Ventitré anni prima
Acrab rimase immobile al centro del grande ingresso del monastero di Kurrah. Cercò di regolarizzare il respiro, ma il cuore batteva impazzito. Lo spazio intorno a lui gli sembrava gigantesco: le scale che salivano verso l’alto, il soffitto che s’innalzava per più di trenta braccia sopra la sua testa. E l’odore del legno, che aveva accompagnato tutta la sua vita. Gli pareva di non aver mai sentito altro che quello, tanto che quando era stato ad Al-Kather aveva avuto l’impressione di essere catapultato in un altro mondo; lì tutto era di pietra.
Pensò per un istante al tempo trascorso nell’altro monastero, speso a leggere incessantemente. Erano stati giorni di beatitudine, i migliori della sua vita. Ne aveva ricavato conoscenze sterminate, qualche libro che aveva infilato di nascosto nel tascapane e un senso di grande serenità. Forse non sarebbe mai stato un monaco – “Sei un bastardo, e questo non si cambia” aveva detto gelido il Padre Comune, per motivare il suo diniego a fargli anche solo tentare la prova d’iniziazione – ma poteva comunque soddisfare la sua sete di apprendimento. Se c’era riuscito una volta, a lasciare quel posto nel quale si sentiva come un topo in gabbia, ce l’avrebbe potuta fare anche in futuro. Avrebbe appagato la sua infinita bramosia di sapere, avrebbe dato in pasto alla sua mente insaziabile e instancabile tutti i libri del mondo, a dispetto di quei monaci arretrati che non lo capivano e cercavano in tutti i modi di soffocare le sue aspirazioni.
Sospirò. Alle caviglie e ai polsi pendevano ancora i ceppi della prigionia. Per liberarsi, ironia della sorte, aveva usato un liquido corrosivo di propria invenzione, ideato proprio grazie ad alcuni antichi testi dei Primi che aveva tradotto ad Al-Kather. Forzare la serratura della cella non era stato un problema.
Libero. Era libero. Ma non bastava, e lo sapeva. Per quanto fosse rischioso, doveva portare a compimento il suo piano, o non sarebbe mai riuscito a salvare anche Messabher.
“Non ti è permesso lasciare questo luogo, come non è permesso a nessun altro famiglio. Non ti è permesso leggere, non ti è permesso apprendere nulla. Non hai nessun diritto, se non quello di vivere nel perimetro di queste mura. E adesso lo perderai.” Così si era espresso il Padre Comune quando aveva saputo della sua fuga per visitare Al-Kather. E poi aveva emesso la condanna. “Morirai, come tua madre prima di te. E nella tua rovina condurrai anche il tuo maestro, che sarà condannato all’esilio. È questo il frutto della tua superbia, Graffias.”
Il solo pensare quel nome lo inondò di odio. Graffias, il nome che i monaci gli avevano imposto, quando un altro era quello che sua madre aveva pensato per lui, che Simgez gli aveva sussurrato nelle lunghe notti in cui lo aveva accudito, quand’era bambino. Acrab. Il suo vero nome. Il nome con cui anche Messabher lo chiamava.
Fu quella rabbia a dargli la forza. Si mosse, abitato da una determinazione ferrea. Anche il cuore ora pompava quieto.
Aveva deciso e non si sarebbe fermato.
Prese di tasca una fiala che conteneva un altro liquido, diverso da quello corrosivo usato per sciogliere le catene, e lo gettò alla base di una colonna. Il focolaio che subito si accese era piccolo, ma il monastero era tutto di legno, e Acrab aveva la certezza che il fuoco avrebbe attecchito quanto bastava per fornirgli un diversivo.
Non aveva mai provato quel composto su superfici così vaste. Mistura, l’aveva chiamato. Per testarlo aveva intriso una pergamena e poi l’aveva incendiata, Quando aveva provato a spegnarla, le fiamme si erano quasi rinvigorite. Quindi avrebbe funzionato, ne era sicuro.
Finì di spargere la Mistura, quindi estrasse dalla casacca l’acciarino che aveva preso nella sua vecchia cella. L’avevano liberata dei suoi pochi averi, come se fosse già morto. Aveva dovuto raccattare tutti i libri che gli interessavano a uno a uno e metterli in due grosse sacche che lo attendevano vicino alle cella di Messabher.
Indugiò un momento. Il suo piano poteva trasformarsi in un disastro, lo sapeva; quel posto poteva andare completamente distrutto, i monaci morire tutti, dal primo all’ultimo. Era pronto a pagare un prezzo così alto per salvare il suo maestro?
Smise di pensarci e fece scaturire la prima scintilla senza attendere oltre. La Mistura s’incendiò subito, e il fuoco divampò lungo il perimetro della sala.
Per un attimo Acrab ebbe paura, ma non c’era tempo.
Ora doveva agire.
Messabher sentì la serratura che scattava e si domandò cosa stesse accadendo. Aveva cercato di tenere il conto delle ore trascorse ed era sicuro che fosse ancora notte. L’esecuzione delle condanne non sarebbe avvenuta prima dell’indomani mattina.
Chi poteva essere dunque?
La porta si aprì di scatto, e allora lo vide: il suo allievo, il volto preoccupato, gli occhi ancor più neri e profondi del solito.
«Maestro, tutto bene?» Corse verso di lui, armeggiando con i ceppi.
