La testimonianza
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La testimonianza

  1. 456 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

A cinquant'anni, Bill ten Boom si è lasciato alle spalle tutto ciò che credeva essere importante: il suo lavoro di magistrato, il suo matrimonio, persino il suo paese. Eppure, quando viene invitato alla Corte penale internazionale dell'Aia a partecipare al processo per un crimine di guerra commesso undici anni prima in ex Jugoslavia, Boom si rende conto di trovarsi di fronte al caso più scivoloso della sua carriera.

Nel 2004, centinaia di rom che vivevano in un campo per rifugiati in Bosnia sono scomparsi nel nulla. Voci di corridoio parlano di un massacro per mano di mercenari al soldo dei serbi o addirittura del governo americano, ma non esiste alcuna prova in merito a questo genocidio. Solo un testimone: Ferko Rinci|, l'unico sopravvissuto che dice di aver visto tutto. Ma è affidabile? E il suo avvocato, Esma Czarni, una splendida donna dall'atteggiamento seduttivo, dice la verità? Boom deve interrogarsi sull'integrità di questi e altri personaggi ambigui legati alla vicenda, ciascuno dei quali non si fa scrupoli nel condurre le indagini a proprio vantaggio…

Dal tribunale dell'Aia ai villaggi e alle città della Serbia, agli incontri segreti a Washington, Boom deve districarsi tra sospetti, organizzazioni criminali, alleanze e tradimenti di tutti coloro che sono coinvolti in questo caso dai contorni sconcertanti.

Scott Turow, autore di grande successo sempre al primo posto nella classifica del "New York Times", ambienta il suo nuovo libro in Europa, mescolando gli elementi del legal thriller con quelli di un romanzo di avventura.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804677512
eBook ISBN
9788852082436

