
- 176 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Est, Ovest
Informazioni su questo libro
Nove racconti sulla realtà dell'Oriente e su quella dell'Occidente, dalla storia di un uomo-risciò che sogna di diventare un divo del cinema, a quella di Cristoforo Colombo "immigrato" alla corte di Isabella; dalla vicenda di due diplomatici indiani appassionati di Star Trek ai ricordi nostalgici dello stesso autore, destinato a provare in prima persona l'insanabile lacerazione di chi vive a cavallo tra due mondi distanti e incompatibili.
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Informazioni
Print ISBN
9788804463870eBook ISBN
9788852057441Il cortiere
1
Certo-Mary era la donna più piccina che Babilonia il facchino della hall avesse mai incontrato, nani esclusi: una minuscola signora indiana di sessant’anni con i capelli grigi legati dietro la testa in un nitido chignon, che si tirava su, davanti, il sari bianco orlato di rosso e scalava la gradinata anteriore del condominio come se fossero le Alpi. «No» disse forte, aggrottando la fronte. Quali potevano essere le cime giuste? Ah sì, ecco il nome. «Ghats» disse fieramente. La parola di un atlante scolastico di tanto tempo fa, quando l’India sembrava lontana come il paradiso. (Oggigiorno il paradiso sembrava ancora più lontano, mentre l’India, e l’inferno, si erano avvicinati di un bel po’.) «Western Ghats, Eastern Ghats, e adesso i Kensington Ghats» disse, ridacchiando. «Montagne.27»
La donna si fermò davanti a lui nell’atrio rivestito di quercia. «Ma i ghats in India sono anche gli scalini» disse. «Sì, sì, certo. Fer esenfio, nella città santa hindu di Varanasi, il fosto dove si siedono i bramini fer ricevere i soldi dai fellegrini si chiama Dasashwamedh-ghat: scala larga larga che scende al fiume Ganga. Oh, certo! E Manikarnika-ghat. Comprano il fuoco da una casa con una tigre che salta dal tetto – sì, certo, la statua di una tigre, colorata in technicolor, cosa credi? – e lo tengono in una scatola fer afficcare il fuoco al corfo dei loro cari. Le fire funerarie sono di legno di sandalo. Non è fermesso fare fotografie; no, no di certo.»
Aveva cominciato a chiamarla Certo-Mary perché non rispondeva mai con un semplice “sì” o “no”; sempre questo “oh sì, certo” o “no, no di certo”. Nelle confuse circostanze che erano prevalse da quando il suo cervello, l’unica cosa di cui era sicuro, lo aveva tradito, non poteva più essere certo di nulla; perciò fu stordito dalla sua sicurezza e scaraventato prima nella nostalgia, poi nell’invidia, poi nell’attrazione. E l’attrazione era una cosa dimenticata da così tanto tempo che quando cominciò il rimescolìo lui pensò per un pezzo che dovesse trattarsi degli gnocchi cinesi che si era portato a casa dalla rosticceria della High Street.
L’inglese era difficile per Certo-Mary, e questa era una delle cose che spingevano il vecchio e malridotto Babilonia verso di lei. La lettera “p” era un problema particolare, dato che spesso si trasformava in una “f” o in una “c”; quando lei procedeva attraverso l’atrio con un cesto di vimini a rotelle, diceva: «Vado a fare la sfesa». E quando, al suo ritorno, lui si offriva di aiutarla a sollevare il cesto per fargli scavalcare i ghats dell’ingresso, lei rispondeva: «Sì, frego». Mentre l’ascensore se la portava via, gridava attraverso la griglia metallica: «Ohè, cortiere! Grazie, cortiere! Oh, sì, certo!». (In hindi e in konkani, però, le sue “p” erano al posto giusto.)
Così, grazie alla magia di quella donna, inattesa e un po’ rimescolante, non era più un portiere ma un cortiere. «Cortiere» ripeté allo specchio quando lei se ne fu andata. Il suo fiato dipinse sul vetro un’immagine della parola che presto si dissolse. «Cortiere cortese corte.» Okay. La gente lo chiamava in molti modi, e lui se ne infischiava. Ma questo nome, questo cortiere, questo avrebbe cercato di esserlo.
27. I Ghati Occidentali e i Ghati Orientali sono le due catene montuose che delimitano, a ovest e a est, l’altipiano triangolare del Deccan. Ghat, in hindi, significa “gradino”. (N.d.T.)
2
Da anni pensavo di scrivere la storia di Certo-Mary, la nostra ayah, la donna che non fece meno di mia madre per allevare me e le mie sorelle, e della sua grande avventura col “cortiere” a Londra, dove abitammo tutti per un certo tempo, all’inizio degli anni Sessanta, in un palazzo chiamato Waverley House; ma tra una cosa e l’altra non mi sono mai deciso a farlo.
