La campana di vetro
eBook - ePub

La campana di vetro

e sei poesie da Ariel

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La campana di vetro

e sei poesie da Ariel

Informazioni su questo libro

Brillante studentessa di provincia vincitrice del soggiorno offerto da una rivista di moda, a New York Esther si sente «come un cavallo da corsa in un mondo senza piste». Intorno a lei, l'America spietata, borghese e maccartista degli anni Cinquanta: una vera e propria campana di vetro che nel proteggerla le toglie a poco a poco l'aria. L'alternativa sarà abbandonarsi al fascino soave della morte o lasciarsi invadere la mente dalle onde azzurre dell'elettroshock. Fortemente autobiografico, La campana di vetro narra con agghiacciante semplicità le insipienze, le crudeltà incoscienti, gli assurdi tabù che spezzano un'adolescenza presa nell'ingranaggio stritolante della normalità che ignora la poesia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804670339
eBook ISBN
9788852081651

LA CAMPANA DI VETRO

Traduzione di Adriana Bottini
Per Elizabeth e David

Capitolo I

Fu un’estate strana, soffocante, l’estate in cui i Rosenberg1 morirono sulla sedia elettrica, e io ero a New York e mi sentivo come un’anima persa. Io le condanne a morte non le reggo. L’idea della sedia elettrica, poi, mi fa star male fisicamente, e i giornali non parlavano d’altro: titoloni che mi guardavano fisso a ogni angolo di strada e all’imboccatura di ogni stazione della metropolitana con quell’odore di noccioline stantie. Non che mi riguardasse, ma non potevo fare a meno di domandarmi che effetto faceva, essere bruciati vivi lungo tutti i nervi.
Deve essere la cosa più orrenda che esiste, pensavo.
New York era uno schifo. Alle nove di mattina la frescura finto-agreste che bene o male stillava durante la notte era già evaporata come le scene finali di un bel sogno. Grigie come miraggi sul fondo dei loro canyon di granito, le strade roventi tremolavano al sole, i tetti delle macchine sfrigolavano e luccicavano e la polvere secca come cenere mi entrava negli occhi e in gola.
A furia di sentir parlare dei Rosenberg alla radio e in redazione, non riuscivo più a togliermeli dalla testa. Come la prima volta che avevo visto un cadavere. Dopo, per settimane, la sua testa (o quello che ne restava) aveva continuato ad affiorare dietro le uova e pancetta a colazione e dietro la faccia di Buddy Willard, che era poi quello che mi aveva fatto vedere il cadavere, e alla fine avevo l’impressione di portarmela dietro dappertutto legata a uno spago, come un palloncino nero senza naso, puzzolente di aceto.
Mi rendevo conto che c’era qualcosa che non andava in me quell’estate, perché non riuscivo a pensare ad altro che ai Rosenberg, e a come ero stata stupida a comprarmi tutti quei vestiti scomodi e costosi, che adesso pendevano flosci come pesci nell’armadio, e a come tutti i piccoli successi che avevo così facilmente totalizzato al college si riducessero in niente davanti alle lustre facciate di marmo e cristallo di Madison Avenue.
In teoria avrei dovuto divertirmi da pazzi.
In teoria, avrei dovuto essere l’invidia di migliaia di ragazze come me di tutti i college d’America, le quali avrebbero dato chissà che cosa per trovarsi nei miei panni, anzi nelle scarpe di vernice numero sette che mi ero comprata da Bloomingdale nell’intervallo del pranzo, insieme a una cintura di vernice nera e a una pochette coordinata. E quando avessero visto la mia foto, sulla rivista per la quale noi dodici lavoravamo – bicchiere di Martini in mano, un corpino ridottissimo di lamé imitazione argento che spuntava da una gran nuvola di tulle bianco, su qualche terrazza sotto le stelle, circondata da un assortimento di anonimi giovanotti dalla struttura ossea americana al cento per cento, ingaggiati o presi in prestito per l’occasione – tutti avrebbero pensato: caspita, che vortice di mondanità.