Sesta Parte

KAJEVIĆ
23

Chi va là? – 4-9 giugno

Goos avrebbe voluto informare subito i suoi ex colleghi al Tribunale per l’ex Jugoslavia del fatto che probabilmente avevamo localizzato il criminale di guerra più ricercato dai tempi di Norimberga, ma Attila ci persuase a contattare prima il quartier generale NATO a Sarajevo. Secondo lei, quella era la procedura più corretta, dal momento che loro erano autorizzati ad arrestare Kajević – per la verità, dargli la caccia era forse lo scopo più significativo della presenza NATO in Bosnia – e disponevano della struttura più sicura per mantenere il segreto. Attila, felice come una bambina all’idea di aver acciuffato un criminale di così lungo corso, fece la chiamata di presentazione, alla quale seguirono svariate comunicazioni in codice, soprattutto via SMS, tra Goos, me e diversi ufficiali della NATO. Goos era di pessimo umore, e immaginai che fosse per via del dolore. Dal canto mio, ero banalmente confuso. Il mio cervello sembrava adattarsi a fatica alle notizie esplosive.
Nelle pause, sedevamo tutti e tre nella stanza della colazione, sussurrando tra noi le interpretazioni di quanto era accaduto due notti prima. Alcune conclusioni sembravano abbastanza ovvie. Quando il poliziotto che ci aveva contestato il parcheggio a Madović aveva scoperto che i buzzurri che scattavano foto ai monaci e al monastero erano della Corte penale internazionale dell’Aia, la voce era arrivata ai protettori di Kajević, che avevano dato l’allarme. Il loro piano era probabilmente quello di catturarci al più presto, prima che potessimo riferire quanto avevamo scoperto. Seguendoci da Madović, gli uomini di Kajević erano stati quasi di sicuro testimoni della nostra visita a Ferko, prima di mettere le mani su di noi fuori Vo Selo. Nelle ore in cui avevano atteso il buio per gettarci nella cisterna del sale, qualcuno doveva aver capito che la Corte e il Tribunale per l’ex Jugoslavia, dove Kajević era ricercato, non erano la stessa istituzione. Qualche indagine in loco doveva aver confermato che io e Goos eravamo là per indagare su Barupra, non per catturare l’ex leader dei serbi bosniaci. Per pura coincidenza, la mia concione sul fatto che Ferko non l’avrebbe fatta franca uccidendoci aveva confermato loro che non ci eravamo resi conto di cosa avessimo scoperto. All’ultimo minuto, un vecchio comandante Arkan era corso alla miniera di sale per fermare Nikolaj ed evitare la massiccia caccia all’uomo che il nostro assassinio avrebbe inevitabilmente scatenato.
A partire da queste deduzioni, però, sembrava plausibile che le Tigri di Arkan ci avrebbero tenuti d’occhio per essere sicuri che non capissimo il vero motivo del nostro rapimento. Attila chiamò la sua amica in polizia, che fece qualche giro attorno all’hotel con la sua auto privata e ci confermò che c’erano un paio di tizi appostati in altrettante macchine che sorvegliavano l’albergo. La notizia mi gettò nel terrore e Goos non sembrava tanto più contento, ma concordammo con Attila di aspettare istruzioni dalla NATO prima di fare qualunque cosa avesse tradito la nostra consapevolezza di essere controllati.
Nelle nostre precedenti comunicazioni con i cacciatori di fuggitivi della NATO, avevamo fissato un appuntamento al quartier generale di Attila alla periferia di Tuzla, dove tutti avremmo finto di partecipare a una riunione relativa al nostro lavoro per la Corte. Lasciammo il Blue Lamp alle 18.00. Dalija, l’amica poliziotta di Attila, ci chiamò per avvertirci che eravamo seguiti, a dire il vero in modo assai goffo, da due veicoli che procedevano a breve distanza dal nostro, quasi che fossero dei ritardatari a una processione funebre. Dalija ci assicurò che, a ogni buon conto, stava tenendo tutti sotto controllo.
Il quartier generale di Attila occupava un intero edificio a un solo piano, arredato in modo studiatamente anonimo e delle dimensioni di un piccolo centro commerciale. Il suo ufficio aveva una moquette per esterni color polvere e veneziane a stecche verticali. Sulla scrivania c’erano diverse foto della moglie che Attila diceva di aver conosciuto qui, una bella donna con occhi azzurri e capelli corvini. Gli scatti mostravano le due insieme, in posa accanto ai cavalli e ai cani nella loro fattoria nel Kentucky settentrionale. La vita domestica di Attila, di cui lei non faceva quasi mai parola, appariva in qualche modo incongrua, ma era chiaro che i complimenti sulla bellezza di tutto questo – casa, giardino e moglie – la lusingavano.
«Già» commentò Attila, «è incredibile quanto poco ci metta una povera ragazza ad abituarsi a spendere soldi.»
