Il mare dove non si tocca
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Il mare dove non si tocca

  1. 324 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il mare dove non si tocca

Informazioni su questo libro

Fabio ha sei anni, due genitori e una decina di nonni. Sì, perché è l'unico bimbo della famiglia Mancini, e i tanti fratelli del suo vero nonno - uomini impetuosi e pericolosamente eccentrici - se lo contendono per trascinarlo nelle loro mille imprese, tra caccia, pesca e altre attività assai poco fanciullesche. Così Fabio cresce senza frequentare i suoi coetanei, e il primo giorno di scuola sarà per lui un concentrato di sorprese sconvolgenti: è incredibile, ma nel mondo esistono altri bambini della sua età, che hanno tanti amici e pochissimi nonni, e si divertono tra loro con giochi misteriosi dai nomi assurdi - nascondino, rubabandiera, moscacieca. Ma la scoperta più allarmante è che sulla sua famiglia grava una terribile maledizione: tutti i maschi che arrivano a quarant'anni senza sposarsi impazziscono. I suoi tanti nonni strambi sono lì a testimoniarlo. Per fortuna accanto a lui c'è anche un padre affettuoso, che non parla mai ma con le mani sa aggiustare le cose rotte del mondo. E poi la mamma, intenzionata a proteggere Fabio dalle delusioni della vita, una nonna che comanda tutti e una ragazzina molto saggia che va in giro travestita da coccinella. Una famiglia caotica e gigantesca che pare invincibile, finché qualcosa di totalmente inatteso la travolge. Giorno dopo giorno, dalle scuole elementari fino alle medie, il protagonista cerca di crescere nel precario equilibrio tra un mondo privato pieno di avventure e smisurato come l'immaginazione, e il mondo là fuori, stretto da troppe regole e dominato dalla legge del più forte. Tra inciampi clamorosi, amori improvvisi e incontri straordinari, in un percorso di formazione rocambolesco, commovente e stralunato, Fabio capirà che le nostre stranezze sono il tesoro che ci rende unici e intanto scoprirà la propria vocazione di narratore perdutamente innamorato della vita. Dopo il successo di Chi manda le onde, premio Strega Giovani 2015, Fabio Genovesi torna con un romanzo luminoso e coloratissimo, divertente e poetico, capace di alternare con straordinaria efficacia i registri e di farci passare in un attimo dal riso alla commozione. Il mare dove non si tocca si legge d'un fiato e resta per sempre nel cuore, insieme alla voce unica del narratore, un ragazzo con la testa piena di domande e il cuore traboccante di storie.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804680857
eBook ISBN
9788852082344