«Acrab, ma cosa...» provò a obiettare Messabher, ancora confuso. Era l’unico fra i monaci e chiamarlo così. Il Padre Comune aveva proibito persino ai famigli di usare quel nome.
«Vi porto via di qui.»
In pochi secondi le sue mani e i suoi piedi furono liberi. «Io non credo...»
«Maestro, ce ne dobbiamo andare.»
«L’esilio mi attende comunque» disse Messabher mentre Acrab lo tirava su a forza e lo trascinava fuori.
«Questo posto non è più sicuro.»
Percorsero i corridoi dei sotterranei del monastero di corsa. Era un’altra delle capacità straordinarie di Acrab: aveva una memoria prodigiosa. Gli bastava vedere o leggere qualcosa una sola volta e lo ricordava per sempre. Aveva imparato a decifrare il significato delle parole senza l’aiuto di nessuno a quattro anni, quando aveva messo mano per caso su un libro di preghiere che aveva con sé una serva, una delle poche non analfabete. Ed era stata proprio la genialità di Acrab a spingere il monaco a farne un suo allievo: anche se era proibito, anche se il destino del giovane era un altro. Ma non poteva lasciare che tutto quel potenziale andasse perduto. Anche perché gli faceva paura.
Uscirono al piano superiore, e a quel punto Messabher vide il fumo.
«Che sta succedendo?»
«Non lo so» mentì Acrab. Non era sicuro che Messabher avrebbe approvato il suo piano, e non c’era tempo per spiegare. «In ogni caso, dobbiamo andare via da qui.»
Messabher provò a fermarlo, ma Acrab lo tirava con una forza insospettabile. Del resto, a lui che era il maestro spettava l’esilio, ma al suo allievo i draghi, e non voleva che Acrab morisse.
Attraversarono le cucine e il refettorio e uscirono nel grande salone centrale. I monaci si erano già svegliati e correvano ovunque. Le voci iniziavano a diffondersi, e anche Messabher le colse.
«L’acqua non funziona!»
«Il fuoco non si spegne!»
Finirono nella grande sala capitolare. Era deserta, e i loro passi affrettati sul pavimento rimbombavano. Anche lì c’era del fumo; il rosso delle fiamme cominciava a riverberare sulle pareti.
«Mio Dio...» mormorò Messabher.
Acrab strinse la presa sul suo braccio e fece per accelerare, ma una voce li bloccò.
«Sei stato tu!»
Messabher guardò verso la balconata che circondava quell’ampio locale. Il Padre Comune era lì, il volto già annerito dalla fuliggine e sconvolto dal terrore e dalla furia.
Indicò Acrab. «Serpe velenosa, ti abbiamo salvato, ti abbiamo dato un posto dove vivere! E tu così ci ricambi!»
Acrab strinse le mascelle e tacque. Cercò di nuovo di portare via Messabher, ma lui sembrava incapace di staccare gli occhi dal volto collerico del Padre Comune.
«Non te la caverai così!» urlò ancora l’uomo, proprio mentre Acrab riusciva a far spostare il suo maestro. «Che tu sia maledetto, non varcherai la porta di questo luogo!»
«Acrab...» mormorò piano Messabher, ma il suo allievo non gli permise di formulare la domanda che di certo gli premeva contro le labbra.
«Adesso dobbiamo muoverci. Il resto, dopo» disse Acrab tra i denti.
Il portone apparve davanti a loro.
Acrab ci si gettò contro, ma era chiuso. Senza perdersi d’animo, si mise ad armeggiare col lucchetto.
«Acrab, devi dirmelo, davvero... Sei stato tu?» insistette Messabher.
Il ragazzo ebbe un tuffo al cuore. Non gli interessava nulla della massa di monaci là dentro, ma il suo maestro era diverso: lo stimava, gli aveva insegnato tutto quello che sapeva, lo aveva sostenuto quando aveva chiesto di poter essere ordinato monaco e lo aveva coperto nella sua fuga ad Al-Kather. Era stato al suo fianco sempre e così fedelmente che il mattino dopo avrebbe pagato con la cacciata dal monastero.
Non poteva deluderlo, non lui.
Il lucchetto scattò, e aprì la porta. «Andiamo.»
Fu allora che le frecce piovvero su di loro. Acrab si girò. Alcuni monaci li stavano inseguendo. Il maledetto Padre Comune, anziché trovare riparo dall’incendio, aveva pensato di dare l’ordine di braccarli.
Acrab prese il suo maestro per un braccio, quindi fece due rapidi lanci in sequenza.
Uno degli inseguitori cadde a terra, colpito al centro del petto da un pugnale, mentre si alzava una cortina di fumo sprigionata da una sfera metallica che si era infranta a contatto con il terreno.
«Cos’hai fatto?» urlò Messabher.
«Quello che serve per salvarci» rispose Acrab e lo spinse all’esterno.
Un vento ghiacciato li avvolse. Nevicava fitto, l’inverno era nel pieno.
Acrab si avvolse nel mantello e ne mise un altro sulle spalle del suo maestro. «Dobbiamo correre: ce la fate?»
L’uomo era stordito e spaventato. Ma non erano i monaci alle loro calcagna a terrorizzarlo: era tutto ciò che stava accadendo e che non capiva. Acrab aveva appena ucciso un monaco, ed era lì davanti a lui, calmo, tranquillo.
“Il Padre Comune ha ragione... È stato lui” si disse con repulsione. «Acrab, aspetta. Devi spegnere l’incendio.»
«No! Noi dobbiamo soltanto...