Poco dopo il tramonto, la delegazione della NATO arrivò a bordo di due pickup che esibivano il logo di una società di costruzioni internazionale. Attila aveva già fatto una decina di chiamate locali con lo scopo di spargere la voce che ci stavamo preparando a scavare alla Cava. I soldati della NATO indossavano jeans, giacche da lavoro antivento e caschi di sicurezza, e tutti e quattro erano dotati di portablocco per gli appunti. Il comandante era un generale norvegese, Ragnhild Moen, ed era accompagnata da tre ufficiali anziani, un olandese, un tedesco e un americano. Era snella e alta quasi un metro e ottanta, con mani incredibilmente lunghe e sottili. Pur non perdendo mai la sua aura di discreta autorità, si dimostrò empatica in maniera disarmante. Disse di avere parenti in Minnesota, dove aveva trascorso un anno durante il liceo, e conservava bei ricordi della Kindle County, che aveva visitato spesso. Il suo gruppo di scambio studentesco aveva incontrato il giudice federale capo, Moria Winchell, che conoscevo bene.
Gli ufficiali della NATO si affollarono attorno al mio tablet ed esaminarono le foto diverse volte. Nessuno mise in dubbio l’identificazione di Attila, soprattutto dopo aver confrontato le mie foto con quelle di Kajević ottenute negli ultimi anni. I quattro parlavano inglese tra loro, quindi per una volta potevo seguire anche io la discussione.
La domanda che tutti si ponevano era se la nostra presenza a Madović o l’iniziale reazione sopra le righe degli sgherri di Kajević fossero state sufficienti a spaventarlo e a indurlo a muoversi. Il monastero era un nascondiglio senza pari, specie negli odierni Balcani, dove i porti sicuri per Kajević erano sempre meno. Essere padrone di quel genere di fortezza sopraelevata rendeva impossibile qualunque azione di polizia o militare su larga scala, giacché non era pensabile entrare a Madović senza essere visti. Al complesso sulla montagna si accedeva attraverso un’unica strada; anche se le truppe l’avessero bloccata e circondato l’area, era quasi certo che – data la lunga storia di persecuzioni ai danni dei monaci – durante i lavori di ricostruzione del monastero fossero state previste vie di fuga sotterranee, probabilmente tramite le cantine. A coronamento di tutto, sebbene entrare nel monastero per arrestare Kajević non fosse illegale in senso stretto, molto probabilmente avrebbe provocato agitazioni, soprattutto in Serbia, dove la Chiesa ortodossa avrebbe gridato alla profanazione di un luogo sacro.
Tutto considerato, secondo il generale era meglio che, almeno per alcuni giorni, ci si dedicasse alla raccolta di informazioni di intelligence a Madović.
«Posso chiedervi di restare in zona?» disse. «Probabilmente avremo altre domande per voi, se si scopre che Kajević non è fuggito.»
Era chiaro che a Goos l’idea non andava a genio: ne aveva abbastanza di Kajević e delle sue Tigri, ma il generale promise di assegnarci una scorta finché fossimo stati in Bosnia, truppe NATO in abiti civili, dal momento che la vista di uniformi militari sarebbe stata sufficiente a indurre Kajević a fare le valigie. Dopo l’altra notte, poi, il fatto che avessimo assoldato delle guardie del corpo private non avrebbe stupito nessuno. In cambio del favore di restare, chiesi al generale di aiutarci a sostituire i passaporti e i cellulari che avevamo perduto.
Al termine della riunione, Attila ci salutò restando sulla soglia: a dispetto dell’entusiasmo iniziale che le aveva dato l’identificazione di Kajević, aveva deciso di non volere che il suo coinvolgimento fosse reso pubblico.
«Devo ancora poter lavorare in questo paese» spiegò. «Ma di qualunque cosa abbiate bisogno in via informale, non avete che da chiedere.»
Quando tornammo al Blue Lamp, trovammo ad attenderci due soldati in jeans e giubbotto antiproiettile, con le pistole ben visibili sul fianco. Sulle prime pensai che gli altri ospiti dell’hotel avrebbero avuto da ridire, invece la considerarono solo un’indicazione del fatto che l’albergo ospitava dei dignitari. Quanto alle armi, la Bosnia era un Far West al pari degli Stati Uniti, dove chiunque poteva portare un’arma senza troppi convenevoli.
Goos era ancora accigliato.
«Amico» disse quando tornammo nella sala da pranzo, «questa non è roba per noi. Non voglio fare la parte dello smidollato, ma Attila ha ragione. Dovremmo pensarci due volte prima di farci conoscere al mondo come i responsabili dell’arresto di quel tizio. Qualche irriducibile metterà una taglia sulla nostra testa.»
