Chiamiamoli ladri
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Chiamiamoli ladri

L'esercito dei corrotti

  1. 112 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Chiamiamoli ladri

L'esercito dei corrotti

Informazioni su questo libro

Tutti traditori, tutti ladri, noi italiani?

A scorrere le graduatorie mondiali sulla «corruzione percepita», il nostro Paese è la Silicon Valley dove si brevettano i marchingegni più fantasiosi in materia. Non per combatterla, ma per praticarla. Insomma, oltre che il luogo del pianeta con il maggior numero di siti dell'Unesco intesi come patrimonio materiale dell'umanità, il nostro Paese è anche quello del patrimonio immateriale del «se pò ffa'» in barba alla legge, un'attitudine che siamo usi chiamare furbizia mentre è arte perversa del furto con destrezza.

Se vogliamo provare a contrastare, o almeno a limare, questo odioso costume nazionale, dobbiamo capire che corrotti, concussi, bustarellari - l'intera fauna dei voraci percettori abusivi di quote di Pil - sono solo diverse incarnazioni della disonestà. Ma per cambiare le cose, per redimerci davvero, abbiamo il dovere di sentirci tutti un po' ladri, anche quando accettiamo, per esempio, di pagare per poter anticipare un esame o un intervento chirurgico in ospedale. Invece, pur smascherati nella nostra ipocrisia, ci assolviamo per il semplice fatto di essere minuscoli pesciolini che nuotano sentendosi innocenti per aver cercato di esercitare un diritto negato dai pescecani.

Con queste pagine affilate e corrosive Vittorio Feltri vuole inocularci il benefico virus dell'inquietudine, per scalfire la nostra cronica amoralità e rivelare la nostra, spesso inconsapevole, complicità. Così da essere nemici di ladri e ladroni non in modo iroso ed episodico, ma avvertito e sistematico. Ostili, in particolare, al miserabile ladruncolo che alberga in ognuno di noi, e che ci rende fiacchi nel ripulire la politica e la società intera da questo diffuso fenomeno canceroso. Dunque, nessun coltello tra i denti, nessun cappio in mano, agitato di solito dal più mascalzone di tutti. Ma una lieve e salutare scossa per non addormentarci pensando di avere la coscienza a posto.

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IV

Dentiere pazze

Dopo venticinque anni ritornano i ladri. Ma forse non se n’erano mai andati – Analisi odontoiatrica del vizio di rubare. Le dentiere d’oro parlano per bocca della Signora Mandrake, detta «cucciola». E rivelano come un brav’uomo si trasforma in un percettore di tangenti che cerca di sgraffignare denaro anche dagli ospedali per i bambini poveri senza sentirsi in colpa – La morale del molare: in Italia se ci fosse un concorso, al ballottaggio finale non se la giocherebbero delinquenti e onesti, ma ladri e un po’ meno ladri, e vincerebbe il terzo settore, la zona grigia, che guarda e tace, aspettando di vedere come va a finire. Sperando di essere come Giorgio Ambrosoli.