SECONDA PARTE

Se hai i fantasmi, hai tutto.
ROKY ERICKSON
9

La scuola della vita

Nell’arcipelago delle Galápagos, sull’isola di Wenman, esiste una colonia di Fringillidi denominata Geospiza Difficilis, che per risolvere il problema alimentare nei periodi in cui le sementi scarseggiano si è adattata a comportamenti da vampiro.
Ho smesso di leggere, ho alzato gli occhi al mio babbo: «Hai sentito babbo? Un fringuello vampiro, un fringuello vampiro!».
Ma nel dirlo mi sono piegato verso di lui, ed è successa una cosa stranissima: la mia sedia ha scricchiolato. Che magari non è una notizia da aprirci il telegiornale, ma era clamorosa se capitava davanti al mio babbo e lui non si muoveva subito per metterci un po’ d’olio e sistemarla.
Il problema però era proprio questo, che il babbo non si muoveva, né per la sedia né per nulla. Ormai era passata la Pasqua, e da quella notte maledetta di Natale lui stava sdraiato in questa stanza di ospedale. Quattro mesi senza alzarsi dal letto, senza nemmeno aprire un occhio, con dei tubi nel naso e nella bocca e attaccato a delle macchine che facevano rumori strani tipo videogiochi mentre lui non faceva nessun rumore, come uno che dorme senza russare. E senza svegliarsi mai.
E allora non importa se le sedie scricchiolavano e le finestre si chiudevano male, se scoppiavano tutti i tubi dell’ospedale e facevano nascere fiumi che scorrevano fra montagne di roba rotta: il babbo non poteva farci nulla, perché la cosa più rotta di tutte era lui. Così tanto che nel mondo non esisteva una persona in grado di aggiustarlo. Anzi, una esisteva, ma il guaio è che quella persona era proprio lui.
Però secondo me non era un problema così grande: ci voleva solo un po’ di pazienza, e presto il babbo si sarebbe risvegliato. Si tirava su con uno sbadiglio e mi abbracciava forte con una mano, con l’altra aggiustava la sedia e poi via, tutto di nuovo come prima. Una specie di resurrezione, che non era così difficile perché una volta era già risorto, quando l’avevo visto là steso sul pavimento della chiesa e l’unica cosa che si muoveva era la macchia di sangue sempre più larga intorno alla sua testa, e per me come per gli zii e la mamma e tutti quanti il babbo era morto.
E forse era morto davvero, ma solo per poco, poi Gesù Bambino ha capito che non poteva finire così. Quell’uomo aveva appena creato in suo onore il presepe più meraviglioso dell’universo, come faceva Gesù a lasciarlo morire in quel modo, a casa sua, la notte del suo compleanno? E però non poteva nemmeno salvarlo subito, farlo cadere a terra e rimbalzare su come una pallina di gomma. Un miracolo esagerato davanti a tutti i fedeli, che invece di credere per fede avrebbero creduto per il miracolo dell’Uomo-Pallina, e sarebbe stato troppo facile entrare nel Regno dei Cieli. Allora Gesù aveva scelto questa via di mezzo: lo lasciava dormire un po’ – che poi al babbo, dopo una vita a sfondarsi di lavoro, qualche mese di riposo gli faceva pure bene –, e presto lo risvegliava.
Certo, sarebbe andata proprio così, l’avevo raccontato alla mamma e lei mi aveva risposto Be’, ovvio, chiaro che va così. Poi però aveva cominciato a piangere, ma forse perché si era commossa a sentire quanto era intelligente suo figlio.
Solo che insomma, adesso dopo quattro mesi mi sembrava l’ora di farlo tornare in piedi, e più passava il tempo e più mi veniva il sospetto che Gesù, con tutto quello che aveva da fare, non dico che si era proprio dimenticato del mio babbo, però magari risvegliarlo era diventata una di quelle cose che ogni tanto ci pensi e dici Oddìo, domani lo devo proprio fare, domani lo faccio, e mentre lo dici ci credi davvero, solo che probabilmente in Paradiso è come qua sulla Terra, e domani è un modo come tanti per dire mai.
Allora io cercavo di dargli una mano, a Gesù. Ogni pomeriggio la mamma mi portava qua, andava a fare le pulizie in giro e intanto io mangiavo un gelato alla crema davanti al babbo, per fargli sapere che tutto andava bene e non ci mancava nulla, a parte lui che invece ci mancava tantissimo. Ma soprattutto portavo uno di questi libri stupendi e lo leggevo a voce alta, per me e per lui, perché secondo me raccontavano cose così interessanti che potevano richiamarlo qua, in questo mondo pieno di tante meraviglie che lo aspettavano.
Un giorno l’avevo pure chiesto al dottore, Ma se gli leggo delle cose belle al mio babbo gli fa bene, vero? E lui mi aveva guardato un attimo, poi Be’, male non gli fa. Che come risposta era parecchio inutile, allora gli ho domandato se era possibile che un giorno magari gli leggevo qualcosa di così appassionante che il babbo si svegliava dall’emozione. E il dottore ha sorriso, ha sorriso ancora un po’, poi ha risposto No.
