Le stagioni della vita
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Le stagioni della vita

  1. 170 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le stagioni della vita

Informazioni su questo libro

Nella sua opera Hermann Hesse ha raccontato sempre la storia del divenire uomo attraverso i tortuosi sentieri dell'esistenza. Il protagonista assoluto della pagina di questo scrittore è un essere costantemente in transito attraverso gli spazi e le stagioni della vita, consenziente all'avvicendarsi senza tregua di congedi e nuovi inizi, pronto ad abbandonare ogni provvisorio conseguimento "per offrirsi sereno e valoroso ad altri nuovi vincoli e legami". Lo dimostra appieno questa antologia di scritti hessiani, che nasce da accostamenti di testi diversi, non ordinati cronologicamente: citazioni da alcuni romanzi maggiori, liriche, pagine giovanili sconosciute, brevi saggi, tutti dedicati alle fasi della vita, al grande "viaggio" dell'esperienza umana.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804447856

Le stagioni della vita

Ogni uomo però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una volta sola, senza ripetizione. Perciò la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina, perciò ogni uomo fintanto che vive in qualche modo e adempie il volere della natura è meraviglioso e degno di ogni attenzione. In ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore. […]
La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità. Ognuno reca con sé, sino alla fine, residui della propria nascita, umori e gusci d’uovo d’un mondo primordiale. Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l’uomo. Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso; ma ognuno, tentativo e rincorsa dalle profondità, tende alla propria meta. Possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno può interpretare soltanto se stesso.

BAMBINO

Mi hanno punito
ora taccio,
mi addormento piangendo
sereno mi desto.
Mi hanno punito
mi dicono piccolo,
non voglio più piangere
mi addormento ridendo.
I grandi, zio, nonno,
muoiono,
ma io, io resto
per sempre qui.

