La neve sotto la neve
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La neve sotto la neve

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La neve sotto la neve

Informazioni su questo libro

A Tallinn lo sanno tutti, la zona dei vecchi baraccamenti di Kopli è terra di nessuno; spacciatori, squatter e delinquenti di ogni tipo ne hanno fatto il loro regno. È un brutto posto per vivere e ancor più brutto per morire e, se potesse parlare, la ragazza lo confermerebbe. Ma la ragazza non parla, è morta; il suo cadavere è stato disteso su un vecchio divano abbandonato e, nella notte, la neve lo ha completamente sepolto. Al commissario Marko Kurismaa la neve piace, e molto, ma non quando nasconde ogni traccia, ogni indizio; gli piace la neve che scricchiola sotto i suoi sci da fondo, non quella che illividisce il corpo nudo di una giovane donna. E mentre la neve del gelido inverno estone continua a cadere inesorabile, Kurismaa inizia la sua caccia all'uomo, la sua corsa contro il tempo, perché per ogni ragazza uccisa ce ne possono essere altre dieci in pericolo. A condividere con lui l'indagine, e non solo l'indagine, c'è Kristina Lupp, che dirige la Sezione Crimini Domestici e Violenze sulle Donne; ma a entrambi qualcosa sembra sfuggire: la pista che porta all'assassino o agli assassini scompare ogni volta che loro si avvicinano troppo alla verità. Fino a che Marko non capisce che la neve, oltre che nemica, può essere un'insospettabile alleata.

Alessandro Perissinotto, dopo essersi nascosto dietro il misterioso Arno Saar per raccontare la prima indagine del commissario Kurismaa, in questo secondo volume della sua serie estone esce allo scoperto, accompagnandoci, con scrittura elegante e avvolgente, nell'intrico di un giallo ad alta tensione, ma anche nella complessa psicologia di un commissario brillante e ruvido, dall'animo gentile ma pieno di spigoli: un personaggio a cui è impossibile non affezionarsi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804678823
eBook ISBN
9788852082139

