Uno degli slogan più evocativi della cultura giovanile degli anni Sessanta l’ha coniato Edith Payeux: «potere all’immaginazione» (che qualcuno ha tradotto, rovesciandone il concetto, in «l’immaginazione al potere»). Non c’era nulla di bellicoso in quelle parole, non contenevano un’invettiva, anzi era un’invocazione dolce, affettiva. Lontano dai carri armati delle invasioni contro popoli inermi, si voleva costituire uno spazio libero per sognare e forse anche per un po’ di illusione. È stato l’urlo che ha rappresentato la quintessenza della voglia di cancellare il grigiore delle regole quotidiane della burocrazia per sostituirle con speranze di pace e di amore per il futuro. Slogan visionario che ha permesso concretamente a quella generazione, che è anche la mia, di sperare di poter costruire un mondo nuovo e diverso sulle note meravigliose di Imagine di John Lennon. Non si chiedeva altro che rovesciare gioiosamente i paradigmi dell’odio, della violenza, della prevaricazione. Si cercava di mettere sottosopra le parole ordinate da padri, professori, padroni: quelli della generazione delle guerre e dei massacri.
Erano gli anni, per dirla con Edgar Morin, della «grande festa della solidarietà giovanile».
E i giovani di allora ci hanno provato. Lo hanno fatto studenti, intellettuali, architetti, urbanisti, scrittori, psichiatri, ma soprattutto tante ragazze e ragazzi, donne e uomini di buona volontà. Rappresentavano una parte dell’umanità, soltanto quella, ma pensavamo fosse la migliore, ci sentivamo parte di quell’immenso bagliore che speravamo potesse illuminare il sentiero, il cammino.
Poi il sogno si è dissolto ed è emerso qualcosa di più realistico e di meno temerario. I visionari sono rientrati in massa nelle loro case e nei loro uffici, l’orizzonte si è improvvisamente avvicinato e impoverito, le emozioni diradate, le urla spente come gran parte delle gioie più forti.
L’immaginazione è divenuta, ben presto, sinonimo di sprovveduta spontaneità, la realtà ha iniziato ad assomigliare a quella spietata del business, degli speculatori di borsa, degli imprenditori senza scrupoli. Le scritte gioiose hanno lasciato il loro spazio sui muri a graffiti incomprensibili, la droga ha assopito le migliori intelligenze e noi abbiamo iniziato a declinare le nostre responsabilità. Decine di film, centinaia di articoli di giornale, di reportage televisivi hanno cominciato a celebrare le regole pragmatiche del mercato, i clamori e le ossessioni, tacendone i costi e le inevitabili e invisibili vittime.
La primavera della gioventù ha lasciato il passo all’autunno della maturità. Poco importava se la prima vera vittima era la nostra esistenza: i nuovi ritmi sincopati e ossessivi, le relazioni slabbrate l’hanno pian piano saturata, avvelenandola come l’ambiente in cui gran parte dell’umanità ha deciso di abitare.
L’immaginazione crea disagio, perché non è prevedibile, la ragione sì. L’immaginazione non possiede regole prestabilite, perché si basa sull’innocenza. L’immaginazione infastidisce in quanto esercizio scomodo e asimmetrico: non segue necessariamente un ricavo, una convenienza, cerca di andare oltre, senza sapere dove. Eppure, senza l’immaginazione l’uomo si sarebbe estinto come i mammut, non sarebbe stato in grado di inventare nulla: non il fuoco, il ferro, la ruota e nemmeno Internet. Tutto comincia dalla curiosità, anche se questa da sola non basta.
La curiosità è come la necessità: fa parte dell’inventario delle cose che servono alla sopravvivenza, poi però occorre la capacità di prefigurare un mondo che ancora non c’è, ed è lì che entra in campo, prepotente e coraggiosa, l’immaginazione.
Un architetto non progetta l’esistente, per fare questo basterebbe un banale software di un qualsiasi computer. Progettare delle case tutte uguali potrà, in certi contesti, essere necessario, ma non significa nulla di eccellente, non aggiunge niente al nostro intelletto, alla nostra fame, ai nostri sensi.
L’architettura è l’arte dell’immaginazione applicata al solido. Un grande architetto, quando scarabocchia su un pezzo di carta, una tovaglia o un pacchetto di sigarette, non sta trastullandosi, ma sta facendo l’essenziale per sé: è l’esercizio dell’immaginazione, esattamente come quello di uno scrittore che all’improvviso si annota una parola che mentalmente stava cercando. Capita mentre si passeggia, si entra in metropolitana, si legge un giornale, si cena o ci si alza presto la mattina. Una ginnastica formidabile che smeriglia il sistema nervoso centrale, e lo rinfresca.