DAL TEMPO DELL'INFANZIA

Il bosco lontano e scuro mostra da pochi giorni un gaio scintillio di verde novello; oggi lungo la staccionata ho trovato quasi schiuso il primo fiore di primula; nel cielo umido e chiaro sognano le lievi nuvole d’aprile, e i vasti campi appena arati sono di un bruno così splendente e si protendono così bramosi verso l’aria tiepida che sembrano struggersi dal desiderio di ricevere e germogliare, e di mettere alla prova, sentire e donare le proprie mute forze a migliaia di verdi gemme e di fili d’erba che si tendono verso l’alto. Tutto è attesa, tutto si prepara, tutto sogna e prende vita in uno stato di sottile e dolcemente pressante febbre di crescita – il germoglio verso il sole, la nuvola verso il campo, l’erba novella verso le brezze. Ogni anno in questo periodo me ne sto desideroso e impaziente ad aspettare, come se un attimo speciale mi dovesse schiudere il miracolo del risveglio, come se dovesse accadere che improvvisamente, per un’intera ora, io riesca a percepire nella sua interezza la rivelazione della potenza e della bellezza e afferri e assista al modo in cui la vita sprizza ridendo dalla terra e spalanca i giovani occhi alla luce. Anno per anno risuona e mi passa accanto aulente il miracolo, amato e invocato – eppure mai colto; è là e io non lo vidi arrivare, non vidi aprirsi l’involucro del germoglio e tremare alla luce il primo tenero bocciolo. Ovunque si ergono improvvisamente fiori, gli alberi scintillano con chiaro fogliame o con infiorescenze spumeggianti di bianco, e gli uccelli esultanti si lanciano volteggiando attraverso l’azzurro. Il miracolo si è compiuto, anche se io non l’ho potuto vedere: i boschi formano volte e le cime lontane chiamano, ed è tempo di preparare stivali e bisaccia, canna da pesca e remi, e di gioire con tutti i sensi del nuovo anno, che ogni volta è più bello di quanto mai fu, e ogni volta sembra avanzare più rapido. Come era lunga, inesauribilmente lunga la primavera un tempo, quando ero ancora un bambino!
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E quando l’ora lo concede e sono di buon umore, mi sdraio nell’erba umida o mi arrampico sul tronco robusto più vicino, mi dondolo fra i rami, annuso il profumo dei boccioli e la resina fresca, vedo confondersi sopra di me l’intrico dei rami e il verde e l’azzurro ed entro da sonnambulo, come un ospite silenzioso, nel felice giardino della mia infanzia. Avviene così raramente ed è così meraviglioso proiettarsi ancora una volta laggiù, respirare la chiara aria mattutina della prima giovinezza, vedere di nuovo, per attimi, il mondo così come uscì dalle mani di Dio e come noi tutti lo abbiamo visto ai tempi della fanciullezza, quando in noi stessi si dispiegava il miracolo della forza e della bellezza.
Allora nella brezza si ergevano gli alberi in modo così lieto e vigoroso, allora nel giardino spuntavano il narciso e il giacinto, così splendidamente belli; e gli esseri umani, che conoscevamo ancora così poco, ci venivano incontro gentiliti e indulgenti, perché sulla nostra fronte liscia sentivano ancora l’alito del divino, di cui nulla sapevamo e che, senza volerlo né intuirlo, perdemmo nell’impeto della crescita. Che ragazzo vivace e indomito ero! Quante preoccupazioni ho dato fin da piccolo a mio padre e quante paure e sospiri a mia madre – eppure anche sulla mia fronte vi era il fulgore di Dio, e ciò che guardavo era bello e vivo, e nei miei pensieri e nei sogni, anche se non avevano nulla di religioso, entravano e uscivano, a me familiari, angeli e prodigi e fiabe.
All’odore della campagna appena arata e al verde nascente dei boschi è legato un ricordo dell’infanzia che mi assale a ogni primavera e mi induce a rivivere per ore quel tempo misterioso, per metà dimenticato. Anche ora vi penso e voglio provare, se è possibile, a raccontarlo.
Nella nostra stanza da letto le imposte erano chiuse, e io giacevo mezzo desto nel buio, sentendo mio fratello minore respirare in modo cadenzato e regolare, ed ero preso ancora una volta dallo stupore, ché a occhi chiusi invece della nera oscurità vedevo solo colori, cerchi viola e rosso cupo che si allargavano sempre più e si fondevano nelle tenebre e di continuo si rinnovavano, partendo dal loro centro, ognuno bordato da una sottile striscia gialla. Ascoltavo anche il vento che giungeva dalle montagne a refoli pigri e tiepidi, delicatamente s’insinuava fra i grandi pioppi e a tratti si appoggiava greve contro il tetto scricchiolante. Di nuovo mi dispiacque che i bambini non potessero rimanere alzati fino a tardi e uscire o almeno stare alla finestra, e pensai a una notte in cui la mamma, aveva dimenticato di chiudere le imposte.
Allora mi ero svegliato nel cuore della notte, piano piano mi ero alzato ed ero andato esitante alla finestra: lì davanti era tutto stranamente chiaro, niente affatto buio e cupo come mi ero immaginato. Ogni cosa aveva un aspetto indistinto, sfumato, smorto; grandi nuvole si spostavano per tutto il cielo e le montagne bluastre e nere sembravano confluirvi, quasi avessero tutte paura e cercassero così di sfuggire a un’imminente disgrazia. I pioppi dormivano e apparivano sbiaditi, come qualcosa di morto o di estinto; nel cortile vi erano però come sempre la panca e il trogolo e il giovane castagno, anch’esso un po’ fiacco e opaco. Non seppi se fu lungo o breve il tempo che rimasi seduto alla finestra a guardare dall’altra parte il mondo pallido e trasformato: cominciò allora a lamentarsi nelle vicinanze un animale, impaurito e pronto al pianto. Poteva essere un cane o anche una pecora o un vitello, che si era svegliato e al buio aveva provato paura. Il timore prese anche me, e tornai a cercare rifugio nella mia camera e nel mio letto, incerto se piangere o no. Ma prima di averne il tempo, ero già addormentato.
Stavolta fuori, dietro le imposte chiuse, ogni cosa giaceva di nuovo misteriosa e in attesa, e sarebbe stato così bello ed eccitante poter guardare ancora fuori. Mi immaginai di nuovo gli alberi grigi, la luce fioca e incerta, il cortile ammutolito, le montagne che fuggivano via insieme alle nuvole, le smunte strisce nel cielo e la pallida strada maestra che luccicava indistinta nella livida lontananza. Quand’ecco passare di soppiatto, avvolto in un grande mantello nero, un ladro o un assassino, oppure qualcuno che si era smarrito e correva laggiù avanti e indietro, impaurito dalla notte e inseguito da animali. Forse un bambino, grande come me, che si era perso o era scappato o era stato rapito o era rimasto senza genitori, e pur se coraggioso, poteva essere ucciso dal primo fantasma della notte o preso dal lupo. Forse i briganti lo portavano con loro nel bosco, ed egli stesso diventava un bandito, riceveva una spada o una pistola a due canne, un grande cappello e stivali alti da cavaliere.
