Kit non aveva mai pensato che un giorno avrebbe messo piede in un Istituto Shadowhunter. Adesso, invece, aveva già mangiato e dormito in ben due di essi. Se continuava così, ci avrebbe preso l’abitudine.
L’Istituto di Londra era esattamente come se lo sarebbe immaginato, se mai glielo avessero chiesto, cosa che a dire il vero non era mai successa. Collocato all’interno di un’immensa chiesa antica, di pietra, mancava della modernità splendente propria invece della sua controparte losangelina. Sembrava che nessuno lo avesse mai rinnovato da ottant’anni a questa parte: le stanze erano dipinte con colori pastello in stile edoardiano, che nel corso degli anni si erano sbiaditi diventando tenui e opachi. L’acqua calda andava e veniva, i materassi erano pieni di bitorzoli e la polvere ricopriva le superfici della maggior parte dei mobili.
A quanto pareva, stando agli stralci di conversazioni che aveva origliato, un tempo quell’Istituto ospitava molte più persone. Durante la Guerra Oscura, però, Sebastian Morgenstern lo aveva attaccato e gran parte dei suoi inquilini non erano più tornati.
Il capo dell’Istituto sembrava quasi vecchio quanto l’edificio stesso. Si chiamava Evelyn Highsmith. Kit aveva avuto l’impressione che gli Highsmith fossero pezzi grossi nella società degli Shadowhunter, anche se non grossi quanto gli Herondale. Evelyn era una donna sull’ottantina, alta, autoritaria e con i capelli bianchi, che indossava lunghi abiti anni Quaranta, girava con un bastone da passeggio dal pomo d’argento e a volte parlava con gente che non c’era.
Sembrava che nell’Istituto vivesse una sola altra persona: Bridget, la domestica, anziana quanto la sua signora. Aveva i capelli tinti di un rosso intenso e mille rughe sottili. Inoltre spuntava sempre in luoghi inaspettati, un vero intralcio per Kit, che era di nuovo a caccia di possibili oggetti da rubare. Con scarso successo: quasi tutte le cose che sembravano di valore erano mobili, e non aveva idea di come fare a sgattaiolare fuori dall’Istituto trafugando una credenza. Le armi erano riposte accuratamente sotto chiave, lui non avrebbe saputo mettersi a vendere candelieri per strada e le preziose prime edizioni ospitate nell’enorme biblioteca erano state in gran parte scarabocchiate da qualche idiota di nome Will H.
La porta della sala da pranzo si aprì. Era Diana, che si teneva un braccio: Kit aveva scoperto che certe ferite degli Shadowhunter, soprattutto quelle che avevano a che fare con sangue di demone o icore, guarivano lentamente malgrado le rune.
Livvy drizzò la testa alla vista della tutor. La famiglia si era riunita per la cena, servita sul lungo tavolo di un’immensa sala da pranzo vittoriana. Una volta il soffitto era affrescato con degli angeli, ma già da tempo la polvere e le macchie di bruciato li avevano coperti quasi del tutto. «Hai avuto notizie da Alec e Magnus?»
Diana fece di no con la testa mentre prendeva posto di fronte a Livvy, con indosso un vestito azzurro che aveva tutta l’aria di essere uscito dal set di una serie televisiva in costume della BBC. Anche se erano scappati dall’Istituto di Los Angeles senza portarsi alcun effetto personale, avevano scoperto che lì a Londra c’era una collezione di vestiti accumulati nel corso di anni, il più recente dei quali risaliva probabilmente al 1940. Evelyn, Kit e la famiglia Blackthorn sedevano attorno al tavolo sfoggiando i look più disparati: Ty e Kit indossavano pantaloni e camicie a maniche lunghe; Tavvy una maglietta di cotone a righe e dei calzoncini; Drusilla un vestito di velluto nero che l’aveva conquistata per il suo fascino gotico. Diana invece aveva rifiutato qualsiasi tipo di indumento in prestito e si era semplicemente lavata a mano i suoi jeans e la sua maglietta.
«E il Conclave?» chiese Ty. «Hai parlato con il Conclave?»