Lo vedi che cosa può succedere in America, avrebbero detto. Una ragazza vive per diciannove anni in un paesello sperduto, senza nemmeno i soldi per comprarsi una rivista, poi ottiene una borsa di studio per il college, vince un premio, poi un altro e finisce che ha New York ai suoi piedi, come se fosse la padrona della città.
Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa. Non facevo che trottare dall’albergo al lavoro ai ricevimenti e dai ricevimenti all’albergo e di nuovo al lavoro come uno stupido filobus. Sì, credo che avrei dovuto trovarla un’esperienza eccitante, come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente.
Eravamo in dodici in albergo.
Tutte quante, con articoli, racconti, versi o pezzi pubblicitari, avevamo vinto il concorso organizzato da una rivista di moda2 il cui premio consisteva in un mese di praticantato a New York, completamente spesate, con in più montagne di buoni acquisto, biglietti per il balletto, inviti a sfilate di moda, sedute gratis da un famoso e costosissimo parrucchiere, occasioni per incontrare gente che aveva sfondato nel campo dei nostri sogni, nonché lezioni di trucco personalizzate.
Conservo ancora la trousse per il trucco che mi avevano regalato, studiata per una persona con capelli e occhi castani: un rettangolo di mascara marrone con il suo pennellino, una vaschetta tonda di ombretto azzurro grande quel tanto da intingerci la punta del dito e tre rossetti in gradazione dal rosso al rosa, il tutto contenuto in una scatoletta dorata con lo specchietto su un lato. Ho anche l’astuccio degli occhiali da sole, di plastica bianca con cucite sopra conchiglie, paillette multicolori e una stella marina di plastica verde.
Mi rendevo conto che ci riempivano di regali del genere perché per le ditte interessate era un modo per farsi réclame gratis, ma non mi veniva di fare la cinica. Era così bello ricevere quella pioggia di omaggi. Per un bel pezzo, in seguito, li tenni nascosti da qualche parte, ma poi, quando tornai a stare bene, li ritirai fuori, e ce li ho ancora, in giro per casa. I rossetti ogni tanto li uso e la settimana scorsa ho ritagliato la stella marina dall’astuccio degli occhiali e l’ho data alla bambina per giocarci.
Dunque, eravamo in dodici in albergo, stessa ala, stesso piano, in camere singole, una in fila all’altra, tanto che mi sembrava di essere nel mio pensionato al college. Non era un vero e proprio albergo, con uomini e donne mescolati sullo stesso piano.
L’Amazon3 era un albergo per signorine di buona famiglia, perlopiù ragazze della mia età con genitori ricchi che volevano sapere le loro figlie al sicuro dagli uomini ingannatori; e tutte frequentavano scuole molto chic per segretarie, tipo la Katy Gibbs, dove devi presentarti sempre con cappello, calze di nylon e guanti, oppure si erano appena diplomate in scuole tipo la Katy Gibbs, e adesso facevano le segretarie di dirigenti o aspiranti dirigenti e se ne stavano a New York in attesa di sposare qualche professionista o uomo d’affari.
Queste ragazze avevano tutte l’aria annoiata. Le vedevo nel solarium, che sbadigliavano e si laccavano le unghie mentre prendevano il sole per mantenere la tintarella delle Bermuda, e mi sembravano annoiate a morte. Scambiai due chiacchiere con una di loro: era stufa di yacht, stufa di girare il mondo in aeroplano, stufa di andare a sciare in Svizzera per Natale, stufa degli uomini del Brasile.
Ragazze del genere mi danno il voltastomaco. Mi sento soffocare dall’invidia. Io, a diciannove anni, non avevo mai messo il naso fuori dal New England, a parte quel mese a New York. Era la mia prima grande occasione e io cosa facevo? Stavo a guardare, lasciando che mi sfuggisse tra le dita come acqua.
Parte del problema era Doreen, credo.