Venticinque anni dopo, la sciùra delle dentiere

Sono passati venticinque anni dalla grande paura. Il romanzo di Alexandre Dumas che oggi si definirebbe il «sequel» dei Tre moschettieri si intitola Vent’anni dopo. Ed è molto triste. Idem il proseguo di Mani pulite. Il clangore delle manette si è perduto nella nebbia dei ricordi. Ma il furto è rimasto a dominare il campo della vita sociale. Nel primo capitolo abbiamo spiegato che la Sanità è il territorio prediletto. Appunto. Siamo nel sistema cavernoso delle Asl. Entriamoci con una bella intercettazione, molto espressiva.
«S’è fatto fare il Progetto dentiere, el ciapa utantamila euro l’ann per non fare un cazzo. Lo tengo altro che buono, più buono di così… Lui prende i soldi e io lavoro.» La sciùra delle dentiere, Paola Canegrati, di Monza, ha una parlantina come quella di Franca Valeri nel capolavoro di Dino Risi Il vedovo. Il film è del 1959, la Canegrati è nata due anni dopo, nel 1961. Il cliché è sempre quello, però. Il vero uomo d’affari è la donna. «Non lo mando a cagare giusto perché [l’appalto di] Busto me l’ha fatto prendere lui, eh. Una parte gliela dovrò dare.» Il destinatario dell’invito ad assecondare rapidamente le proprie effervescenze intestinali è il politico che lei olia e a cui regala la strategia verso appalti milionari, in tutto sui 400 milioni, non proprio robetta, e i cui profitti si spartiranno sulla pelle, anzi sulle gengive dei cittadini lombardi.
È lei, è la Canegrati la donna che comanda, che ha l’inventiva e crea la grana, che corre dovunque, si sbatte, parla in dialetto coi colleghi commendatori, e si vergogna del «cretinetti», dell’Alberto Sordi di turno che le tocca mantenere. La differenza è che la Franca Valeri non rubava, e invece la Paola Canegrati munge liquidi dalla Sanità, più precisamente dalle casse della Regione Lombardia. Non pare però abbia maturato in sé l’idea di aver rubato. Si è semplicemente arrangiata per affermare un principio meritorio e progressista: le dentiere sociali, le dentiere per i poveri, specie anziani. Il tutto in alleanza con uno stimatissimo consigliere regionale leghista, medico anestesista, ottima persona, un benefattore dell’umanità, Fabio Rizzi, detto Fabione. Il quale, dopo essersi occupato dei vecchi sdentati, grazie ai quali si era rimpinguato la dispensa con «pezzettoni» (così la sua compagna chiamava i biglietti da 500 euro stipati in casa), aveva rivolto con il suo tuttofare di nome Mario Valentino Longo l’attenzione ai bambini poveri del Terzo Mondo, ed era balzato come un alter ego di Madre Teresa su un progetto per creare coi soldi regionali un ospedale pediatrico in Brasile, nello Stato del Goiás, ubbidiente alla morale del Carroccio: bisogna aiutarli al loro Paese. Che problemi ci sono se da quel progetto fantastico, un nosocomio sul modello del Buzzi di Milano, contava – ad ascoltare le intercettazioni – di limar via un paio di milioni di euro per sé e per il fidato collaboratore maneggione, nonché bravissimo a creare società all’estero, in Lussemburgo, a Panama, dove capita, capita? Prima era la politica ad avere i suoi costi, adesso c’è da pagare il mutuo, e se non pago il mutuo, come faccio ad avere la testa libera per costruire eccellenze sanitarie nel Mato Grosso? Il bene ha i suoi costi, non è vero?
Trascrivo da verbali pubblici. A domanda della fidanzata Lidia Pagani, Rizzi risponde che percepisce circa 8000 euro di stipendio e specifica che di questi ne versa 1500 alla Lega Nord e 5000 di mutuo. Pagani si propone di aiutare Rizzi a pagare il mutuo e lui dice che è in attesa che arrivi «qualche affare societario». «Dall’ospedale brasiliano» spiega Rizzi «potrebbero venir fuori un paio di milioni a testa.» «Ne basterebbe uno…» lo modera la signora. «No? Facciamo uno… anche mezzo basta! Non ti risolve la vita ma ti alleggerisce tutto. Anche mezzo milione di euro basterebbe. E poi altri affari?» «Una compravendita di zucchero per la Russia… quello lì potrebbe essere una milionata da dividere in tre.» «Beh sputaci sopra» commenta lei «sono trecentomila a testa… E già con quei due, col mezzo più trecento sei a posto. Giusto? No, non dico che copri tutto il mutuo, però una parte sì. Il piccolo lo riesci a estinguere.»
