Di notte, nel mio letto, guardavo lo spettacolo delle api che si insinuavano nelle fessure delle pareti e volteggiavano nella camera con quel loro ronzio acuto da elica che vibrava sulla mia pelle. Osservavo le ali brillare come pulviscolo di cromo nel buio e sentivo crescere nel cuore la malinconia. Mi commuoveva profondamente quel loro volare, senza neppure cercare un fiore, soltanto per sentire il vento.
Di giorno le udivo aprirsi un varco nei muri della mia stanza, con un brusio di radio mal sintonizzata, e le immaginavo impegnate a trasformare in favi le pareti, che presto avrebbero trasudato miele per la mia delizia.
Le api arrivarono nell’estate del 1964, l’estate in cui compii quattordici anni e la mia vita prese a girare in un’orbita completamente nuova, e intendo proprio un’orbita completamente nuova. Ripensandoci adesso, le api mi sono state mandate. Voglio dire che mi apparvero come l’angelo Gabriele apparve a Maria Vergine, per mettere in moto eventi che mai al mondo avrei immaginato. So che è presuntuoso confrontare la mia umile vita con la sua, ma ho motivo di credere che a lei non importerebbe; mi spiegherò meglio più avanti. In questo momento basti dire che, malgrado gli avvenimenti di quell’estate, io continuo a provare una grande tenerezza nei confronti delle api.
1º luglio 1964, distesa a letto in attesa della comparsa delle api, penso alle parole di Rosaleen quando le ho raccontato delle loro visite notturne.
«Le api sciamano prima della morte» è stato il suo commento.
Rosaleen lavorava per noi dalla morte di mia madre. Mio padre – che io chiamavo T. Ray, perché il termine “papà” non gli si addiceva proprio – l’aveva tirata fuori dal pescheto, dove faceva la raccoglitrice. Un grosso viso tondo e un corpo che si allargava dal collo come una tenda da campeggio, così nera da dare l’impressione che la notte si diffondesse dalla sua pelle. Viveva sola in una casetta nascosta nel bosco, non lontana da noi, e veniva ogni giorno per cucinare, pulire e farmi da madre. Non aveva avuto figli, e quindi negli ultimi dieci anni io ero stata per lei una sorta di cucciolo molto amato.
Le api sciamano prima della morte. Rosaleen era piena di folli credenze che di solito ignoravo, ma questa in particolare mi fece riflettere: le api erano venute per annunciare la mia morte? In tutta sincerità, l’idea non mi turbava più di tanto. Tutte quelle api avrebbero potuto calare su di me come uno stuolo di angeli e pungermi fino a darmi la morte, e la cosa mi avrebbe lasciato indifferente.
Mia madre morì quando avevo quattro anni. Era un fatto della vita, ma se io vi accennavo la gente si concentrava all’improvviso sulle pellicine delle unghie, oppure su luoghi distanti nel cielo, e assumeva un’aria distratta. Ogni tanto, però, qualche anima buona mi diceva: «Cerca di non pensarci, Lily. È stato un incidente. Non l’hai fatto apposta».
Quella notte, a letto, pensai alla morte, a quando mi sarei riunita a mia madre in paradiso. Le sarei corsa incontro per dirle: “Perdonami, mamma. Ti prego, perdonami”, e lei mi avrebbe baciato fino ad arrossarmi la pelle insistendo che io non avevo alcuna colpa. Questo me l’avrebbe ripetuto per i primi diecimila anni.
I diecimila successivi mi avrebbe pettinato i capelli. Li avrebbe spazzolati fino a trasformarli in una splendida acconciatura e tutti, in cielo, avrebbero posato l’arpa per ammirarli. Si capisce subito quando una bambina non ha la mamma: basta guardarle i capelli. I miei andavano regolarmente in dieci direzioni diverse, e naturalmente T. Ray si rifiutava di comprarmi i bigodini col velcro; e così tutto l’anno io dovevo avvolgerli sulle lattine di succo d’uva Welch. Il che mi aveva praticamente trasformato in un’insonne: dovevo sempre scegliere tra una chioma decente e una buona notte di riposo.