Capivo il punto di vista, ma c’erano alcune limitazioni oggettive. Anche solo il breve tragitto dall’ufficio di Attila era stata un’agonia per Goos. Un viaggio di otto ore per l’Aia, con due voli, per non parlare delle pietre di Barupra che avremmo dovuto portare con noi, sarebbe stato proibitivo per almeno un’altra settimana, se si voleva escludere un viaggio in aereo-ambulanza, che Goos non voleva nemmeno prendere in considerazione perché troppo grandiosa e al contempo umiliante.
Trascorremmo il giorno successivo, il venerdì, nel tentativo di lavorare e di dare un senso alle informazioni nelle quali ci eravamo imbattuti durante la settimana appena trascorsa. Molti pezzi non combaciavano, ma le priorità erano bene o male le stesse: (A) prendere accordi per le esumazioni alla Cava; (B) parlare con Ferko; (C) scoprire se le ricerche su Internet potevano aiutarci a indentificare i soldati assegnati all’unità di intelligence militare nell’aprile del 2004 e stabilire se avevano pubblicato qualcosa che potesse far luce su quanto era accaduto a Barupra.
Goos riprese a scandagliare Facebook e YouTube. Il mio lavoro, che non mi entusiasmava, era redigere un rapporto per i nostri capi all’Aia. L’idea era quella di aggiornare i nostri supervisori alla Corte evitando accuratamente di menzionare il rapimento e men che meno l’individuazione di Kajević, dal momento che queste due notizie avrebbero innescato una spirale di eventi fuori dal nostro controllo.
Più tardi, quando ci erano stati da poco consegnati i cellulari sostitutivi, ricevetti una telefonata da Attila. Aveva incaricato uno dei suoi dipendenti rom, uno che – parole sue – viveva «come una persona normale», di raccogliere informazioni su Ferko. L’uomo si era preso la briga di fare un giro a Vo Selo.
«Ferko si è volatilizzato» spiegò Attila. Gli abitanti del posto avevano raccontato che non più di due ore dopo la nostra visita, quattro poliziotti si erano presentati a casa di Ferko e, tanto per cominciare, avevano sparato ai cani, abbattendoli. Secondo il vicino di casa che gli aveva parlato, i poliziotti lo avevano riempito di pugni finché Ferko non aveva sputato il fatto di essere testimone di un caso in cui noi eravamo gli avvocati; aveva giurato di non voler avere più niente a che fare con noi, il che aveva ulteriormente corroborato l’ipotesi che io e Goos non stessimo cercando Kajević. Probabilmente questo aveva indotto il comandante di Nikolaj a correre alla cisterna ed evitare il nostro assassinio. A Vo Selo, non appena i poliziotti se ne furono andati, Ferko e la sua famiglia avevano stipato quattro automobili con tutto ciò che avevano potuto e, secondo il vicino, avevano preso il volo per sempre.
«Idee sulla destinazione?» chiesi.
«Nessuna» rispose Attila. «A quanto pare, ha preso a martellate il suo cellulare direttamente sul posto, per evitare di essere reperito. Ho il numero, se vuoi provare.»
Andai a raccontare tutto a Goos che stava lavorando nella sala della colazione. Seduto all’altro capo del tavolino bianco, composi il numero che Attila mi aveva dato, e ottenni solo un lungo messaggio nella variante bosniaca del serbo-croato. Porsi il telefono a Goos.
«Non operativo?» chiesi quando riattaccò.
«Disconnesso.»
«Merda.» Il fatto che Ferko fosse scappato per salvarsi la vita, forse dopo aver avuto a che fare con il capo di Nikolaj e altri membri delle Tigri di Arkan, non necessitava di spiegazioni, specie per noi. Goos, però, era ancora perplesso su Ferko.
«Qui mi perdo» disse Goos. «Tanto per cominciare, perché ha dovuto raccontare quella storia, per non parlare del fatto che ha spostato le ossa e ha seminato proiettili per farci credere che fosse tutto vero?»
Non capivo se quella fosse una domanda retorica.
«Pensi che Esma abbia orchestrato tutto questo?»
«Mi chiedo perché avrebbe dovuto, amico, per Esma o per chiunque altro. Ecco cosa penso.»
«Forse perché è successo davvero? Forse ha perso qualcuno a cui teneva e voleva che venisse fatta giustizia?»
«Quell’uomo con i cani e gli anelli ti dà l’idea di un cittadino modello? Ha raccontato quella storia, vera o falsa che sia, per un tornaconto personale, ma mi venga un colpo se capisco...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA TESTIMONIANZA
  4. Prologo. 5 marzo 2015
  5. Prima Parte. L’AIA
  6. Seconda Parte. IN MOVIMENTO
  7. Terza Parte. BOSNIA
  8. Quarta Parte. PER GLI ATTI UFFICIALI
  9. Quinta Parte. GUAI
  10. Sesta Parte. KAJEVIĆ
  11. Settima Parte. NELLA CAVA
  12. Ottava Parte. INFRANGERE LA LEGGE
  13. Nota dell’autore
  14. Copyright