Poi, recentemente, ebbi notizie di Certo-Mary dopo un silenzio piuttosto lungo. Scrisse per dire che aveva novantun anni, che aveva subito una grave operazione, e per chiedere se gentilmente potevo inviarle un po’ di denaro, perché la imbarazzava il fatto che sua nipote, con la quale ora viveva nel sobborgo di Bombay chiamato Kurla, avesse le tasche così vuote.
Spedii il denaro, e subito dopo ricevetti una simpatica lettera dalla nipote, Stella, scritta con la stessa calligrafia della lettera dell’“Aya”, come avevamo sempre chiamato Mary, lasciando cadere palindromicamente l’acca. L’Aya si era molto commossa, scriveva la nipote, al pensiero che dopo tutti questi anni io mi ricordassi di lei. “Per tutta la vita ho sentito parlare di voi” continuava la lettera, “e penso a voi un po’ come se foste la mia famiglia. Forse vi ricorderete di mia madre, la sorella di Mary. Sfortunatamente non è più tra noi. Ora sono io che scrivo le lettere di Mary. Facciamo a tutti voi i nostri migliori auguri.”
Questo messaggio da una sconosciuta che sentivo però tanto vicina mi raggiunse nell’esilio forzato dall’amata mia terra natìa e mi turbò, rimescolando dentro di me delle cose che erano state sepolte a grande profondità. Naturalmente mi fece anche provare dei rimorsi per aver fatto così poco per Mary in tutti quegli anni. Qualunque ne sia la ragione, è diventato più importante che mai scrivere la storia che, non scritta, da tanto tempo mi porta dentro, la storia dell’Aya e del brav’uomo che lei ribattezzò – con romantici sottintesi non intenzionali ma profetici – “il cortiere”. Ora vedo che questa non è soltanto la loro storia, ma anche la nostra, la mia.
3
Il suo vero nome era Mecir: lo si sarebbe dovuto pronunciare Miscirsh, perché aveva invisibili accenti in qualche lingua da Cortina di Ferro nella quale gli accenti dovevano essere invisibili, diceva solennemente mia sorella Durré, nel caso qualche spia li individuasse o li cancellasse o Dio sa cosa. Anche il suo nome di battesimo cominciava per emme, ma era così pieno di quelle che noi chiamavamo le “consonanti comuniste”, tutte quelle “z” e “c” e “w” murate insieme senza una vocale che desse loro spazio per respirare, che io non cercai nemmeno di impararlo.
All’inizio pensammo di dargli il nome di un piccolo e maligno personaggio dei fumetti, Mr. Mxyztplk dalla Quinta Dimensione, che somigliava un po’ a Elmer Fudd e faceva fare a Superman una vita d’inferno fino a quando il vecchio Sup non riusciva con l’inganno a fargli dire il suo nome all’incontrario, Klptzyxm, al che lui spariva per tornare nella Quinta Dimensione; ma poiché non eravamo troppo sicuri di come si leggeva Mxyztplk (per non parlare di Klptyxm) abbandonammo l’idea. «Ti chiameremo semplicemente Babilonia» gli dissi io alla fine, per semplificare le cose. «Scignor Babilonia Miscirsh.» Allora avevo quindici anni ed ero pieno di un’impertinenza della quale non sapevo cosa fare, il che significava che potevo dire cose come questa in faccia alla gente, anche a gente meno accomodante del signor Mecir dopo il suo colpo apoplettico.
Ciò di cui ho il ricordo più vivo sono i suoi guanti di gomma rossa, che sembrava non togliersi mai, almeno fino al giorno in cui venne a cercare Certo-Mary… In ogni modo, quando lo insultai, con le mie sorelle Durré e Muniza che ridacchiavano nell’ascensore, Mecir si limitò a scoprire i denti in un sorriso vuoto e bonario, annuì – «Mi chiami come vuole, okay» – e tornò a pulire e lustrare gli ottoni. Inutile stuzzicarlo se queste erano le sue reazioni, sicché entrai nell’ascensore e per tutto il viaggio fino al quarto piano cantammo a squarciagola I Can’t Stop Loving You con le nostre migliori voci alla Ray Charles, che erano un vero orrore. Ma avevamo gli occhiali neri, quindi non contava.
4
Era l’estate del 1962, e la scuola era finita. La mia sorellina Sheherazade aveva appena un anno. Durré ne aveva quattordici e portava i capelli raccolti sulla testa in uno chignon; Muniza ne aveva dieci ed era già un diavoletto. Noi tre – o meglio Durré e io, con Muniza che cercava disperatamente e senza troppo successo di farsi accogliere nella nostra banda – stavamo sopra il lettino di Sheherazade e cantavamo. «Niente filastrocche per bambini» aveva decretato Durré, e così fu perché, anche se aveva un anno meno di me, mia sorella era un capo naturale. Le ninnenanne della piccola Sheherazade erano le nostre versioni degli ultimi successi di Chubby Checker, Neil Sedaka, Elvis e Pat Boone.