«Quelli servono mai a qualcosa?» mormorò fra sé Kit. Era convinto che nessuno lo avesse sentito, invece qualcuno doveva esserci riuscito, perché Evelyn scoppiò a ridere. «Oh, Jessamine» disse, senza rivolgersi a nessuno. «Suvvia, non rientra nei canoni del buon gusto.»
I Blackthorn si scambiarono sguardi perplessi. Nessuno però fece commenti, perché Bridget era appena spuntata dalla cucina portando piatti fumanti di carne e verdure, entrambi bolliti fino a far perdere loro ogni sapore.
«È che proprio non capisco perché non possiamo tornare a casa» disse Dru triste. «Se i Centurioni hanno sconfitto tutti i mostri marini, come hanno detto…»
«Non significa che Malcolm non tornerà » rispose Diana. «Lui è in cerca di sangue di Blackthorn, perciò voi ve ne starete dentro queste mura, fine della discussione.»
Kit era svenuto durante quella cosa orribile che chiamavano viaggio tramite Portale – un tremendo vorticare attraverso un nulla assolutamente glaciale – quindi si era perso la scena che doveva essersi verificata quando erano comparsi nell’Istituto di Londra, senza Arthur, e Diana che spiegava che erano lì per restare.
La tutor aveva contattato il Conclave per informarli delle minacce dello stregone, ma Zara l’aveva preceduta. Apparentemente aveva assicurato al Consiglio che i Centurioni avevano tutta la situazione sotto controllo, che loro erano più forti di lui e del suo esercito, e il Conclave era stato felice di crederle sulla parola.
E come se le rassicurazioni di Zara avessero compiuto il miracolo, Malcolm non si era più fatto rivedere, e nessun demone aveva fatto visita al litorale occidentale degli Stati Uniti. Erano passati due giorni, e non erano giunte notizie di disastri.
«Odio l’idea che Zara e Manuel siano all’Istituto senza noi lì a tenerli d’occhio» esclamò Livvy, sbattendo la forchetta sul tavolo. «Più tempo ci restano, più potranno giustificare il fatto che la Coorte se lo prenda.»
«Ridicolo» fece Evelyn. «È Arthur che dirige l’Istituto. Non essere paranoica, ragazza» disse con il suo caratteristico accento britannico.
Livvy trasalì. Anche se a quel punto tutti, persino Dru e Tavvy, avevano ricevuto le informazioni del caso – tra cui la malattia di Arthur e la verità su dove fossero veramente Julian e gli altri –, era stato deciso che per Evelyn fosse meglio non sapere. Non era un’alleata; non aveva motivi per mettersi dalla loro parte, anche se sembrava palesemente disinteressata alle politiche del Consiglio. Anzi, dava l’impressione che, per la maggior parte del tempo, non li stesse nemmeno ad ascoltare.
«Stando a quello che dice Zara, Arthur è rimasto chiuso a chiave nel suo ufficio da quando ce ne siamo andati» disse Diana.
«Avrei fatto anch’io la stessa cosa, se fossi stata costretta a sopportarla» commentò Dru.
«Continuo a non capire perché Arthur non sia venuto con voi» disse Evelyn indignata. «Lui ci viveva, in questo Istituto. Avrei pensato che una visita non gli sarebbe dispiaciuta.»
«Guarda il lato positivo, Livvy» riprese Diana. «Quando Julian e gli altri torneranno da… da dove sono, probabilmente andranno dritti a Los Angeles. Vorresti che trovassero l’Istituto deserto?»
Livvy pungolò il cibo con la forchetta e non disse nulla. Era pallida, tirata, con delle ombre violacee sotto gli occhi. La sera dopo essere arrivati a Londra, Kit aveva attraversato il corridoio chiedendosi se magari lei avesse voglia di vederlo, ma quando aveva alzato una mano per bussare alla sua porta l’aveva sentita piangere. Si era girato ed era tornato indietro, provando una strana morsa al petto. Nessuno che stesse piangendo a quel modo poteva desiderare qualcuno vicino, soprattutto non uno come lui.
