Il direttore della scuola elementare è un disabile. È zoppo e, quando cammina, compie a ogni passo una minuscola genuflessione, stendendo a lato la gamba sinistra. Quando è seduto appoggia spesso il mento a un bastone, che pianta davanti a sé come una mazza.
Mi accorgo, descrivendolo dopo tanto tempo, che non ho mai saputo, né cercato di sapere, la causa della sua minorazione. Poteva essere un invalido di guerra come una vittima della poliomielite. Questa disattenzione, tanto più significativa in un caso come il mio, mi insegna qualcosa sulla distanza che ci divide dai disabili.
La sua menomazione era comunque occultata da una energia impressionante. Si alzava con violenza dietro la scrivania, ruotando la gamba rigida. E quando in corridoio avanzava alto, scheletrico, la barba ispida, curvo sul bastone, con la sua andatura a balzi, maestri e bambini si ritraevano lungo i muri. Chi invece si accorgeva troppo tardi del suo arrivo si sottraeva con un guizzo alla sua vicinanza. E lui, che percepiva intorno a sé quella atmosfera turbata, non mancava di intensificarla alzando il bastone, per indicare un punto o una persona e trasformare un gesto in una minaccia.
Sapevo che era temuto, all’interno della scuola, come un donnaiolo invadente. Le insegnanti dovevano difendersi dalla sua rapacità rozza. Alle più anziane chiedeva una spiccia solidarietà sessuale, un soccorso immediato e temporaneo. Alle più giovani dedicava un assedio più cauto, ma non meno insistente. Convocato una volta dal provveditore, su denuncia di una sua sottoposta, era riuscito a capovolgere l’accusa in un tentativo maldestro di corruzione. Forse oggi, voglio sperarlo, non succederebbe. Ma allora si era persa la speranza, come aveva detto la sua vittima, di inchiodarlo alle sue responsabilità. Né mancavano, nel personale cosiddetto non docente, donne che avevano avuto con lui rapporti intimi, una espressione che nel suo caso evocava qualcosa di losco e di sordido.
Questo satiro di campagna irto e loquace, emigrato nella metropoli, era un cacciatore di successi fulminei quanto effimeri, di piaceri strappati grazie alla sorpresa e alla intimidazione, e di legami vischiosi con donne sfinite da disperazioni inconfessate. A me ricordava i saccheggiatori di rovine, gli sciacalli dei terremoti, che una volta venivano fucilati sul posto, espressione impagabile (una variante era “passati per le armi”): una terminologia che ha sempre appagato, con la copertura dell’equità, il mio istinto dell’omicidio.
È un peccato non poter estendere la pena ai ladri di anime, oltre che di corpi. Detesto i collezionisti di furti sessuali, disposti a qualsiasi inganno pur di ottenere ciò che gli stupratori dei corpi ottengono con la violenza. Questi stupratori di anime vengono talora scambiati per seduttori, ma c’è qualcosa che li distingue, a parte l’identità apparente dell’oggetto (mai parola più adeguata) del loro desiderio: ed è che non sono mai presi dalla preda, mai vinti dalla sconfitta della vittima. Corteggiano le donne con la stessa determinazione cupa con cui i misogini le evitano: entrambi infatti le odiano, sia pure con modalità e conseguenze diverse. Il loro disprezzo coincide con l’immagine di sé condivisa dall’altra parte, le dà una conferma e un suggello. E l’uomo ne ricava l’alibi per ricominciare ogni volta la caccia.
Il direttore della scuola elementare Martin Luther King forse non pensava neppure a questi alibi. Gli unici effetti che lo interessavano erano quelli penali. Ora i ladri di anime sono certamente più immorali che i ladri di una mela (il frutto biblico prediletto in questo genere di metafore), ma nessuna legge li perseguita. L’intenzione infatti, se non si trasforma in reato, non è mai una colpa. Ed è questo il minuscolo abisso che separa i due codici, penale e morale.
Con questi pregiudizi ben sedimentati, incontro il direttore al primo piano di un edificio costruito recentemente, fatto di cubi dislocati, collegati da scale, ponti e corridoi aerei. In un’area costellata di prati e di piante, una impressione novecentesca di leggerezza e di spazio, anziché la segregazione lombrosiana in cui è immersa la mia scuola.
Lui mostra una ruvida cortesia nel parlarmi, come dice, da collega a collega e nell’invitarmi a darci del tu, visto che ha il malinconico privilegio di essere più anziano. Mi spia con occhi arrossati dalla eccitazione, sopra le guance incavate. Accenna subito, indicando la gamba rigida che sporge a lato della scrivania, alle disgrazie che ci uniscono. C’è una tetra, selvaggia allegria in questa solidarietà indiretta, l’umore ilare e acre di chi è abituato a condividerlo con se stesso e con i sottoposti, che non hanno scelta.
Poi aggiunge:
«Parliamoci chiaro.»
Ho sempre temuto questa frase, che non è mai un invito alla trasparenza, ma l’apertura delle ostilità.
«Tu hai avuto una grande fortuna a trovare un direttore come me.»
Mi guarda per valutare l’effetto delle sue parole:
«Se c’è qualcuno che può capire i problemi dell’handicap, questo sono io.»
Annuisco gettando uno sguardo discreto in direzione della gamba.
«Qui tuo figlio avrà tutta l’assistenza di cui ha bisogno. L’insegnante giusta, la classe giusta, il pianterreno.»
Dovrei essere contento e infatti lo sono. Ma mi sembra un operatore turistico o un agente immobiliare che mi sta magnificando un prodotto per giustificare il prezzo. Quale sarà il prezzo?
«Tu non avrai da preoccuparti. Solo il trasporto, ecco, a questo devi provvedere tu.»
«Verrà in automobile o in go-kart» lo rassicuro. «Ci penserà mia moglie.»
«Allora siamo a posto. Però…» si interrompe soprappensiero, come se mi valutasse alla luce di una idea che gli attraversa la mente. Per il momento soprassiede. «Anche per gli intervalli, le interruzioni e le assenze non c’è da preoccuparsi. Immagino che tuo figlio abbia bisogno di un occhio particolare.»
Esito:
«Sì. Meglio metterlo in conto.»
«L’insegnante è la migliore che posso darti. È una biondina che viene da Bolzano. Si chiama Bauer. Non le manca nulla, tranne un po’ di comprensione per gli uomini.»
Mi scruta:
«Ti piacciono le donne, eh? Qui ce n’è un discreto assortimento. Ah, se non fosse per la gamba!»
La distende lateralmente, simulando un accesso di dolore.
«Mi arrangio come posso» prosegue. «Ma non posso farne a meno. Sai che cosa diceva non ricordo chi? Che per lui era indispensabile come il cibo. Lo stesso vale per me.»
Aggiunge:
«Sono rimasto vedovo dieci anni fa. Meglio così, poveretta. Non sono fatto per il matrimonio.»
La segretaria, affacciandosi sulla porta alle mie spalle, deve avergli rivolto un cenno, perché lui annuisce e lei gli porta una cartella aperta, con alcuni fogli da firmare.
Lo vedo controluce, sullo sfondo di una immensa vetrata, e mi sembra la silhouette del diavolo zoppo, sceso da un comignolo per insediarsi in questo palazzo di vetro.
«A che cosa pensi?» mi chiede.
«A niente» mento (come sempre, quando si risponde così).
«No, anzi» mi correggo. «Pensavo alla impressione che dà la tua scuola.»
«E cioè?»
«Che sia efficiente, che funzioni bene. Del resto me ne avevano...