«Why don’t you come home, Speedy Gonzales?» muggivamo in dolce disarmonia; ma soprattutto, e con grande energia, saltavamo giù, ci giravamo e raccoglievamo una balla di cotone. Avremmo saltato, ci saremmo girati e avremmo raccolto quelle balle tutto il giorno se il Maragià di B., nell’appartamento sottostante, non si fosse lamentato e se l’Aya Mary non fosse venuta a pregarci di stare buoni.
«Attenti, lo sapete che Jumble-Aya28 si è innamorata di Babilonia?» urlò Durré, e le gote di Mary si coprirono di un rossore davvero immenso. Così, naturalmente, noi passammo senza interruzioni a un veloce me-oh-my-oh; son of a gun we had big fun. Ma allora la bambina si mise a strillare, mio padre entrò a testa bassa come un toro, sprizzando vapore dalle orecchie, e a noi non rimase altro da fare che toccare tutti i ciondoli portafortuna che erano a portata di mano.
Ero in collegio in Inghilterra da un anno o giù di lì quando Abba29 prese la decisione di venirvi ad abitare con la famiglia. Come tutte le sue decisioni, essa non fu spiegata né discussa con nessuno, neppure con mia madre. Quando arrivarono, affittò due appartamenti attigui in una squallida palazzina di Bayswater che si chiamava Graham Court, annidata furtivamente in una strada senza nome che strisciava lungo un lato del cinema ABC Queensway verso i Porchester Baths. Requisì uno di questi appartamenti per sé e nell’altro collocò mia madre, le mie tre sorelle, l’Aya e me, durante le vacanze scolastiche. L’Inghilterra, dove i liquori erano liberamente disponibili, fece poco per la bonhomie di mio padre, e così in un certo senso fu un sollievo avere un appartamento tutto per noi.
Quasi tutte le notti lui vuotava una bottiglia di Johnnie Walker Red Label e un sifone di acqua di selz. Mia madre, la sera, non osava andare “a casa sua”. Diceva: «Mi fa le boccacce».
L’Aya Mary portava ad Abba la sua cena ed esaudiva tutte le sue richieste (se voleva qualcosa, ci telefonava e la chiedeva). Non so perché a Mary fossero risparmiati i suoi scatti d’ira ubriaca. Lei diceva che dipendeva dal fatto che aveva nove anni più di lui, e perciò poteva dirgli di mostrarle il rispetto dovuto.
Dopo qualche mese, tuttavia, mio padre affittò un appartamento con tre camere da letto al quarto piano di uno stabile di lusso. Questo stabile era Waverley House in Kensington Court, W8. Tra gli altri suoi residenti c’erano, non uno, ma ben due maragià indiani, lo sportivo Principe di P. e il vecchio B. che è già stato menzionato. Ora eravamo pigiati tutti insieme, i miei genitori e la piccola Scare-zade30 (come i suoi fratelli avevano affettuosamente cominciato a chiamarla) nella camera da letto principale, noi tre in una stanza molto più piccola e Mary, mi duole doverlo ammettere, su un pagliericcio steso sulla moquette della hall. La terza camera da letto diventò l’ufficio di mio padre, dove lui faceva le telefonate e teneva la sua Encyclopaedia Britannica, i suoi “Reader’s Digest” e (regolarmente chiuso a chiave) l’armadietto della televisione. Vi entravamo a nostro rischio e pericolo. Era la tana del Minotauro.
Un mattino lo persuasero a fare un salto nella farmacia all’angolo per andare a prendere della roba per la bambina. Sul suo viso, quando tornò indietro, c’era un’espressione offesa da scolaro trattato ingiustamente che non avevo mai visto prima. E si premeva la mano sulla guancia.
«Mi ha dato uno schiaffo» disse in tono lamentoso.
«Hai! Allah-tobah! Caro!» gridò mia madre, facendo un sacco di storie. «Chi ti ha dato uno schiaffo? Sei ferito? Mostrami, fammi vedere.»
«Non ho fatto niente» disse lui, ritto là nella hall con la borsa della farmacia nell’altra mano e una faccia rossa come i guanti di gomma di Mecir. «Sono solo entrato con la tua lista. La ragazza aveva un’aria molto servizievole. Ho chiesto latte in polvere, talco Johnson, gelatina per la dentizione, e lei li ha tirati fuori. Poi le ho chiesto se aveva le tettine, e mi ha dato uno schiaffo in pieno viso.»
Mia madre era sbigottita. «Solo per questo?» E Certo-Mary le diede man forte. «Cos’è questa sciocchezza?» interloquì. «Io ci sono stata,...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Est, Ovest
- EST
- I buoni consigli sono più rari dei rubini
- La radio gratis
- Il pelo della barba del profeta
- OVEST
- Yorick
- All’asta delle babbucce di rubini
- Cristoforo Colombo & la Regina Isabella di Spagna consumano la loro relazione (Santa Fé, 1492 d. C.)
- EST, OVEST
- L’armonia delle sfere
- Chekov e Zulu
- Il cortiere
- Ringraziamenti
- Copyright