Decisi che avrei impiegato quattro o cinque secoli per raccontarle quanto fosse terribile vivere con T. Ray. Era irascibile tutto l’anno, ma tanto più d’estate, quando lavorava nel pescheto dalle prime luci dell’alba al tramonto. Io facevo il possibile per stargli alla larga. Gli unici slanci li aveva per Snout, la sua cagnetta da caccia. La faceva dormire nel suo letto e le grattava la pancia quando lei si sdraiava sul dorso ispido. L’ho vista fare pipì sul suo stivale senza suscitare in lui neppure una protesta.
Avevo chiesto più volte a Dio di fare qualcosa per T. Ray. Andava in chiesa da ben quarant’anni, ma peggiorava sempre più. Mi pareva che Dio avrebbe dovuto dedurne qualcosa.
Spinsi via le lenzuola con un calcio. Silenzio totale in camera, neppure un’ape in circolazione. Non facevo che guardare l’orologio sul cassettone, chiedendomi cosa le trattenesse.
Infine, intorno a mezzanotte, quando le palpebre stavano ormai chiudendosi per il sonno, percepii un brusio sommesso, basso e vibrante, un suono che si sarebbe potuto scambiare per quello di un gatto che fa le fusa. Dopo pochi istanti, delle ombre si mossero lungo i muri come uno spruzzo di vernice, catturando la luce mentre passavano davanti alla finestra, così che potei distinguere il profilo delle ali. Il suono crebbe nel buio al punto che tutta la stanza prese a pulsare, e l’aria stessa divenne viva, costellata di api. Mi lambivano il corpo, facendo di me il centro perfetto di una nube turbinante. Non riuscivo neppure a pensare con tutto quel ronzio.
Affondai le unghie nel palmo delle mani fino a segnarle. Si corre il rischio di venire punti a morte in una stanza piena di api.
Eppure, quella visione era un vero spettacolo. All’improvviso mi parve inconcepibile non mostrarlo a qualcuno, anche se la sola persona nei paraggi era T. Ray. E se gli fosse capitato di venire punto da qualche centinaio di api, tanto peggio.
Scivolai fuori dalle lenzuola e mi aprii un varco tra lo sciame per raggiungere la porta. Lo svegliai toccandogli il braccio con un dito, dapprima lievemente, poi premetti con forza la carne, stupita di trovarla tanto soda.
T. Ray balzò dal letto con solo le mutande addosso. Lo trascinai in camera mia, mentre lui gridava che era meglio che avessi una buona ragione per svegliarlo, che era meglio che la casa andasse a fuoco, maledizione, mentre Snout abbaiava come se fossimo stati impegnati nel tiro al piccione.
«Api!» gridai. «C’è uno sciame di api nella mia stanza!»
Quando entrammo, però, erano svanite dentro al muro, come se sapessero del suo arrivo, come se non volessero sprecare con lui le loro esibizioni aeree.
«Che scherzo del cazzo, Lily.»
Guardai lungo le pareti. Mi chinai sotto il letto e scongiurai la polvere e le molle della rete di produrre almeno un’ape.
«Erano qui. Svolazzavano ovunque.»
«Sì, e c’era anche un dannato branco di bufali, naturalmente.»
«Ascolta. Le puoi sentire ancora ronzare.»
Accostò l’orecchio alla parete fingendo attenzione. «Io non sento nessun ronzio» commentò battendo il dito sulla tempia. «Immagino che siano volate fuori da quell’orologio a cucù che chiami cervello. Svegliami un’altra volta, Lily, e tiro fuori i Martha Whites, chiaro?»
I Martha Whites erano una forma di punizione che soltanto a T. Ray poteva essere venuta in mente. Chiusi la bocca all’istante.
Eppure, mi riusciva difficile lasciar perdere. Non volevo che lui pensasse che ero tanto disperata da inventare un’invasione di api pur di attirare la sua attenzione. Il che mi fece venire l’idea di chiuderne in un barattolo qualcuna e portargliela. “Allora, chi è che si inventa le cose?” gli avrei detto.
Il primo e unico ricordo di mia madre riguardava il giorno della sua morte. Cercai a lungo di evocare un’immagine precedente di lei, un qualsiasi frammento, nell’atto di rimboccarmi le coperte, leggermi le avventure di zio Wiggly o appendere la mia biancheria vicino alla stufa nelle mattinate gelide. Avrei accolto con gioia anche la visione di lei che staccava un rametto dal cespuglio di forsythia per pungermi le gambe.