Esercizi d’immaginazione che devono essere insegnati ai bambini. E un asilo è il luogo di eccellenza per perseguire questo obiettivo; ma perché ciò sia possibile, occorre che i bambini vivano almeno una parte della loro quotidianità in luoghi che ispirino tale specifica abilità del pensiero.
Ho sempre pensato che il coraggio sia ciò che si situa tra l’immaginazione e la realizzazione, ma cercavo un esempio per verificare la giustezza di una intuizione. Per farlo sono andato a vedere un luogo che rappresenta, anche fisicamente, questa idea.
Guastalla è un paese nel bel mezzo della pianura padana, 30 chilometri a nord di Reggio Emilia. Terra di gente forte, solida, capace di insorgere, ma anche di risorgere. Qui il terremoto del 2012 ha fatto danni enormi al patrimonio produttivo, abitativo e non solo. Qui si costruiscono cucine d’eccellenza note in tutto il mondo, qui si è abituati a lavorare sodo, ma anche a pensare.
A Guastalla quel terremoto ha ferito gravemente anche una tradizione civile che è parte del tessuto culturale di quella porzione della Padania: l’educazione dei bimbi. Le scosse, infatti, hanno distrutto i due asili e da quel giorno per i bambini non c’erano più spazi agibili e sicuri. Bisognava agire subito, i piccoli non potevano passare più di un anno scolastico nei container.
Non solo una corsa contro il tempo, ma anche una grande occasione per sperimentare qualcosa di nuovo e di straordinario.
Vi arrivo poco prima di mezzogiorno, mi aspettano la direttrice e la sindaca. Orgogliose di farmi visitare questa meraviglia pensata, progettata, realizzata da Mario Cucinella, architetto bolognese, ormai affermatissimo, allievo di Renzo Piano e impegnato ovunque nel mondo in cantieri che hanno una qualità visionaria: l’eco-sostenibilità.
Già l’impatto visivo è emozionante: grandi strutture di legno chiaro che assomigliano a sezioni anatomiche del tronco di una balena. Entrare tra quelle viscere immaginarie è come accedere a una grande favola, una di quelle che riesce a emozionare i bambini, ma anche chi la racconta.
Tra una struttura di legno e quella successiva tutto è di vetro, di modo che cielo e giardino possano fare capolino per i bambini che giocano in spazi enormi e tondi. Non ci sono angoli, ma smussature che congiungono le pareti ai pavimenti, occasioni per arrampicate e scivolate sorprendenti e gioiose. Luogo ideale per allevare piccoli creativi e immaginifici.
Qualche settimana dopo quella visita, incontro Mario Cucinella nel suo studio a Bologna, uno spazio grande come un hangar, pieno di luce e di giovani seduti davanti ai loro schermi. C’è silenzio frammentato da una leggera confusione creativa che suscita curiosità e una sensazione di gradevolezza. Mario mi aspetta puntuale, l’ora del primo mattino inonda di una luce gentile le piante di banani che troneggiano nel bel mezzo dello studio: un miscuglio di ipercontemporaneo ed esotico, geometrico e fantastico.
Ci accomodiamo attorno a un tavolo rotondo, le pareti tappezzate di progetti. Arriva un caffè. Mario sorride, l’aspetto schivo e gentile che possiedono i grandi è il prodromo per una piacevole chiacchierata tra amici.
«Credo di intuire, correggimi se sbaglio, che il tuo lavoro cominci con l’immaginazione. È questa la prima cosa che metti in atto quando devi iniziare un progetto?»
«La prima cosa è assolutamente immateriale, un insieme di pensieri poco coerenti. Parlando dell’asilo che hai visitato, posso dirti che non mi è venuta subito quell’idea, però ho cominciato a provare a immaginare scenari che spesso sono anche segmenti, frammenti. Un progetto non è una cosa così unitaria.»
«Fermiamoci all’esempio dell’asilo di Guastalla. Ti ricordi la prima immagine che ti è venuta in mente?»
«Ce n’erano due che abbiamo messo insieme. La prima riguardava il rapporto con il paesaggio, con la regolarità. Mi dicevo: “Secondo me, questo asilo dev’essere una cosa che si ripete, come sono ripetitivi i pioppeti”. Non era ancora un edificio, però era un’idea che andava forse scandita, dovevamo trovare un ritmo. Perché nelle cose della pianura c’è un ritmo, i grandi boschi di pioppi sono una forma di regolarità, una geometria. Penso sempre che ce le abbiamo negli occhi, quelle cose, magari non le vediamo consciamente però appartengono alla nostra vista. L’altra è quella di immaginare uno spazio non convenzionale. E mi veniva in mente l’asilo che avevo frequentato da bambino a Piacenza. La mia immaginazione era compresa tra queste due figure, questi due flash; quasi delle sinapsi che si risvegliano e mi riportano all’asilo dove ero stato io cinquant’anni fa. E mi sono chiesto: perché mi viene in mente questa roba? Perché mi ricordava il riposino a braccia conserte, un’idea devastante… però quelle vetrate, quella luce così intensa, quelle porte, quel giardino…»
«Com’era il tuo asilo di cinquant’anni fa?»