1

Il mare che circondava la penisola di Kopli quel mattino era di metallo; era d’acciaio e di piombo, a seconda di come la poca luce che filtrava dalle nuvole spesse ne colpiva la superficie liscia, priva di increspature. Jaak Israel lo guardava dall’alto, dal piazzale dell’Accademia Marittima, e sarebbe rimasto a contemplarlo da lì se il suo cane, Kelev, non avesse avuto la cattiva idea di mettersi improvvisamente a inseguire il tram che, appena partito dal capolinea, puntava sferragliando verso il centro di Tallinn. A corrergli dietro non ci pensava neppure; con i suoi ottantatré anni era già tanto se trovava il coraggio di portarlo fuori in mattinate gelide come quella. Lo seguì con lo sguardo e quando lo vide svoltare verso sinistra decise che non era necessario affannarsi oltre misura: sapeva che lo avrebbe ritrovato davanti alla Nikolai Kirik. Perché a Kelev piacesse tanto quella chiesetta di legno non riusciva a spiegarselo; aveva ipotizzato che nel giardinetto che la circondava ci fossero piante con un odore particolare, ma questo poteva avere senso d’estate; ora invece, a febbraio, con tutta la neve che era appena caduta, gli pareva improbabile che il cane fosse attratto da qualche profumo. Si incamminò lungo la strada che costeggiava le rotaie del tram. Gli spazzaneve avevano creato, sul ciglio, una specie di muretto bianco e ghiacciato, ma, malgrado fossero passati da poco, le scarpe di Jaak Israel cominciavano già a sprofondare nello strato morbido che si era depositato sopra l’asfalto. Nel punto dove il cane aveva preso a sinistra, il vecchio si fermò; la chiesetta si vedeva bene e altrettanto bene si vedeva, seguendo il filo delle orme, l’animale fermo davanti all’edificio in legno, col muso rivolto in alto, come rapito da una illuminazione divina.
«Kelev, vieni qui!» gridò l’uomo, ma l’altro non si mosse.
Jaak Israel lo chiamò di nuovo, ma il risultato fu il medesimo. Non poteva rimanere fermo mentre il suo cane cadeva preda di un delirio mistico, ma, più che altro, non poteva restarsene lì, al freddo, con il guinzaglio in mano, come un imbecille; così si avventurò nella neve alta, ma come fu davanti alla cappella, Kelev, destandosi di botto, si rimise a correre lungo la stradina che, snodandosi parallela alla costa, dalla Nikolai Kirik portava all’area dei vecchi baraccamenti operai. Sebbene quello fosse l’unico compagno che gli era rimasto dopo la morte della moglie, Jaak maledisse il giovane segugio: non gli piaceva proprio addentrarsi in quella zona desolata. Senza contare che, se non fosse stato per gli alberi neri e scheletriti che lo fiancheggiavano sui due lati, il viottolo imboccato da Kelev non si sarebbe neppure visto, annegato com’era in tutto quel bianco. Contrariamente al suo padrone, il cane provava un autentico piacere ad affondare nell’inconsistenza di quel manto freddo e poi a venirne fuori con un balzo. E di balzo in balzo, mentre il vecchio lo controllava a distanza, Kelev arrivò a un cumulo di neve più alto degli altri e di forma più regolare, tanto regolare che, chiunque avesse posseduto le più elementari nozioni di geometria, lo avrebbe definito un parallelepipedo di due metri, per uno di profondità e uno di altezza. Dietro al cumulo si vedeva il fianco di una delle case di legno semiabbandonate che rendevano quel posto uno dei più tristi di tutta Tallinn. A Jaak Israel, che a Kopli si era trasferito negli anni Sessanta, avevano detto che quelle case, una decina in tutto, erano state costruite ai primi del Novecento per gli operai che lavoravano lì, ma se fosse vero lui non lo aveva mai saputo; di sicuro erano vecchie ed erano grandi: dei falansteri come si vedevano un po’ ovunque in Europa, ma che, diversamente dai loro cugini francesi, inglesi e tedeschi, non erano in mattoni, bensì in legno. Quando, esattamente, fossero caduti in abbandono, Jaak non lo ricordava bene, ma era certo che da molto tempo tutte le persone “normali” avevano lasciato quelle abitazioni piene di vento anche con le finestre chiuse, piene di freddo e di salmastro. E, al posto delle persone “normali”, erano arrivati gli sbandati, e gli sbandati le avevano occupate, avevano ridotto i giardini a cumuli di immondizie, avevano acceso fuochi per scaldarsi e avevano incendiato almeno un paio di edifici, che adesso, ancora miracolosamente in piedi, si mostravano al mondo come cadaveri architettonici, anneriti e affumicati.
“Che tristezza” pensò il vecchio procedendo a fatica verso il suo cane fermo davanti allo strano parallelepipedo. E poi, scorgendo uno scivolo e un’altalena quasi nuovi, si chiese come mai l’amministrazione comunale avesse speso dei soldi per abbellire quel luogo dimenticato da Dio, ma, purtroppo, non dagli uomini. “Che ci viva ancora qualche famiglia a posto? Qualche coppia con bambini?” E mentre almanaccava intorno a questa ipotesi, giunse finalmente al grosso cumulo di neve davanti al quale Kelev si era fermato e si era messo ad abbaiare senza sosta. Strano, Kelev non abbaiava mai.
Jaak Israel guardò attentamente un punto preciso, a un metro circa dal muso del cane: dal parallelepipedo bianco spuntava, violaceo, un braccio nudo sul quale la neve sembrava non volersi fermare; il braccio terminava con una mano dalle unghie laccate. Alla possibilità che la donna fosse ancora viva, Jaak Israel non credette neppure un attimo: per lui, che a dieci anni era schiavo tra gli schiavi nel campo di concentramento di Klooga, per lui che era stato uno dei pochi a sopravvivere allo sterminio degli ebrei estoni, per lui, quel colore violaceo significava una cosa sola. E sapeva di non sbagliarsi; per questo, con il suo cellulare dai tasti giganti, compose il 112. Poi, attaccato Kelev al guinzaglio, si mise ad aspettare l’arrivo dei poliziotti, in piedi, immobile, con gli occhi fissi su quel braccio morto e la mente che, percorrendo a ritroso il tempo, andava ad altre braccia e ad altri morti.

