Erano appena le ventitré.
Luca era già a letto, nella sua stanza, e attendeva l’arrivo del padre per la buonanotte. Con lo sguardo fisso sul soffitto bianco si divertiva a osservare l’ombra del lampadario della sua stanza. A proiettarla, la fievole luce dell’abat-jour, che stazionava sul suo comodino da prima che i ricordi d’infanzia si cominciassero a imprimere nella sua mente.
Il lampadario era composto da tre luci. Due tonde alla base e una oblunga al centro. Un bellissimo lampadario, non c’è che dire. Non lo ricordava, ma probabilmente era stato comprato in un mercatino dell’usato di qualche Paese esotico. Uno dei tanti cimeli che loro amavano portare nella casa al mare come memento dei viaggi fatti in giro per il mondo con il figlio.
Luca continuava a fissare il soffitto.
“Un bellissimo lampadario, non c’è che dire. Ma l’ombra che proietta sembra quella di un cazzo gigante” pensò, divertito della goliardia associativa del suo cervello.
La porta della stanza si aprì lentamente, facendo sparire l’ombra del mastodontico membro dal soffitto.
Luca chiuse subito gli occhi.
«Dormi, Lu?» sussurrò il padre, entrando piano nella stanza.
Il ragazzo non rispose e, improvvisando un respiro profondo, da sonno pesante, si girò dall’altra parte.
Non odiava suo padre. Ma a ventisei anni compiuti trovava ridicolo che dovesse entrare, ogni sera, nella sua stanza per dargli il bacio della buonanotte.
Non ricevendo risposta, il padre si chiuse la porta alle spalle e si diresse verso la sua stanza. Dove ad attenderlo c’era Letizia, la compagna con cui conviveva da ormai qualche anno.
«Dorme tuo figlio?» chiese Letizia.
«Sembra di sì.»
Luca sentiva benissimo ogni parola che veniva pronunciata di là. Nonostante quella fosse una casa vecchia, le pareti non erano così spesse come vantano gli anziani proprietari di case vecchie. “Fresche d’estate e calde d’inverno… Col cazzo! Sto letteralmente cuocendo nel mio sudore.”
Luca non era mai stato un ragazzo volgare o maleducato. Semplicemente amava dire le parolacce. Gratuitamente. “Puoi chiamare la cacca ‘pupù’, ma alla fine della fiera rimane sempre merda.” Era con questa frase che si giustificava con i più perbenisti.
Ma la verità è che la parolaccia testimoniava il suo senso di libertà nei confronti dei genitori. Il divorzio dei suoi non aveva inciso più di tanto sulla sua vita. Nessun disagio emotivo ne era derivato. Dopotutto, aveva già diciannove anni quand’era successo. C’erano stati dei vantaggi, invece. Due case diverse in cui passare del tempo – oltre alla propria, perché nel frattempo si era già trasferito a vivere da solo. Doppi regali a Natale. Doppi regali al compleanno. Attenzioni esagerate dalla madre Isabella per guadagnarsi la sua preferenza e doni superflui dal padre per avere informazioni sul nuovo compagno della ex moglie. Quando sei il figlio di un matrimonio terminato con il divorzio, e pessimi rapporti, nessun genitore proverà a mettersi contro la “propria creatura” cercando di vietargli qualcosa. E quel qualcosa, per Luca, erano le parolacce.
La vibrazione dello smartphone richiamò l’attenzione del ragazzo, facendolo precipitare, dall’alto dei suoi pensieri, di nuovo nel suo letto.
Il display indicava la notifica di un nuovo messaggio. Era Roberta.
> Sono davvero felice che tu abbia deciso di passare di nuovo le vacanze estive da tuo padre.
Quella di Luca fu una risposta rapida, fredda e sincera:
> Non è stata proprio una scelta. L’alternativa era passare l’estate con mia madre e quel cazzone toy boy di Samuele che ha messo le radici nel suo appartamento! Tra i due mali, ho scelto quello minore!
Il telefono vibrò poco dopo.
> Sei troppo duro con il compagno di tua madre… Vabbè… sono comunque contenta che tu sia qui. Sono quasi due anni che non ci vediamo. Buonanotte.
Ci sono un sacco di parole che vengono dette per cortesia o per abitudine. La maggior parte di ciò che diciamo scatena risposte che non ci interessano o che non corrispondono alla verità. Tra questi convenevoli Luca non sopportava il “Buongiorno” perché: “Chi ti dà il diritto di decretare per me che sia un buon giorno?”; detestava il “Come stai?” perché: “Chi risponde onestamente al ‘Come stai?’. Forse lo fai se stai pagando un’ora dallo psicologo, ma nella vita di tutti i giorni è una domanda che stimola una risposta falsa in modo da non mettere a disagio chi te l’ha posta… e, soprattutto, al 90 per cento delle persone che te la rivolgono neanche interessa saperlo”; e odiava con tutto se stesso il “Buonanotte”. Così, senza battere ciglio, rispose al messaggio di Roberta cominciando una delle sue solite polemiche:
> Viviamo una media di ottant’anni, che corrispondono a 29.200 giorni che, a loro volta, corrispondono a 700.800 ore. Secondo i medici, per condurre una vita sana, dobbiamo dormire una media di 8 ore per notte, quantificabili in 2920 ore all’anno e che sono uguali a 121 giorni e mezzo. Ciò significa che passiamo poco meno di mezzo anno dormendo e, rapportato nell’arco di una vita media di ottant’anni, viviamo solo cinquantatré anni! Come puoi augurarmi di passare al meglio ore inutili che mi costringono ad avere una durata di vita simile a quella di un uomo del Medio Evo?