Poi, la cronaca registra lacrime di Rizzi davanti ai pm: «Non ho mai rubato un soldo. Con la politica ci ho rimesso». E ne è convinto. Ha agito per il bene, sempre. Perché ha fatto così? Come mai ha pensato fosse corretto questo modo di essere, e che infilare denari nel freezer non fosse un modo per occultare una porzione di bottino, ma semplicemente una precauzione igienica? E lucrare sulle malattie dei bambini fosse un business come un altro?
Prima di addentrami nella storia di questa simpatica banda, sgominata il 16 febbraio 2016 per iniziativa della Procura di Monza, faccio come i navigatori di una volta: sotto le stelle nell’oceano con barca a vela, cerco di fissare la posizione con l’astrolabio per situarmi nel mondo, longitudine e latitudine. Dove sto portando me stesso e i miei lettori con questo libretto?
Caratteristica dei pamphlet è che si scrivono mentre le cose accadono. E qui stanno accadendo due cose. Una si riferisce all’oggetto del mio vergare: il furto di denaro e patrimonio pubblico. E di sicuro mentre scrivo e voi leggete, la grassazione continua, i ladri di Stato non hanno deposto la mascherina. La seconda è che il dibattito sulla corruzione in Italia è al diapason, con effetti depistanti, poiché vi partecipano, in proprio o tramite ventriloqui, anche i ladri.
Che dire? Benvenuto casino. E il qui presente pamphlet ci si tuffa. Non con intenti moralizzatori, non ho il pulpito idoneo, ma allo scopo di disturbare il lavoro delle squadre di normalizzatori, ingaggiati onde cancellino le tracce degli scandali, occultando tutto, carnefici e vittime delle razzie, così da regalare al popolo la pace del cimitero. Mi oppongo non per ragioni morali e neppure estetiche, ma per evitare la noia: meglio la pugna del mortorio. Lo scrisse Tacito: «Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant». Hanno creato un deserto, e lo chiamano pace. Spargono anestetici.
La pasticca delle pasticche, il siringone perfetto per sedare qualcuno che casomai si agitasse troppo e contagiasse le masse popolari, è stato brevettato un paio d’anni fa, precisamente il 24 giugno 2014, e si chiama Anac, Autorità nazionale anticorruzione. Ottimo capo, Raffaele Cantone di certo non era consapevole di essere stato assunto come capoanestesista. Stesso ruolo che, nella Repubblica islamica del Pakistan, svolge il ministro per la libertà di culto delle minoranze. Si chiama alibi. Facendo essere istituzionale l’«anti», dà potenza istituzionale alla controparte. Il linguaggio dice tutto: autorità significa comando, potere, forza. Poi si aggiunge quella parola ormai evanescente, come le polvere sottili: «corruzione», che sembra la formula magica di Morfeo. Il messaggio è: la situazione è sotto controllo. Si ruba, ma c’è Cantone. Furti in corso? Intanto l’Autorità prepara e fa sottoscrivere dei regolamenti meravigliosi e trasparenti, non sfuggirà più nulla allo sguardo puntuto dell’Anac. Una fiaba per bambini tonti, che le cronache stracciano all’alba del 13 ottobre 2015. Accade che, mentre stava facendosi la barba per precipitarsi alla giornata della Trasparenza, già dotato di un severo discorso contro la corruzione, estirpata grazie a regole nuove e perfette stabilite da lui in concorso con l’Anac, il vicepresidente della giunta regionale lombarda è arrestato per tangenti, che avrebbe intascato (uso il condizionale, è presunto innocente!) sotto forma di servizi architettonici alla di lui magione, effettuati sottocosto dal professionista per riconoscenza di un incarico o di un appalto ricevuto.
Il campo però, mentre con la mia barchetta-pamphlet mi muovevo nell’oceano del latrocinio, si è fatto turbolento alquanto, a causa delle folgori scagliate da Piercamillo Davigo. Il quale, assurto a posizione pubblica nel 2016 come leader eletto del sindacato dei magistrati (Anm), ha buttato giù il paravento ed è apparsa in mutande la realtà verace del nostro Paese, alla faccia dell’Anac: i briganti ci circondano, i ladri stanno tuttora razziando il nostro territorio.