Non avevo mai conosciuto nessuna come lei. Doreen veniva da un college del Sud per ragazze bene e aveva una massa di capelli bianchi lucenti che le incorniciavano la faccia, vaporosi come zucchero filato, occhi azzurri che sembravano biglie di agata trasparente, duri e lucidi e altrettanto indistruttibili, e la bocca atteggiata a una specie di smorfia perenne. Non intendo una smorfia di cattiveria, ma un sorrisetto divertito, enigmatico, come se gli altri fossero tutti dei cretini e lei ne avrebbe avute di belle da raccontare sul loro conto, volendo.
Doreen mi aveva scelta fra tutte fin dal primo giorno. Mi faceva sentire tanto più in gamba delle altre, e poi era davvero molto spiritosa. Alle riunioni, si sedeva vicino a me, e mentre le celebrità in visita facevano i loro discorsi, mi bisbigliava a mezza bocca le sue battutine sarcastiche.
Al suo college si dava una tale importanza alla moda, diceva, che tutte le ragazze si facevano fare pochette della stessa stoffa del vestito, così ogni volta che cambiavano vestito avevano la borsetta in tinta. Particolari del genere a me colpivano molto. Lasciavano intravedere tutta un’esistenza di meraviglioso, sofisticato decadentismo che mi attirava come una calamita.
L’unica cosa che la faceva arrabbiare erano i miei sforzi per consegnare in tempo gli articoli che mi assegnavano.
«Cosa stai a sgobbare su quella roba?» Mentre io battevo a macchina l’abbozzo di un’intervista a uno scrittore di successo, Doreen se ne stava mollemente sdraiata sul mio letto, avvolta nella vestaglia di seta color pesca, intenta a limarsi le lunghe unghie gialle di nicotina.
Quella era un’altra particolarità di Doreen: tutte noi avevamo camicie da notte estive di cotone inamidato e vestagliette trapuntate, oppure accappatoi di spugna che servivano anche per la spiaggia, Doreen invece indossava quelle cosine di nylon e pizzo, lunghe fino ai piedi e trasparenti come carta velina e vestaglie color pelle che le si incollavano al corpo per una sorta di elettricità. E aveva un odore interessante, come di lieve sudore, che mi ricordava le foglie dentellate della mirica, che si stropicciano tra le dita per sentire il profumo muschiato.
«Sai bene che alla vecchia Jay Cee non gliene frega niente se il pezzo le arriva domani oppure lunedì.» Si accese una sigaretta ed esalò il fumo dalle narici, lentamente, sicché gli occhi furono nascosti dietro un velo. «Certo che è brutta come il peccato» proseguì con indifferenza. «Scommetto che suo marito spegne tutte le luci prima di andarle vicino, se no vomita.»
Jay Cee era la mia capa, e a me piaceva molto, checché ne dicesse Doreen. Non era una di quelle tipe pimpanti delle riviste di moda, con ciglia finte e tonnellate di gioielli. Jay Cee aveva l’intelligenza, e allora cosa importava se era brutta come il peccato? Sapeva un paio di lingue e conosceva tutti gli scrittori più quotati del giro.
Provai a immaginarmela senza il severo tailleur da ufficio e il cappellino di ordinanza per i pranzi di lavoro, a letto con il suo grasso marito, ma non ci riuscii. Facevo sempre una fatica tremenda a immaginarmi la gente a letto insieme.
Jay Cee voleva insegnarmi qualcosa, tutte le vecchie signore che incontravo avevano quest’idea, ma tutto a un tratto mi parve che non avessero niente da insegnarmi. Rimisi il coperchio alla macchina per scrivere e feci scattare la molla.
Doreen sorrise: «Brava ragazza!».
Si sentì bussare alla porta.
«Chi è?» Non mi presi il disturbo di alzarmi.
«Sono io, Betsy. Ci vieni alla festa?»
«Penso di sì.» Ma non mi mossi.
Betsy era stata importata pari pari dal Kansas completa di coda di cavallo bionda saltellante e sorriso da Fidanzatina dell’anno. Ricordo che un g...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sylvia Plath
  4. Bibliografia
  5. LA CAMPANA DI VETRO
  6. SEI POESIE DA ARIEL
  7. Postfazione di Claudio Gorlier
  8. Copyright