Inviato il messaggio, Luca posò il telefono sul comodino di fianco al letto e spense l’abat-jour. Sospirando nel buio assoluto della stanza, concentrò lo sguardo nuovamente sul soffitto, in attesa che gli occhi si abituassero all’oscurità. Forse era stato un po’ troppo cinico con Roberta, e questo pensiero ne fece scaturire in lui altri. Pensieri che passavano dalla voglia di chiederle scusa il prima possibile alla convinzione sempre più radicata in lui che la notte fosse una grandissima perdita di tempo e che il “Buonanotte” dovesse essere definitivamente abolito dal dizionario. O per lo meno dal suo.
Quella notte d’estate era davvero calda. Il cuscino continuava a scaldarsi rapidamente nonostante Luca non smettesse di girarlo in cerca di un angolo più fresco. Il tempo passava e lui non riusciva a prendere sonno. Forse per il caldo, o più probabilmente perché era in attesa che il display del cellulare illuminasse di nuovo la stanza con una notifica di risposta da parte di Roberta.
E, finalmente, il telefono si illuminò. Ma non era Roberta. Era una stupida mailing-list di un sito di abbigliamento, programmata per le due del mattino da qualche webmaster frustrato dalla vita, in cui lo si avvisava che c’era lo sconto del 20 per cento sugli infradito con la bandiera del Brasile.
Borbottando innervosito, Luca posò nuovamente il telefono sul comodino, e quello continuò a illuminare la stanza proiettando le solite ombre. “Da questa angolazione il cazzo gigante sembra molto più piccolo. Beato lui che c’ha freddo.” Il display si spense. E con il ritorno delle tenebre nella camera, Luca cadde in un sonno profondo. Un sonno senza sogni.
Questa era veramente l’apoteosi dell’inutilità, per lui. Non solo era obbligato a dormire. Era pure costretto a sorbirsi così tante ore di inattività senza sognare.
Ma, incredibilmente, quella sarebbe stata l’ultima notte in cui avrebbe dormito.
Il mattino seguente fu l’odore del caffè a dare il risveglio a Luca. Non c’era cosa migliore che svegliarsi con l’aroma della sua seconda bevanda preferita.
Si alzò e raggiunse il borsone verde con i vestiti che aveva abbandonato ai piedi del letto il giorno prima, arrivando a casa di suo padre. Era molto ordinato e non amava lasciare le cose in giro o da disfare, ma non vedendo suo padre Giacomo da diversi mesi, e avendo molte cose da raccontare, non aveva ancora avuto il tempo di sistemare la roba nei suoi vecchi armadi.
Indossò un paio di bermuda di jeans insieme a una t-shirt rossa e scese al piano di sotto, diretto verso la cucina.
«Alla buonora!» esclamò Letizia.
Vivevano sotto lo stesso tetto da meno di ventiquattr’ore e già gli stava col fiato sul collo.
«Alla buonora che cosa? È il sedici di giugno, sono in vacanza e sono appena le dieci e mezzo del mattino. Dobbiamo iniziarla in questo modo la convivenza?» rispose sbuffando Luca.
«Sarai in vacanza tu! Io alle undici ho l’appuntamento per farmi le unghie.»
«Tu a ogni ora hai l’appuntamento per farti le unghie. Hai contribuito da sola all’allargamento del buco dell’ozono, con tutta la plastica che producono per le tue mani.»
Una rana. Ecco a cosa pensava Luca ogni volta che vedeva le mani della compagna di suo padre. Si domandava quale fosse il senso di andare a farsi continuamente le unghie se tanto non smetteva di mangiarsele. Di cheratina o plastica che fossero. Le mangiava a prescindere.
«Letizia, toglimi una curiosità…»
«Dimmi, Luca.»
«Quando caghi, non hai paura che uno stronzo ti graffi?»
«Vai a quel paese, Luca. Non ho voglia di assistere al tuo spettacolo comico. Ti ho lasciato il caffè sul tavolo.»
Così dicendo Letizia recuperò la borsa sul piano della cucina e uscì dalla portafinestra che dava sulla veranda.
«Il caffè è freddo!» urlò Luca guardandola salire sul SUV nuovo fiammante che Giacomo le aveva regalato.
Nello stesso momento il padre fece capolino in cucina. Indossava una camicia hawaiana tempestata di ananas con un costume da bagno a pantaloncino in tinta con i ciuffi del frutto. Sotto l’ascella aveva l’immancabile “Gazzetta dello Sport”, che con il caldo e il sudore aveva tinto di rosa gli ananas del braccio sinistro. Luca non era abituato a vederlo in tenuta non elegante.
«Perché tratti così Letizia?» gli chiese.
«Così, come?!»
«Non fare il cretino, Luca. Sai bene cosa intendo.»
«Stavo semplicemente scherzando, papà. Lo sai come sono fatto.»
«Lo sanno tutti come sei fatto. Ma lei ce la sta mettendo tutta per essere gentile con te. Ti ha anche preparato il caffè!»
«Che meraviglia! Come preme lei il tasto della macchinetta del caffè, nessuno mai!»
L’ulteriore sguardo di rimprovero di Giacomo zittì definitivamente Luca, che annuì senza aggiungere parole alla discussione. Non voleva litigare anche con suo padre, da...