Le Regioni come associazioni per delinquere

È un fatto. Da Tangentopoli in poi il furto si è esteso dai grandi centri politici alle periferie più sperdute. Non si capisce chiaramente perché. Ma è un fatto che non si salva nessun partito di qualsiasi seme. Le Regioni sono diventate associazioni per delinquere.
Avevo ingaggiato Davigo come guida gratuita nella spelonca dei ladri (vedi capitolo precedente), ed ecco, le sue argomentazioni piuttosto salaci sono diventate oggetto di polemiche furibonde. Come sempre si critica, anzi si morsica, il dito che indica i soprusi e i costumi depravati di molta classe politica e della sua variegata clientela bisognosa di favori e appalti, piuttosto che prenderne atto e farsi un esame di coscienza generale. Perché i politici alla fine non sono calati dal cielo per volere divino. Qualcuno li ha votati, dunque voluti, anche se notoriamente amici di Pietro Gambadilegno. Ed è inutile fingere d’ignorare di che cosa viva la Banda Bassotti.
Dinanzi a questo panorama che la Guardia di Finanza fotografa, reputando che un terzo degli appalti pubblici siano viziati dall’illegalità, ci domandiamo di nuovo perché. Perché siamo così, e proprio da noi va così?
Tantissimi dirigenti della Pubblica amministrazione, politici o burocrati, soffrono di una specie di tic, un’impossibilità a contenersi, come nel film Chi ha incastrato Roger Rabbit accade al coniglio che non riesce a trattenersi, e se uno canta: «Ammazza la vecchia…», lui deve per forza concludere «… col flit», facendosi beccare.
Michele Ainis, costituzionalista serio e scrittore arguto, fornisce un elenco di volgari scippi promossi sotto l’egida magnifica dell’onestà conclamata.
«Il vicepresidente della Regione, Mario Mantovani, è stato arrestato per tangenti mentre era atteso alla Giornata della Trasparenza. A Palermo Roberto Helg, paladino della lotta al racket, ha ricevuto una condanna per estorsione aggravata. A Bari il pm Donato Ceglie, icona della lotta alle ecomafie, è stato sospeso dal Csm per i suoi rapporti con i clan. A Napoli giravano bustarelle nei concorsi per entrare alla Guardia di Finanza. Mentre a Roma l’inchiesta su Mafia Capitale non ha cambiato d’una virgola il copione: tangenti sugli appalti dell’Anas, sui condoni urbanistici rilasciati dal Comune, perfino sulle sentenze delle Commissioni tributarie, che dovrebbero punire la corruzione fiscale.»
Aggiunge: «Ne sanno qualcosa pure in Vaticano, dove papa Francesco s’è visto costretto a correggere le norme sui processi di beatificazione e canonizzazione: troppe pratiche truccate. Ma trucchi e raggiri si moltiplicano fuori dalle Mura leonine, come una pioggia acida che bagna lo Stivale». Continua ricordando «il caso di un’addetta del 118, che tardava a chiamare l’ambulanza dovendo prima avvertire una società di carro attrezzi, dalla quale incassava percentuali per ogni segnalazione. A Messina 23 consiglieri comunali su 40 hanno imbastito una truffa sui gettoni di presenza. A Macerata s’aprirà un processo per corruzione attorno ai chioschi del cimitero. Insomma, nemmeno i morti possono restare immacolati. D’altronde in Italia un appalto su tre viene assegnato in modo irregolare, dichiara la Guardia di Finanza nel suo ultimo rapporto». La quale peraltro non sta tanto meglio neppure lei, e verrebbe voglia di citare il Vangelo: «Medico cura te stesso» a proposito di tutti i purificatori. Conclude Ainis: «La domanda è: ma quale linfa nutre il malaffare?». Lui risponde: l’eccesso di leggi e norme, che alimenta «l’arbitrio delle burocrazie, ed è questo potere dispotico e indomabile la prima fonte della corruzione».
Così, accanto alla ricetta di Cantone «codice etico, ma forte», ecco quella di Ainis, «meno leggi». Se ricordate bene, io ne avevo proposta una sola: settimo, non rubare. Dunque, d’accordo, smagriamo il codice, disboschiamo regolamenti e circolari. Ma siamo daccapo. Se molte leggi aiutano il furto, ed essendo accertato che tra i politici e i burocrati dominano i ladri, perché meno leggi dovrebbero semplificare? Ma poi è proprio così sicuro? A quale numero di leggi, i politici e i burocrati diventano onesti? Diecimila? Tremila? Da noi il malaffare – sono pronto a scommetterci – prospererebbe anche se di leggi ce ne fossero cinque o sei. Inoltre: non è che nel Far West, privo di norme tranne quella del cappio, ci fosse per questo meno disposizione all’abigeato e alla rapina delle diligenze.
