloni, sono sempre stati disciplinati e fedeli alle loro organizzazioni.»
«È a causa della propaganda dei sindacalisti rivoluzionari?»
«No. Loro lo teorizzano, lo chiamano “sabotaggio”, ma da queste parti sono pochissimi. Chi pratica il gallo rosso appartiene di regola alle Leghe o alle Fratellanze riformiste, paga la quota alla Camera del Lavoro e qualche volta alla CGL. Il fatto è che le cose, nel Ravennate, nel Forlivese, in provincia di Bologna e di Ferrara, sono cambiate troppo in fretta.»
«Quali cose?»
Gigino tenne la sua lezione usando la forchetta, con infilzato in punta il pezzo di salsiccia, a mo’ di maestro elementare.
«Un tempo la situazione era chiara. C’erano i braccianti e c’erano i mezzadri. I primi non erano legati alla terra, perché accettavano qualsiasi tipo di lavoro rurale o urbano, pur di guadagnare qualcosa. I secondi erano invece affezionati al loro podere, che speravano di possedere per metà, e spesso anche ai proprietari.»
«È così anche adesso» obiettò Laura, sedendosi a tavola.
«No che non lo è. Dopo le lotte del 1901 e del 1902, che hanno portato i braccianti a qualche conquista, gli agrari hanno pensato che convenisse estendere le forme di compartecipazione. Hanno così allargato il numero dei mezzadri, dei terzadri, degli obbligati costretti a risiedere in case costruite per loro.»
«Quanti sono?» chiese Reglio.
«Oltre seimila, in Romagna. I padroni, riuniti nella Consociazione agraria, hanno anche incoraggiato la piccola proprietà, purché realmente piccola. Speravano che l’illusione di lavorare in autonomia rompesse la solidarietà di classe. Che i presunti “autonomi” non si accorgessero di essere di fatto dei salariati sotto mentite spoglie.»
«E invece?»
«I contadini, divenuti tali da un momento all’altro, non hanno fatto completamente proprio il modo di pensare dei mezzadri più anziani. Non sono legati più di tanto al podere, visto che il padrone li minaccia di continuo di escomio. Si comportano esattamente come i braccianti. In forme più selvagge, perché non hanno la stessa educazione politica.»
«Quindi il gallo rosso...»
«... potrebbe essere opera di contadini, come il taglio delle viti e l’avvelenamento del bestiame. L’anno scorso la battaglia per l’abolizione dello scambio d’opere è stata durissima. Nel comune di Ravenna ha avuto successo, però ha messo in conflitto tra loro i nuovi mezzadri, spesso alleati ai braccianti, e quelli tradizionali. Adesso è tempo di rappresaglie e vendette, anche contro la volontà dei partiti sovversivi.»
Reglio aveva altri pensieri per la mente, però non poté fare a meno di riflettere, fugacemente, sul lavoro ciclopico che i socialisti stavano conducendo. Nel volgere di una decina d’anni avevano costituito, in Romagna e in Emilia, una rete fittissima di società proletarie capaci di portare miglioramenti economici e di fronteggiare, per quanto possibile, la disoccupazione. Nel contempo avevano affondato il bisturi in rapporti di subordinazione feudale, modificando costumi invalsi, tenendo a bada reazioni violente – anche se non sempre, come il gallo rosso dimostrava – e conquistando pazientemente una postazione dopo l’altra.
Ciò conduceva al socialismo? Reglio, nella sua istintività politica, non lo credeva. Gli erano totalmente estranei i leader alla Turati, alla Bissolati, alla Bonomi, pronti a sostenere un governo monarchico e codino in cambio di uno straccetto di riforma. Sentiva invece vicini gli organizzatori “ruspanti”, i capilega, i dirigenti periferici della Federterra. Riformisti anch’essi, ma intenti a costruire nei fatti quella che aveva tutta l’aria di essere una nuova civiltà.
C’era un’obiezione, e fu al solito Laura che la formulò. «Gigino, parli di partiti “sovversivi”. Ne sei sicuro? Socialisti e repubblicani hanno a capo avvocati, medici e professori. La stessa Argentina Altobelli non ha mai lavorato in risaia in vita sua. Non c’è ai vertici un operaio neanche a cercarlo col lanternino.»
«È gente proba, che ha consacrato alla causa la sua vita.»
«Sì, ma cosa recitava il primo articolo dello statuto dell’Internazionale? Me lo hai ripetuto mille volte. L’emancipazione dei lavoratori sarà opera...»
«... dei lavoratori stessi. Cosa c’entra? Quei lavoratori vanno educati alla coscienza di classe, e solo chi è colto può farlo. Vedi Marx, Engels, Lassalle, Jaurès, Kautsky.»
«Se però gli educatori, nella loro cultura, si aspettano che il governo proclami il socialismo e dichiari decaduta la monarchia, ho paura che il collettivismo tarderà parecchio a sorgere.»
«Anarchica!»
«Illuso!»
Finì che Gigino lasciò la tavola, ma dopo avere inghiottito l’ultima forchettata di polenta e ingurgitato in un sorso un bicchiere intero di Albana, per mandarla giù.
Reglio non sapeva che partito prendere. Scacciò dalla mente quelle discussioni futili, ai suoi occhi. Andò a dormire a sua volta. La mattina seguente si sarebbe rimesso alla ricerca di Ele. Certo di avere notizie di lei, c...