L'impero del sogno
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L'impero del sogno

  1. 276 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'impero del sogno

Informazioni su questo libro

A volte i sogni possono essere il rifugio da una realtà ingrata. Ma quando il confine tra sogno e realtà sbiadisce, la situazione può sfuggire di mano. Federico Melani, ventenne di provincia indolente e caratteriale, in rotta con tutto e tutti, comincia a fare un sogno ricorrente. Di più: un sogno seriale, che va avanti con o senza di lui. Lì le cose sono molto diverse rispetto al contesto in cui vive: è atteso con ansia, e intuisce di avere importanti responsabilità. È infatti uno dei delegati, assieme a mostri, dèi ed esseri bizzarri di ogni tipo, a un summit dove si prenderanno decisioni cruciali per il destino di molti mondi. Ma perché tutte le delegazioni hanno tre membri mentre le sedie accanto a lui sono vuote? Dove sono i suoi compagni?

Ben presto Federico si ritrova così coinvolto dalla vicenda da preferire il sonno - indotto con metodi più o meno naturali - alla veglia. Sarà l'inizio di un'avventura vertiginosa che lo porterà a stringere inaspettate alleanze, a combattere creature fantastiche e archetipiche, a rubare armi mitologiche e a prendersi cura di una bambina-​impe­ratrice capace di regalare diverse sorprese.

Autore di memoir e narrazioni realistiche ( Mu­ro di casse, La stanza profonda ), romanzi generazionali e fantastici ( Gli interessi in comune e Terra ignota ), Vanni Santoni costruisce un urban fantasy singolare e spassoso, ambientato tra la Toscana e l'universo onirico, che gioca - oltre che coi generi - con gli stilemi narrativi del cinema anni Ottanta e dei videogame, trascinando il lettore in una grande cavalcata sulla carovana dei sogni.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804680796
eBook ISBN
9788852083433