Morì il 3 dicembre 1954. La caldaia aveva arroventato l’aria al punto che la mamma si era tolta il maglione restando in maniche corte e tentava di aprire la finestra della camera da letto, bloccata da incrostazioni di vernice.
Alla fine rinunciò. «Be’, finiremo arrostite come all’inferno, qua dentro» era stato il suo commento.
Aveva folti capelli neri, con grandi riccioli che le incorniciavano il viso, un viso che non riuscivo più a raffigurarmi, malgrado la nitidezza di ogni altro particolare.
Allungai le braccia verso di lei, e lei mi sollevò dicendo che ero troppo grande per essere presa in braccio, ma facendolo egualmente. In quel momento, fui avvolta dal suo aroma.
La fragranza penetrò in me per sempre, con quella sfumatura di cannella. Andavo regolarmente all’emporio Sylvan per annusare ogni bottiglietta di profumo, cercando di identificarla. Ogni volta che mi presentavo, la commessa del banco dei profumi si fingeva sorpresa. «Dio mio, guarda chi c’è» esclamava, come se non mi avesse visto anche la settimana precedente passare in rassegna l’intera fila di flaconi. Shalimar, Chanel Nº 5, White Shoulders.
«Ha qualcosa di nuovo?» chiedevo.
La risposta era sempre no.
Rimasi quindi sconvolta quando ritrovai quello stesso aroma sulla mia maestra di quinta, che mi rivelò non essere altro che una semplice e comune crema idratante Ponds.
Il pomeriggio in cui morì mia madre c’era una valigia aperta sul pavimento vicino alla finestra bloccata. Lei entrava e usciva dallo spogliatoio, lasciando cadere vari indumenti nella valigia, senza preoccuparsi di piegarli.
La seguii nello stanzino, spostandomi sotto orli di abiti e gambe di pantaloni, nel buio, tra corpuscoli di polvere e piccole tarme morte, fino agli stivali di T. Ray, sporchi di fango del frutteto e con l’odore di pesche ammuffite. Infilai le mani in un paio di scarpe bianche col tacco e le battei una contro l’altra.
Il pavimento dello stanzino vibrava ogni volta che qualcuno saliva le scale sottostanti, e fu così che compresi che T. Ray era in arrivo. Sopra la mia testa udii mia madre che tirava via gli abiti dagli attaccapanni, il fruscio della stoffa, le grucce di metallo che tintinnavano urtando l’una contro l’altra. «Sbrigati» mi disse.
Quando lui entrò a passo pesante la mamma sospirò, e il respiro le uscì come se i polmoni si fossero all’improvviso serrati. Questa è l’ultima cosa che ricordo con perfetta chiarezza: il suo respiro che fluttuava su di me come un minuscolo paracadute, cadendo senza lasciar traccia fra le pile di scarpe.
Non ricordo cosa si dissero, solo la violenza delle loro parole, l’atmosfera all’improvviso tesa e rabbiosa. In seguito mi avrebbe rammentato gli uccelli intrappolati in una stanza chiusa, che si lanciano contro i vetri, contro i muri, l’uno contro l’altro. Retrocessi adagio, sempre più in fondo allo stanzino, sentendo sulle mie dita in bocca il sapore delle scarpe, dei piedi.
Venni trascinata fuori, senza sapere sul principio di chi fossero le mani che mi avevano afferrato, e poi mi ritrovai fra le braccia di mia madre, a respirare il suo odore. Mi ravviò i capelli. «Non aver paura» disse, ma proprio in quel momento fui prelevata di forza da T. Ray. Mi portò alla porta per depositarmi in corridoio. «Vai in camera tua» ordinò.
«Non voglio» gridai, cercando di spingerlo di lato per tornare nello stanzino, dove si trovava lei.
«Vai nella tua stramaledetta camera!» urlò T. Ray, allungandomi uno spintone che mi fece sbattere contro il muro. Caddi a quattro zampe. Sollevai la testa e vidi mia madre correre verso di lui. «Lasciala stare, non toccarla!» gridava.
Rannicchiata sul pavimento accanto alla porta, attraversai con lo sguardo l’aria che pareva lacerata. Lo vidi afferrarla per le spalle e scuoterla, la testa che sbatteva avanti e indietro. Aveva le labbra livide.
E poi – anche se a questo punto tutto comincia a sfocarsi nella mia me...