Bastava solo un passo, un abbandonarsi senza volontà, e io sarei entrato nel paese dei sogni per vedere tutto con gli occhi, e per afferrare con le mani ciò che ora era ancora ricordo e idea e fantasia.
Ma non mi addormentai, perché in quel preciso momento, attraverso il buco della serratura della mia porta, giunse fino a me dalla stanza dei genitori un fiotto di luce debole e rossastra, riempiendo pallida e tremante l’oscurità e dipingendo una macchia gialla dentellata sulla porta del cassettone, che di colpo prese a brillare debolmente.
Era mio padre che andava a letto. Lo sentii camminare piano per le stanze con le sole calze, e subito percepii anche la sua voce profonda e smorzata. Egli parlò ancora un po’ con la mamma.
«I bambini dormono?» lo sentii chiedere.
«Sì, già da un pezzo» disse la mamma, e io mi vergognai di essere ancora sveglio. Poi vi fu silenzio per un momento, ma la luce continuò a brillare. L’attesa si faceva lunga per me, e il torpore stava già per chiudermi gli occhi, quando la mamma riprese.
«Hai anche chiesto del Brosi?»
«Gli ho fatto visita di persona» disse il padre. «Questa sera sono stato là. Fa davvero pena.»
«Sta così male?»
«Molto male. Vedrai, quando arriva la primavera, se lo porterà via. Ha già la morte in faccia.»
«Che ne pensi» disse la mamma «devo mandargli il bambino una volta? Forse potrebbe fargli bene.»
«Come vuoi» rispose mio padre «ma non è necessario. Che ne può capire un bambino così piccolo?»
«Allora buona notte.»
«Buona notte.»
La luce si spense, l’aria smise di tremolare, pavimento e porta del cassettone si fecero di nuovo indistinti, e quando richiusi gli occhi, potei di nuovo veder fluttuare e crescere anelli viola e rosso cupo dal bordo giallo.
Ma mentre i miei genitori si addormentavano e tutto era silenzioso, la mia anima improvvisamente eccitata familiarizzò prepotentemente con la notte. Il discorso compreso a metà vi era caduto come un frutto nello stagno, dando vita a piccole onde che ora correvano su di essa fugaci e tremanti, facendola fremere di allarmata curiosità.
Il Brosi, quello di cui avevano parlato i genitori, era quasi sparito dal mio orizzonte, tutt’al più era ancora un ricordo sbiadito e quasi spento. Ora egli, di cui io a malapena sapevo ancora il nome, si fece lentamente strada e divenne nuovamente un’immagine viva.
Dapprima fui solo consapevole di aver in precedenza spesso sentito questo nome e talvolta di averlo pronunciato io stesso. Poi mi venne in mente un giorno d’autunno, in cui avevo ricevuto in regalo delle mele da qualcuno. Mi ricordai che era stato il padre di Brosi, e così all’improvviso seppi di nuovo tutto.
Vidi dunque un bambino grazioso, di un anno più grande di me, ma non più alto; si chiamava Brosi. Forse l’anno prima suo padre era diventato nostro vicino e il ragazzo mio compagno; tuttavia la mia memoria non riusciva più a risalire fino a quel tempo. Lo rividi ora in modo distinto: possedeva un berretto di lana blu fatto a maglia con due curiosi pompon, portava sempre mele o pane affettato nella sacca, e ogni volta che cominciavamo ad annoiarci aveva sempre pronti un’idea, un gioco, una proposta. Portava un gilè anche nei giorni feriali, cosa per cui lo invidiavo molto, e prima non gli avevo quasi attribuito forza fisica, ma poi una volta sollevò il garzone del fabbro del villaggio, che lo scherniva per il pompon del berretto (l’aveva fatto a maglia sua madre), e io allora ebbi per un momento paura di lui. Possedeva un corvo addomesticato, a cui in autunno avevano messo nel mangime troppe patate novelle ed era morto, e noi lo avevamo seppellito. La bara era una scatola, ma era troppo piccola e il coperchio non rimaneva mai sopra; io tenni un’orazione funebre come un vero parroco, e quando il Brosi cominciò a piangere, il mio fratellino minore non poté fare a meno di ridere. Allora il Brosi lo picchiò, e io lo colpii di ritorno; il piccolo strillò e noi ci separammo correndo. Poi venne da noi la madre di Brosi e disse che il ragazzo era dispiaciuto e che se avessimo voluto andare da lei l’indomani pomeriggio, ci sarebbero stati caffè e ciambella, questa era già in forno. E durante la merenda il Brosi ci raccontò una storia, che proprio nel mezzo ricominciava daccapo, e sebbene io non riuscissi mai a ricordarla, non potevo fare a meno di ridere ogni volta che ci pensavo.
Ma questo fu solo l’inizio. Mi vennero in mente contemporaneamente migliaia di eventi, tutti dell’estate e dell’inverno in cui Brosi era stato mio compagno, me li ero praticamente tutti dimenticati in quel paio di mesi da quando egli non veniva più. Ora mi incalzavano da ogni parte, come uccelli, quando in inverno si gettano chicchi di grano, tutti insieme come una nuvolaglia.
Mi ricordai dello splendido giorno autunnale in cui il falco del contadino aveva attraversato la rimessa. L’ala spuntata gli era cresciuta, aveva limato la catenella d’ottone che gli legava la zampa e aveva abbandonato l’angusto e buio capannone. Ora sedeva tranquillo sul melo di fronte alla casa, e lì davanti sulla strada si era riunita almeno una dozzina di persone, che guardava in alto e parlava e faceva proposte. Noi ragazzi, il Brosi e io, provavamo una strana sensazione di angoscia per come rimanevamo là con tutti gli altri a osservare l’uccello che se ne stava silenzioso sull’albero e guardava giù in modo audace e sfrontato. «Quello non torna!» gridò uno. Ma Gottlob il garzone disse: «Se potesse ancora volare sarebbe già da un pezzo sopra monti e valli». Il falco saggiò più volte le grandi ali, senza lasciare con gli artigli il ramo; noi eravamo tremendamente eccitati, e io stesso non sapevo che cosa mi avrebbe rallegrato di più, se la sua cattura o la sua fuga. Infine Gottlob accost...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Le stagioni della vita
  5. Fonti
  6. Copyright