SECONDA PARTE

«Come avviene d’un sogno quand’uno si sveglia.»
Salmi, LXXIII, 20
«Oh giovane!»
(toc toc)
«Oh giovane!»
(toc toc)
«Eh?»
«Oddio!»
Una vecchia mi batte sul vetro con una stampella.
«Tutto bene, giovane?»
«Sì, sì… Scusi…» Tiro un po’ giù il finestrino. Cos’è, l’alba? Accidenti che freddo… Uh, be’. Almeno il sogno è andato bene. Se non ricordo male.
«Sicuro che va tutto bene?»
«Sì… Grazie…»
«Gni’ metta una copertina, però!»
«Cosa?»
«’Un la pole mica tene’ così, con questa brina!»
«Abbia pazienza, non ho mica capito…»
«Dico, gli metta una copertina, alla bimbina!»
Sento le vertebre allinearsi e contrarsi e un nodo di gomma dura formarsi a mezza gola mentre giro appena la testa e nella coda dell’occhio destro vedo spuntare qualcosa. Qualcosa di rosato e paffuto e sgambettante sul sedileQualcosa di castano, e piccolo, certo, ma non più esattamente “neonato”.
Guardo la vecchia. «Eh!» fa quella. Guardo di nuovo il sedile. C’è ancora. Ride. Nuda lì sul sedile della Panda. Mi tolgo il giubbotto in tutta fretta avvitorcolandomi su una manica, la sbroglio, glielo metto su. Che devo fare? Sto ancora sognando, ovvio… Lo dico ad alta voce, come per forzarmi a crederci…
«Ma icché la fa?» dice la vecchia.
Metto in moto e schizzo via. Vado. Guido a memoria nel paese deserto per l’ora antimeridiana, lungo strade tutte nebbia e gelo, nella primavera che pareva premere e invece adesso tarda a mostrarsi. Raggiungo la provinciale, l’atmosfera è apocalittica: nel crepuscolo si intravvede solo lo spillo di luce di Venere. Ogni tanto guardo il sedile. C’è il mio giubbotto. Non sembra neanche che ci sia qualcosa sotto. Forse non c’è qualcosa sotto. A forza di sonniferi e narcotici, e a forza di star dietro ai sogni, sto sbroccando, è ovvio. È ovvio, dico ad alta voce. Parlare ad alta voce, peraltro, tipico segno che stai sbroccando. Alzo il giubbotto mentre imbocco la statale. La bimba, da sotto, mi sorride. Sbando, un camion mi dà un colpo di clacson che sembra la sirena di una nave. Rientro in carreggiata. Rallento. Scorgo la chiesetta dell’Annunziata, grigia e col suo basso campanile, lì sulla destra, subito sotto la strada. Raggiungo il cortile, mi fermo su un lato. Alzo il giubbotto. La bimba sgambetta. Allungo un dito verso la sua pancia priva di ombelico… La tocco. C’è. Esiste e consiste. Ride e mi guarda, e non vedo l’universo o l’Aleph stavolta, ma solo i suoi occhi neri, che per un attimo si fanno verdi, azzurri, castani, grigi, e poi di nuovo neri.
«Esisti?» dico, come se avesse senso fare domande a una poppante, o peggio che mai a una poppante immaginaria.
Lei ride e mi tende le manine. Poi, come se il tasso di stranezza del momento non fosse sufficiente, si spalanca il portone della chiesa ed esce il prete, che poi lo conosco anche, quel prete, da piccoli venivamo sempre qui per il campetto, come si chiamava…? Don Fausto? Ecco, don Fausto. Mai piaciuto, intendiamoci: un pretastro lagnoso, sudaticcio e dai modi unti, già anzianotto ai tempi, che passava le giornate a mangiare lupini e sputazzare le bucce in giro… Ma insomma, un brav’uomo. Certo non uno che spalancherebbe il portone della chiesa con un calcio e armato di cric correrebbe verso di te urlando, schiumando, gli occhi sgranati e fuori dalle orbite… Eppure appare tutto così reale. Pure troppo: un’iperrealtà distorta dall’estrema stanchezza: un mondo isterico, sgranato… Bam. Copro la bimba col mio corpo mentre quello schianta il lunotto con una forza che non daresti mai a un uomo di settantacinque, forse ottant’anni. Mi piove addosso una gragnuola di frammenti mentre quello sale invasato sul cofano, vuole entrare. Vuole la bimba, la punta, con quel muso schiumante, con quella manaccia simile a un artiglio. Io sono lento da schifo per il Darkene e la nottataccia e tutte le stramberie che stanno accadendo ma riesco a rimettere in moto mentre gli do un pugno in faccia, ma il prete neanche lo sente. Molla un colpo di cric a vuoto. Allora pesco alla cieca il bloccasterzo dal vano sotto al sedile dietro e lo tengo a distanza alla meno peggio con quello. Duelliamo isterici con cric e bloccasterzo mentre riparto, stringendo i denti per la ferita alla gamba che si deve essere riaperta, e lancio la macchina verso il campetto. Poi freno all’improvviso tenendo fermo con la mano il giubbotto e la bimba sotto. Il prete viene sbalzato via, rotola all’indietro, si rialza ansimando, la tunica tutta lacerata, un piede scalzo e graffiato, e mi guarda con gli occhi simili a fari, con la schiuma alla bocca che s’impasta di sangue. Mi sfiora il pensiero folle di accelerare e metterlo sotto. Bam!, e tanti saluti. Troppo gusto col Sikorsky? Un’eco dal sogno mi fa scattare un brivido. Ma questa è la realtà. O no? Alzo il giubbotto. La bimba c’è. Sorride. Ciao, piccina, ciao. Certo non sei neanche una facile a spaventarsi, eh? Riparto, giro tutto il volante a sinistra, lo vedo nello specchietto che ci rincorre per un po’, urlando cose incomprensibili. Cosa. Sta. Succedendo. Dico rivolto alla bimba.