Del resto, in Vaticano non ci sono molte leggi, mi pare vigano le tavole mosaiche, e il codice etico è rigorosissimo. Ma a quanto denunciano i documenti di Vatileaks e ammette il Santo Padre, si ruba a mani basse. San Pietro individuò il rimedio fulminando Anania e la moglie Saffira (Atti 5,1-11) che rubavano sulla beneficenza. Ora il successore Francesco preferisce la misericordia. Ma i risultati latitano ancora dopo duemila anni.
Forse, più che perdere tempo studiando la pozione da Mago Merlino con cui estirpare definitivamente la mala pianta dei ladri, occorrerebbe accontentarsi di fare quel che si può, evitando di spostare la questione più in là, al tempo del mai, a quando cioè si sarà trovata la bomba H della soluzione finale, la famosa Apocalisse con abbinato il giudizio universale. Intanto, la mia proposta sarà minimalista, ma non ne vedo altre: provare a prendere i ladri a uno a uno. E per facilitare il compito di carabinieri e pm, asciugare le acque tossiche della complicità dovuta all’ignoranza e alla paura di vendette; smagare la favoletta della superiorità morale di certi partiti e corporazioni, fedi religiose o ideologiche; smontare il mito dell’esistenza di qualcuno al di sopra di ogni sospetto. Non ci sono reputazioni di vita immacolata che garantiscano di per sé dalle cadute nel letamaio: la tentazione afferra chiunque, per ragioni che restano ignote, a prescindere dal fatto di essere cresciuti fra i terziari francescani o tra predoni kosovari. Lombroso rintracciò in certi bitorzoli e nelle proporzioni del cranio un criterio di selezione di onesti e disonesti, altri si tuffano nella genetica, nella sociologia. Io do molto peso alla buona e alla cattiva educazione. Ma poi esiste la libertà, il libero arbitrio. E certe cose si possono solo raccontare con un po’ di amara ironia, senza pretendere di trovare le sorgenti del Male e di bonificarle. Ci provò Robespierre, e non voglio fare la sua fine.
Ricordiamoci: neppure noi siamo immuni dalla ladrite, non esiste il vaccino che annulli la capacità di fare quel che non si deve fare. Credo che in realtà esista: si chiama lobotomia. Esigo di mantenere la facoltà di rubare la mela dall’albero, con Eva o senza.
Credo piuttosto che l’antifurto culturale più utile siano la paura dei carabinieri e l’alta probabilità di essere beccati. E di essere dopo di ciò tacciati, con tutte le clausole garantiste del mondo, di ladri con ceralacca e sigillo.
Purtroppo la questione sollevata da Davigo sulla costante italiana dello sgraffignamento è stata trasferita nell’accademia dei rapporti tra i poteri costituzionali. Chi invade chi. Se siano più le toghe a schiacciare i piedi ai ministri e ai capi politici, o viceversa. Insomma, una disquisizione di certo interessante per diatribe intellettuali, ma senza conseguenze utili per la gente assiepata negli androni degli ospedali, dove si deve ritirare il numeretto per sapere se la Tac o l’ecografia la farai dopo morto.

La giudicessa e la prefetta. Un caso di solidarietà femminile

Il risultato di questo dibattito che appassiona solo chi lo fa non è il dare in testa ai ladri, magari con più rispetto delle procedure dell’habeas corpus (il diritto di essere accusati in pubblico e di difendersi con pari strumenti), ma un cozzare rumoroso di caste e corporazioni.
Ritengo modestamente che gli invasori di cui sarebbe più urgente sbarazzarsi non siano i magistrati ma i ladri, i quali peraltro non mancano ne...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Chiamiamoli ladri
  4. I. Ladri
  5. II. Storia del furto all’italiana
  6. III. La torta e il tonno
  7. IV. Dentiere pazze
  8. V. La banca del buco
  9. Copyright