Avvertì la stessa morsa quando, guardando Ty dall’altra parte del tavolo, si ricordò di come lui gli avesse guarito la mano. Di quanto fosse stata fredda la sua pelle. Ty era teso a modo proprio: il trasferimento all’Istituto di Londra aveva rappresentato un notevole fattore di disturbo della sua routine quotidiana, e si vedeva che lo turbava. Passava molto tempo nella palestra, stanza disposta in maniera quasi identica a quella di Los Angeles. A volte, quando era particolarmente stressato, Livvy gli prendeva le mani e gliele sfregava con decisione; sembrava che quella pressione gli desse stabilità . Nonostante ciò, in quel momento Ty era nervoso e distratto, come se, in un certo senso, si fosse rinchiuso in se stesso.
«Potremmo andare in Baker Street» disse Kit ad alta voce, senza nemmeno rendersene conto. «Siamo a Londra.»
A quell’affermazione Ty alzò lo sguardo, e i suoi occhi grigi brillarono. Aveva spinto via il cibo: Livvy aveva spiegato a Kit che Ty ci metteva molto tempo prima di abituarsi a cibi e sapori nuovi. Per il momento si nutriva solo di patate. «Baker Street, civico 221B?»
«Quando avremo chiarito tutta la questione di Malcolm» li frenò Diana. «Fino ad allora, non voglio Blackthorn fuori dall’Istituto, e neppure Herondale. Non mi è piaciuto come ti guardava Malcolm, Kit.» Si alzò. «Io adesso vado in salotto, devo mandare un messaggio di fuoco.»
Quando la porta si chiuse alle sue spalle, Tavvy, che stava guardando lo spazio vuoto accanto alla sua sedia in un modo che Kit trovava francamente allarmante, si mise a ridacchiare. Si girarono tutti verso di lui, stupiti; negli ultimi tempi, il più giovane dei Blackthorn non aveva riso molto.
Come biasimarlo, d’altronde. Julian era quanto di più simile avesse a una figura paterna. Lui stesso sapeva cosa volesse dire sentire la mancanza del proprio padre, e non aveva sette anni.
«Jessie» disse Evelyn in tono di rimprovero, e per un attimo Kit si guardò davvero attorno, come se la persona a cui l’anziana signora si stava rivolgendo fosse realmente nella stanza con loro. «Lascia in pace il piccolo. Non ti conosce nemmeno.» Guardò i commensali. «Pensano tutti di essere bravi con i bambini. Pochi capiscono quando non lo sono.» Diede un morso a una carota. «Io, per esempio» aggiunse masticando. «Mai stata in grado di sopportarli.»
Kit alzò gli occhi al cielo. Tavvy guardò Evelyn come se stesse prendendo in considerazione l’idea di lanciarle un piatto.
«Dru, porta pure Tavvy a dormire» si affrettò a dire Livvy. «Credo che qui abbiamo tutti finito con la cena.»
«Certo, perché no? Come se questa mattina non gli avessi trovato dei vestiti da mettere o ieri sera non lo avessi già messo a letto io. Tanto varrebbe fare la serva» ribatté la sorella prima di strappare Tavvy alla sua sedia e uscire a passo deciso dalla stanza trascinandoselo dietro.
Livvy si prese la testa fra le mani. Ty la guardò. «Guarda che non devi prenderti cura tu di tutti.»
Lei tirò su con il naso e lanciò al gemello un’occhiata obliqua. «È solo che… Senza Jules, sono io, qui, la più grande. Anche se di pochi minuti.»
«È Diana la più grande» rispose lui. Nessuno citò Evelyn, che si era messa un paio di occhialetti sul naso e ora stava leggendo un giornale.
«Ma lei ha molto da fare oltre a occuparsi di noi. Voglio dire, oltre a occuparsi delle piccole cose» disse Livvy. «Prima non avevo mai pensato a tutto quello che Julian fa per noi, però è davvero tanto. Riesce sempre a far funzionare ogni dettaglio, si prende cura di noi e io non so nemmeno come…»
A un tratto si udì, sopra le loro teste, un suono simile a un’esplosione. Ty impallidì. Si capiva che lui quel suono lo aveva già sentito in passato.
«Livvy» disse. «La Sala degli Accordi…»
Ora il suono ricordava meno un’esplosione e più un tuono, un tuono irruente che si stava impossessando del cielo. Come di nuvole che venivano squarcia...