«Esisto» dice qualcosa, neanche una voce, più una sensazione che mi esplode nella testa, nell’intero campo cognitivo.
E, sì, mi rifugio a casa. Per fortuna non c’è nessuno, Nadia dev’essere già rientrata a Bologna. Piazzo la macchina al limite del parcheggio del condominio, e voltata in modo che non si noti il parabrezza sfondato. La mamma è di certo in ospedale. Non ho neanche guardato il cellulare. Lo guardo?
Vuoi farmi stare anche il pomeriggio?
Che faccio adesso? Bimba, te la senti di rimanere da sola per un po’? Lei ride, come sempre. Tra l’altro qua devo procurarmi alla svelta dei vestiti da bambina. Quanti soldi mi restano? Diciottomila lire. Niente. Nel cassetto di camera dei miei rimedio un cinquantone. Svuoto sul letto tutte le vecchie borse di mia madre, alzo altre tremila lire. Settantunomila lire, non so neanche se bastano per un abitino, una tutina, quel cavolo che va messo addosso a una bimba di quell’età… Sono attrezzato bene, davvero… Poi noto le casse telate in cima all’armadio dei miei. Forse… Le tiro giù, rovisto in quell’odore di naftalina… E sì. La vesto con un mio vecchio completo di quando avevo un anno e mezzo, forse due. Un completo fine, Principe of Florence, comprato dalla nonna. Certo che cresci veloce… Bambina. Non ce l’hai un nome, eh?
«Sì che ce l’ho» dice qualcosa nella mia testa, neanche una voce, è più qualcosa come… Come cosa? Come lo sciente stesso che si fa autonomo e mi parla, riverberando qualcosa che potrebbe dire, aver detto o che dirà lei. Ce l’ho. Dimmelo. Devi saperlo.
La guardo. Mi guarda con quegli occhietti scuri e luccicanti. Vediamo… Ro…
Aggrotta le sopracciglia.
No, macché Rosa. No. Mi cade l’occhio sull’incisione appesa sopra il letto, dettagli botanici dei cedri dell’Atlante di Vallombrosa, una delle tante regalate al nonno da quel suo amico incisore, e dal nonno passate al babbo…
«Gemma!»
La bimba sorride. E mostra già i primi dentini…
«Senti Gemma, mio padre è in ospedale. Non ha niente di che, ma un salto a vederlo lo devo fare. Ci sta che debba rimanere un po’… Tu puoi stare qui no? Hai fame? Aspetta…»
Vado di là a prenderle del latte. Quando rientro, la trovo che si balocca con un libro preso dallo scaffale più basso.
«Che fai, sarà un po’ presto per leggere? Cos’hai preso, Le città invisibili? Precoce… Forse meglio se cominci con qualcosa di illustrato… Facciamo così, quando torno vedo se in soffitta ci sono i miei vecchi numeri del “Corriere dei Piccoli”… Senti, Gemma. Io ora devo andare. Mi aspetti qui, va bene?»
Chiudo a chiave la stanza. Appoggiato alla porta con la schiena e i palmi delle mani, respiro, anzi iperventilo. Sto uscendo di testa, è chiaro. Sto sognando ancora? Bastassero i pizzicotti… Guardo nel buco della serratura. È ancora lì. Ha sparso a terra tutto lo scaffale basso, i manuali di Dungeons & Dragons, i libri di Tolkien, quelli di Barker, l’Orlando Furioso, facendo un gran casino… Vabbè. Per fortuna se c’è una cosa, una, che la mamma rispetta è la porta chiusa a chiave quando non sono in casa. Gliel’ho imposta fino all’esasperazione, del resto, dopo che mi buttò all’aria la camera per cercare il libretto universitario – senza trovarlo, visto che l’avevo già perso da un bel pezzo. Ma sarebbe meglio che non ci fosse nemmeno, questo rischio. Devo inventarmi qualcosa…
Mentre guido verso l’ospedale sperando che non mi fermino per il parabrezza sfondato cerco di mettere in fila tre pensieri ma ho la testa piena di nebbia, ci vorrebbero degli stimolanti per spazzar via la caligine dei barbiturici, qualcosa tipo le anfe di capodanno, chissà cosa si pippava Livia su quel piatto, pur di non comparire al congresso… Livia Bressan, chissà cosa sta facendo adesso… Pensare di andare da lei sarebbe stato già logico di per sé. Ma capisco che devo anche sbrigarmi quando, mentre sono ancora al banco dell’accettazione, da uno di quei corridoi bassi e larghi e lustri al punto di riflettere distorta ogni figura umana che li calca, viene verso di me un panzone in camice, con barba alla Carducci e occhiali pince-nez. Che poi lo conosco anche: il dottor Pironti, il babbo della Silene, una con cui usciva Iacopo… Si avvicina a me e dietro ai pince-nez...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’impero del sogno
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. Nota dell’autore
  7. Testi citati
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright