Lui mi fissa, sorride, si piega leggermente sulle ginocchia e vola via. Osservo il suo corpo disegnare un arco nell’aria e scomparire in mare. Quando riemerge, il catamarano sta ancora vacillando sotto il peso della sua spinta. Con sguardo di sfida mi fa un cenno. «Dai, andata e ritorno, a chi arriva primo…»
Lui è mio padre.
Non so cosa fare. Mi volto verso di lei, silenziosa e impaurita come sempre. Con un gesto potrebbe mettere fine alle preoccupazioni che la inseguono. Ma non riesce mai a dirmi di no.
Lei è mia madre.
Torno a guardare il mare e decido. Mi tuffo anch’io. Ora è il mio corpo a disegnare nell’aria un arco che svanisce nel blu.
Riaffioro.
Lui è lì che mi aspetta. Sorride di nuovo, alza un braccio indicando un punto fra le onde e scatta. E io dietro. A inseguirlo. Senza raggiungerlo mai. Come sempre.
Provo rabbia e fastidio mentre mi distanzia in quest’acqua che non rinfresca, non bagna, non è acqua, che cos’è? Sudo come non avevo mai sudato. Mi agito come non sapevo di potermi agitare. Sono disperso in un mare asciutto che mi tira a fondo e non respiro, non ho aria. Allora grido, urlo, torno a galla e mi ritrovo in piedi in una stanza. A guardare l’immagine riflessa dallo specchio.
È la mia, però non mi riconosco.
E la medaglia?
Dove è finita la mia medaglia?
L’avevo al collo, l’ho vinta, ne sono certo.
La stanza inizia a girare ed è quella di Rio. È la camera spoglia del villaggio olimpico. Vado avanti e indietro, faccio rumore, Gabry non si sveglia. Cerco lo smartphone: il display dice che oggi è il 12 agosto. Non è possibile. Il giorno prima della finale.
Vuol dire che non ho ancora fatto niente.
Vuol dire che non ho ancora vinto nulla.
Vuol dire che mi sono illuso fino a oggi, che ho inutilmente festeggiato, firmato autografi, ascoltato inni, stretto mani.
Vuol dire che ho sognato tutto.
Sento le pulsazioni aumentare, il respiro tornare affannoso, scuoto il mio compagno di stanza sull’altro letto ma non si sveglia. Sono solo, mi manca l’aria, mi sembra di affogare di nuovo.
E mi sveglio.
Rumori.
Un rubinetto che cigola, l’acqua che scorre, un piatto che traballa, una tazza che tintinna e quella voce famigliare: sono a Carpi. Mia madre in cucina sta preparando la colazione e intanto parla con qualcuno al telefono. Gli sta raccontando della mia medaglia, del mio oro e della mia Rio.
E torno a respirare.
“E adesso? Adesso, tutto qui?”
È il 13 agosto 2016. Ho appena toccato. Non è stato un “tac… tac!”. Bensì un “tac!” seguito, cinque secondi dopo, da un altro “tac!”. Perché ho dominato.
Eppure, qualcosa non va.
Qualcosa continua a non andare.
Ho appena vinto l’oro alle Olimpiadi e capisco di aver rincorso un sogno lungo quindici anni per non sentire dentro di me praticamente nulla di ciò che mi ero immaginato.
In fondo lo temevo. I presagi di questi giorni si sono avverati: nessuna vera gioia, nessuna vera felicità. Non provo nulla di avvicinabile alle mille emozioni sognate per una vita fantasticando su come sarebbe stato l’oro olimpico. La pressione che mi ero creato per non mollare mai e allenarmi sempre più, le pressioni degli altri, la solitudine, tutto ciò in cui credo si è rivoltato contro.
E adesso non sento niente.
Percepisco solo che finalmente è finita, che ho portato a termine il lavoro, che sono riuscito ad accontentare gli altri, ma non me stesso.
Giochi di Rio e giochi di parole: “loro” che davano per scontato “l’oro” saranno felici… ora. Non sono neppure stanco, se riesco a giocare con le parole. “Visto, l’avevamo detto” potranno affermare loro. E hanno ragione. Il signor Tal dei Tali ha firmato l’atto dal notaio e la pratica può dirsi conclusa. La medaglia più importante è arrivata, ho soddisfatto le certezze altrui. Quanto alle mie, che importa?
Venti minuti fa me ne era rimasta una soltanto: la voglia di finire tutto al più presto. Ho vinto l’oro, signori. Dovrei essere fuori di me per la gioia, ma al momento mi sento solo sollevato. Perché non correrò il rischio di sentirmi dire, un giorno: «Sei un perdente, hai vinto tutto tranne le Olimpiadi, bravo coglione!».
Che sollievo.
Mi sento come quando ci si sveglia da un incubo e solo a pensarci è assurdo. Perché ti spacchi la schiena, vivi di sacrifici, ti isoli dal mondo per inseguire un obiettivo e poi scopri che raggiungerlo è come svegliarsi da un brutto sogno. Lo temevo. Anche se in qualche modo mi ero illuso fino all’ultimo che potesse essere diverso e che sul più bello sarei scoppiato di felicità. A meno che il sollievo non sia felicità.
Con la mano mi ancoro al bordo vasca e attendo che gli altri arrivino. Li ho battuti tutti, sono lontani secondi. Mi sento come Sun Yang quattro anni fa a Londra, quando lo incrociavo a metà vasca tanto era più avanti di noi. Aveva fatto il record del mondo.
E io? Io che cosa ho fatto?
Le urla e gli applausi dell’arena non mi permettono ancora di capire se sono l’ovazione per un primato o solo per l’oro. Respiro, mi volto e cerco lo schermo gigante con i tempi mentre il pubblico sventola bandiere e sensazioni opposte mi avvolgono.
Dio, fa’ che ci sia scritto “record del mondo”. Che sul display appaia quella sequenza di numeri, 14’29” e qualcos’altro, non importa cosa. Oppure fa’ che sia l’esatto contrario, che abbia vinto con il tempo peggiore della stagione, così che possa accontentarmi della bellezza di quest’oro che ancora non riesco a sentire come vorrei: la delusione per un brutto tempo diventerebbe rabbia e la rabbia una secchiata di acqua gelida capace di svegliarmi dall’anestesia di sensazioni di cui sono preda. Perché io ho bisogno di gioire per questa medaglia. Anche se ancora non ci riesco.
Invece, nessun record e nessun pessimo tempo.
14’34”57. Secondo crono dell’anno, quando il primo è mio da mesi. Ancora a tre secondi dal primato mondiale di Sun Yang, come agli Europei.
Niente rabbia, allora.
Niente doccia gelida.
Niente vera gioia.
Niente vera delusione.
Solo la certezza di non poter rivelare quello che ho veramente dentro. Non capirebbero. Nessuno capirebbe. Neppure io riesco a comprendere come si possa vincere l’oro alle Olimpiadi e non scoppiare di gioia. Eppure è quello che mi sta accadendo. Sembra tutto così incredibile: è come se invece di aver preso qualcosa mi fossi tolto qualcosa.
Un peso.
Di certo mi sono levato da una posizione scomoda. Come quando ci si alza all’improvviso con una gamba addormentata, senza più sensibilità, e non si riesce a camminare finendo per incespicare. Ecco. Ora sto incespicando nelle mie emozioni.
Tutto intorno continuano ad applaudire. L’arena dell’Aquatics Stadium sembra casa mia. Sugli spalti e a bordo vasca vedo ovunque maglie azzurre che saltellano e si abbracciano. Gabry sta galleggiando sfinito due corsie più in là. Mi guarda, sorride e come una piuma sull’onda si sposta. Viene ad abbracciarmi. È stata grandiosa la sua gara. Ha conquistato un altro bronzo dopo quello nei 400 stile. Mi stringe a sé come avesse intuito i miei pensieri, ma in realtà non può, nessuno potrebbe capire l’anestesia delle sensazioni che sto vivendo.
Esco dall’acqua.
Che strano. Avverto quasi disagio nel sapere che tutti mi staranno guardando. E dire che dovrei essere preparato. Noi nuotatori siamo sempre nudi davanti al giudizio della gente e delle telecamere, protetti solo da un sottile costume. Non siamo come la maggior parte degli sportivi che possono utilizzare maglie, calzoncini, calze e scarpe come armature immaginarie.
Le interviste televisive sono previste subito, seguono poi quelle con le radio e gli inviati dei giornali. Dopodiché inizia la cerimonia di premiazione. Solo il podio non mi preoccupa. È sempre il momento più bello. Sopra quei gradini le emozioni, la felicità e la confusione diventano una cosa sola. E in più non si è costretti a rispondere alle domande. Mi inquieta, invece, affrontare telecamere e giornalisti, non vorrei far casino e rivelare esattamente quello che sto sentendo dentro di me.
Me la vedo già la scena.
“Caro Greg, che cosa provi in questo momento unico?”
“Bah! Più o meno niente…”
“Il titolo olimpico, Greg, sei nella storia del nuoto, roba grossa. Quanto sei felice?”
“Mica tanto, mi basta non aver fatto la figura del coglione.”
“Ma dai, Greg, non fare così, almeno raccontaci la tua gara…”
“Be’, sì, in effetti è stata un po’ una gara di merda, niente record mondiale…”
“Cavolo, Greg! Proverai pur qualcosa per questa medaglia, sarai un po’ contento? Hai vinto l’oro, che diamine!”
Sono sicuro che finirebbe così l’intervista.
Con il giornalista che dà di matto e io che alla fine la chiudo lì: “Davvero? Davvero ho vinto? E allora perché ho la sensazione di aver comunque perso?”.
Un pazzo. Farei la figura di uno fuori di testa. Che poi forse è la sensazione che più si avvicina al mio reale stato d’animo.
Se solo ripenso ai giorni della vigilia, a Santos, a Cast Away, a Wilson, al pallone a spicchi, alle formichine, all’autista di Rio, agli scricchiolii del mio animo, ai “tranquilli, ci penso io a vincere”, ai “lasciatemi lavorare”, allora mi rendo conto che per davvero è mancato tanto così dall’impazzire per la pressione che avevo sentito e che mi ero caricato addosso.
Ci siamo. Ecco la troupe.
Non ho più tempo, devo affrettarmi a decidere come diavolo affrontare i media.
… pensa Greg, pensa, pensa, pensa…
Potrei fingere. Potrei recitare. Solo un po’. Tanto così. Giusto per dare il tempo alle vere emozioni di svegliarsi e svelarsi. Perché so di averle dentro, anche se adesso sono addormentate, intossicate, scosse, attorcigliate fra loro. Ma qui, su due piedi, come potrei fingere? Per riuscirci avrei bisogno… sì… di pensare intensamente all’ultima volta che, dopo una vittoria, ho provato vera gioia. Forse, così, davanti a televisioni e giornalisti riuscirei per un po’ a mostrare la felicità che ancora non riesco a esternare, dandomi il tempo di riordinare sensazioni e pensieri.
«Caro Greg, ci siamo» dice l’addetto dell’organizzazione mentre mi lascia davanti alla zona delle televisioni. Io mi volto, saluto, provo a sorridere ai giornalisti, al microfono, alla telecamera, a tutti e…
Ma che ci fa lui qui?
E adesso?
Nello spazio di pochi minuti, da quando ho vinto, è la seconda volta che me lo domando.
E adesso cosa faccio?
Davanti a me ho Gianmarco Tamberi, il campione di salto in alto. È qui come ospite della Rai. Come me, anche lui era il favorito per l’oro, ma poche settimane fa si è infortunato a una caviglia e addio sogno olimpico. Quando ho appreso la notizia ho subito pensato: “E se fosse accaduto a me? Sarebbe stata la fine del mondo, da ammazzarsi…”.
No, proprio no.
Davanti a lui non posso permettermi di far trasparire neppure il minimo accenno di confusione o insoddisfazione per questa medaglia. Sarebbe stupido, crudele, ingiusto. Eppure, nonostante la sua presenza, le sensazioni vere restano anestetizzate dal caos che ho dentro.
… pensa Greg, pensa, pensa, pensa…
E all’improvviso mi ritrovo a sorridere. Un po’ per l’espressione e il modo di fare di Gianmarco, ma soprattutto per la gioia intensa della vittoria che all’improvviso mi pervade e mi scalda da dentro. Non si tratta però di questa vittoria. È quella, sofferta, conquistata un giorno d’es...