«Ho scoperto che era stato progettato da Giuseppe Vaccaro, un giovane architetto modernista che aveva disegnato un asilo come un cerchio con due piccole aule di cui ho una memoria molto precisa. Mi ricordo questo muro bianco…»
«Un asilo costruito nel dopoguerra o prima?»
«Nel 1957, e perciò, quando l’ho frequentato, era appena stato inaugurato. Mi dicevo: “Ma se io me lo ricordo ancora, vuol dire che la memoria dei luoghi in cui cresci rimane per sempre”. Gli edifici non si muovono, però viaggiano nel tempo e nella memoria. Quell’associazione emotiva mi ha fatto capire quanto fosse importante trovare uno spazio che avesse anche un impatto forte sui bambini, perché così l’immagine che avremmo creato se la sarebbero portata in giro per tutta la loro vita, sarebbe rimasto impresso nella memoria quel legno, l’idea della balena, uno spazio non convenzionale, non “vado all’asilo e ho la mia stanza con la finestra”, ma “entro in uno spazio che non avevo mai neanche potuto immaginare”. Questa cosa mi aveva fatto riflettere sull’idea di cominciare a pensare un luogo che non fosse funzionale, almeno non solo. Ho provato a viaggiare dentro a una storia come quella di Pinocchio: un’avventura dell’immaginario. Ho pensato che l’asilo dovesse essere la traduzione di un’idea narrativa, del viaggio immaginifico di un libro che però lì si concretizzava in uno spazio, che poi è la cosa più difficile di questo lavoro. Ci siamo detti: “Proviamo a pensare uno spazio articolato nel ritmo e in una disposizione non convenzionale dei vani per vedere che reazione avranno i bambini nel guardare una stanza, perché potrebbero anche pensare che non sia una balena, ma il ventre di qualche altro essere vivente”. Era bello lasciare a loro quello spazio interpretativo.»
«In questo processo in cui immagini di immergerti, dov’è che si situa la parola “coraggio”, dove fa capolino?»
«Il coraggio, in questo mestiere, è anche in una piccola dose di incoscienza perché, come sai, l’architettura è la trasformazione di una cosa immateriale in una materiale. È un percorso complicato in sé, insidiato da mille burocrazie. Il coraggio è avere la forza di tenere ferma l’idea primaria e non fartela spacchettare dal sistema normativo, dalla realtà delle cose, dalla costruzione, dai tecnicismi. Il coraggio è tenere fede all’immaginario.»
«Quindi, nel coraggio c’è una dose di resistenza…»
«C’è una grande dose di resistenza. Ogni volta che cerco di realizzare un progetto, devo avere il coraggio di non dimenticarmi che la cosa più importante è l’immaginazione, e che le norme, i sistemi costruttivi, sono fatti per ridimensionare quella capacità di progettazione astratta, mentre devi imparare a usarli come strumenti perché l’idea primaria rimanga viva. E non è semplice, ci vuole coraggio, perché in questo processo tutti ti tirano la giacca, tutti prendono la tua immaginazione e cercano di riportarla a terra. E la tua idea originaria, pian piano, rischia di consumarsi. È come se tu prendi un’idea fantasiosa e poi qualcuno, gradualmente, cerca di renderla concreta, ma in questo percorso la banalizza. Il nostro coraggio è seguire le intuizioni, avere la forza di sostenere le idee iniziali, non farsi sconfiggere. Perché, poi, noi lavoriamo nella realtà delle cose. Quindi il coraggio è anche non aver paura, perché fa paura immaginare uno spazio.»
«Che cosa ti fa paura nel momento in cui stai immaginando uno spazio?»
«Noi lavoriamo sempre in una dimensione immaginaria. Facciamo un disegno e quello racconta una storia. Il coraggio è tener fede a quel disegno e non perdersi lungo il percorso. Hai bisogno di trattenerlo, come se tu fossi il garante del fatto che quell’idea arriverà fino in fondo. E ci vuole una certa dose di coraggio a non farsi impressionare dalle difficoltà. Questo è un mestiere che ho imparato facendolo e ho capito che sei anche l’unico che può avere il coraggio di tenerlo, il tuo immaginario, fino alla fine. E i tuoi clienti, dopotutto, ti chiedono proprio questo: di mantenere forte il coraggio di arrivare fino in fondo e di non farsi troppo influenzare. Alla fine, quello che conta – come nell’asilo di Guastalla – è arrivare al termine con l’idea originaria.»
«Una sorta di coraggio donchisciottesco…»
«Mettiamola così: ci vuole il coraggio di non aver paura di arrivare fino in fondo. Questo è il...