Così, giuro, solo No. E per quel giorno non mi è più riuscito di leggere una riga, e quando è arrivata la nonna a riprendermi le ho raccontato cosa aveva detto il dottore, e lei ha risposto che magari si sbagliava, ma comunque dovevo apprezzare la sincerità.
Però a me non mi ha convinto mai, la sincerità. Non ci vuole nulla a essere sinceri, basta aprire la bocca e buttare fuori tutto lo schifo che hai dentro. Apprezzavo molto di più le persone che invece, prima di darmela, questa famosa sincerità me la aggiustavano un pochino. Perché insomma, avevo dieci anni ed ero il figlio del grande Giorgio, che era arrivato sul pianeta Terra con la missione di aggiustare tutto, e invece adesso stava lì fermo su un letto meno vivo dei fiori che gli mettevamo sul comodino. E allora, quando ti chiedo se c’è speranza che un giorno possa tornare a camminare, o aprire gli occhi per guardarmi, o anche solo la bocca per dirmi che mi vuole bene, se tu sorridi e mi rispondi tranquillo No, ecco, non è che sei uno sincero, sei solo un grandissimo stronzo.
Ma per fortuna a casa mi aspettava la mamma, che con la sincerità aveva litigato da piccola e non si parlavano più, e ci ha pensato lei a spiegarmi per bene come stavano le cose:
«Davvero il dottore ti ha detto così?»
«Sì mamma, giuro!»
«Va bene, ma te non ascoltarlo. Poverino, non sta mica bene.»
«Chi, il dottore?»
Lei ha fatto di sì, poi mi ha passato il piatto con gli spaghetti e insieme un grande segreto: «In realtà quello lì non è un dottore vero».
«Ma come no.»
«No, è ricoverato al piano di sopra, dove ci sono i matti. Solo che pensa di essere un dottore, e lo lasciano fare. Gira un po’ fra i reparti, dice cose a caso, poi la sera torna nella sua stanza, capito?»
Ci ho pensato un attimo, un attimo e mezzo. «Sì, ma le infermiere gli danno retta.»
«Certo! Ai matti gli danno retta tutti, per non farli arrabbiare. Gli dicono di sì e poi lo riportano di sopra, gli levano il camice e gli infilano la camicia di forza, capito?»
E a quel punto finalmente ho sorriso, tanto e forte. Perché questa sì che era una verità fatta bene. E certo, un angolino antipatico del mio cervello continuava a domandarsi chi era allora che curava davvero il babbo, ma si trattava di cose mediche e scientifiche e io avevo dieci anni, cosa ne potevo sapere? Un giorno le avrei capite, ma intanto avevo una speranza bella calda da tenermi dentro. La sentivo che si accendeva proprio, ogni giorno dopo la scuola. Venivo nella sua stanza, mi mettevo vicino a lui e prendevo un respiro d’aria che sapeva un po’ di alcol e un po’ del suo odore, e ricominciavo a leggere a voce alta queste cose che per non trovarle super appassionanti dovevi proprio essere morto, oppure matto come quel signore là col camice che ogni tanto passava di lì e diceva cose bruttissime, ma tanto io non lo ascoltavo più.
La Geospiza Difficilis si nutre infatti del sangue di due uccelli marini, la Sula mascherata e la Sula dalle zampe rosse, che succhia dopo aver beccato loro la pelle sui gomiti.
«Sentito babbo? Succhiano il sangue, precisi uguali a Dracula! Non dal collo, dai gomiti, però è quasi uguale, no? No?», ma il babbo non rispondeva, e allora ho fatto di sì anche per lui. Poi gli ho detto di aspettare un secondo, ho preso la matita e ho sottolineato questa informazione, e la linea è diventata una freccia che scendeva giù fino in fondo alla pagina, dove ho scritto:
1. Ma gli uccelli hanno i gomiti?
2. L’isola di Wenman è anche chiamata isola di Wolf, cioè isola del Lupo. Come mai? I fringuelli vampiro sono anche fringuelli mannari? Da verificare nel prossimo viaggio alle Galápagos.
Ma stavo ancora finendo la S di Galápagos e già mi vergognavo così tanto che poteva benissimo diventare la S di Scemo: “il prossimo viaggio alle Galápagos”, certo, come se fosse un posto dove andavo tutte le settimane, tipo lo Zio Aldo col camion a Montecatini. Invece alle Galápagos non c’ero stato mai, anzi non sapevo nemmeno bene dove si trovavano, perché il mondo era pieno di paesi stupendi e incredibili e però a scuola la maestra passava le ore a spiegarci i prodotti tipici delle Marche o gli affluenti di destra e sinistra del Po. E intanto il posto più lontano dov’ero stato veramente era Empoli, a un’ora di camion dal Villaggio Mancini, e chissà invece quante ore di camion ci volevano per arrivare alle Galápagos. Ma non era un problema, perché tanto lo zio alle Galápagos non ci andava, e forse non ci sarei andato mai nemmeno io.
Infatti il problema vero era proprio questo, che in giro c’erano mille cose da vedere, da vivere e imparare, ma io stavo piantato qua, fra una stanza di ospedale e il Villaggio Mancini. E quando non leggevo al babbo, quando non pedalavo fortissimo sulla bici per sentire il cuore che mi usciva dalle orecchie e il vento che mi rubava le lacrime, quando la mamma non mi stringeva nel suo abbraccio che mi toglieva il respiro e anche i pensieri, ecco, io mi sentivo tanto sperso e tanto, tantissimo solo.
Solo, sì, anche se a casa avevo un villaggio intero di zii, che già prima si erano promossi a nonni e adesso si comportavano pure da babbi. La solitudine è così, non devi mica essere solo per sentirla, ti prende anche in mezzo alla folla, perché quando ti senti solo davvero non è che ti mancano tante persone, te ne manca una, ma tanto.
E a me mancava il mio babbo, e lo sapevo che un giorno sarebbe tornato, ma i mesi passavano e quel giorno non arrivava mai.
E allora menomale che nel frattempo era arrivata nei miei giorni una novità clamorosa e appassionante, che mi era finita addosso per caso e anzi per sbaglio, come tutte le cose che ti cambiano davvero la vita.
Erano le vacanze di Pasqua, ma seguire la mamma al mercato mi stava quasi facendo venire nostalgia della scuola. A ogni passo affondavo sempre più nel mare della noia, fra banchi di mutande e calzini e asciugamani in offerta che mi avvolgevano come alghe per affogarmi in un abbraccio mortale, e la situazione era così disperata che per emozionarmi è bastato un vecchio più in là, seduto su una panchina, che buttava pezzetti di pane a un piccione zoppo.
L’ho visto e sono corso da lui, però a metà strada una macchia luccicante mi ha chiamato dall’angolo dell’occhio. Era un banco diverso, più piccolo e pieno di colori. Dietro, quasi stesa su una sdraio da mare, una signora che sembrava uscita di casa come si era svegliata, con pantaloni tipo un pigiama a righe, i piedi in due pantofole appoggiati sul banco, la maglietta tutta grinze e i capelli bianchi e gonfi come una palla di zucchero filato venuta male.
Teneva gli occhi a un fumetto, e mi è rimasta subito simpatica perché stava leggendo Geppo, che era un diavolo e viveva all’Inferno e però era nato buono, allora Satana si arrabbiava con lui perché sapeva combinare solo buone azioni. Pensavo che Geppo piacesse solo a me, e invece nel mondo eravamo in due, io e questa signora tutta spettinata, quindi mi dispiaceva che il suo banco fosse l’unico senza clienti.
Poi però lei ha smesso di leggere e mi ha guardato, io per la vergogna ho abbassato gli occhi alle cose che vendeva, e di colpo è diventato chiaro come mai il suo banco non interessava a nessuno: la signora vendeva solo libri.
E i libri erano roba per la scuola, che cavolo ci facevano coi libri le persone al mercato, che erano troppo vecchie per studiare? Magari potevano comprarli per figli o nipoti, ma la scuola era iniziata da un pezzo e fra due mesi grazie a Dio finiva, come sperava la signora di venderli a Pasqua? Forse glielo dovevo dire, perché magari lei era anziana e gli anziani tante volte fanno le cose così, per abitudine. Dovevo ricordarle che era quasi estate e i libri non servivano più, mentre le mutande servivano tutto l’anno, e anche i calzini, e le tovaglie, e…
«Ciao, Ricciolo!» ha detto lei a me. La voce un po’ storta per via che stava mezza stesa e parlava a bocca piena, con un sacchetto di lupini sulle gambe che mangiava sputandosi i gusci in mano. «Allora, cos’è che cerchi?»
E io avrei voluto scomparire. In vita mia non avevo mai comprato niente da solo, già fermarmi a un banco e fissare la roba così mi pareva quasi rubare. Allora mi sono scostato di un passo, ho alzato le mani e ho risposto che non cercavo nulla, grazie.
«Non dire così, che non è vero.»
«Come non è vero? Lo giuro.»
«Ma no, tutti cerchiamo qualcosa Ricciolo, sempre. Solo che non sappiamo cosa.» Si è buttata in bocca un altro lupino, ha sputato il guscio. «Te lo sai cosa stai cercando?»
L’ho guardata, ci ho pensato, ho fatto di no.
«Ecco, vedi? E allora che aspetti, cerca!»
Mi ha indicato tutti quei libri buttati lì uno addosso all’altro. Erano tanti, e tanto diversi da quelli della scuola, che la mamma a inizio anno me li foderava con la carta da regalo e infatti sembravano proprio regali quadrati e luccicanti, che però nessuno era felice di ricevere. Questi invece erano vecchi e sciupati, con segni e macchie scure e titoli lunghi e misteriosi, chissà che scuola dovevi fare per avere bisogno di questi libri qua.
«Oh, Ricciolo, ma sfogliali no? Sfogliarli è gratis.»
«Grazie signora, ma non s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL MARE DOVE NON SI TOCCA
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. TERZA PARTE
  7. Copyright