2

Kaspar Mand bussò alla porta del commissario Marko Kurismaa battendo due colpetti delicati sul vetro traslucido, poi aspettò che da dentro giungesse un chiaro invito ad aprire. Qualche anno addietro, appena preso servizio come ispettore alla polizia criminale, aveva commesso un paio di volte l’imprudenza di entrare senza attendere e si era trovato di fronte il commissario che russava, con la testa appoggiata al piano della scrivania: quando Kurismaa aveva aperto gli occhi, l’imbarazzo di entrambi si poteva tagliare con il coltello. Malgrado avesse più volte ribadito la stima che nutriva nei suoi confronti, il suo superiore non gli aveva mai spiegato il motivo di quei colpi di sonno; nondimeno, Kaspar aveva intuito che non si trattava solo di un banale affaticamento o dei postumi di una notte brava: qualcosa di patologico si nascondeva dietro a quegli episodi, qualcosa di cui lui non avrebbe mai parlato, con nessuno.
Vedendo che non giungevano risposte, Kaspar vinse la sua sconfinata timidezza e bussò di nuovo.
«Avanti.»
Il giovane ispettore entrò e si piazzò, in piedi, davanti al suo capo.
«Siediti» fece l’altro senza distogliere lo sguardo dallo schermo del computer.
Lui obbedì e rimase qualche secondo a osservare la faccia contrariata del commissario, la faccia di quando litigava con la tecnologia informatica.
«Se sta facendo qualche ricerca tra i documenti d’archivio posso aiutarla.»
«Ti ringrazio, ma sto solo tentando di capire quanti anni mi mancano per lasciare il lavoro e se i soldi della pensione mi basteranno per continuare a vivere in Estonia o se dovrò trasferirmi in qualche paese del terzo mondo. Ho provato a mettere i miei dati nel programma di calcolo, ma si è bloccato tutto.»
«In pensione lei?» fece l’ispettore stupito. «Ma se ha solo cinquant’anni.»
«Cinquanta passati, Kaspar, e se stai per dirmi che non li dimostro fermati prima: i complimenti sull’età e sul fisico sono sempre un’ignobile adulazione, ma, se a farmeli fosse una donna, almeno potrei sperare in qualche epilogo erotico.»
Se la sua fidanzata, o amante, o compagna o come diavolo voleva definirsi, lo avesse sentito in quel momento, lo avrebbe schiaffeggiato o, più probabilmente, lo avrebbe trafitto con uno sguardo di fuoco degno dei cartoni animati giapponesi. Ma lei non c’era… E poi, era proprio per mantenere segreto il loro amore che lui si lasciava andare a quelle battute da macho. “Non è bene che due poliziotti sbandierino ai quattro venti la loro relazione. Le storie tra colleghi non sono mai viste di buon occhio”; questa era la posizione della sua fidanzata e da lì non c’era modo di smuoverla.
«Basta!» sbottò Marko premendo un pulsante sullo chassis del computer e spegnendolo nel modo più brutale che esistesse se si eccettuavano le martellate. «Cosa sei venuto a dirmi?»
«A Kopli hanno trovato mezz’ora fa il corpo senza vita di una giovane donna.»
«Chi lo ha trovato?»
«Un signore anziano, anzi, il suo cane. Ha chiamato il 112 e sono accorse subito delle pattuglie. Ora chiedono il nostro intervento.»
«La Scientifica è stata allertata?»
«Stanno andando là adesso.»
«Allora fermali e di’ che ci aspettino, andiamo insieme, come un’allegra comitiva.»
Mand scattò immediatamente in piedi e si avviò verso il suo ufficio.
«Ci vediamo di sotto» urlò Marko, poi indossò la giacca a vento, il berretto, i guanti, e scese le sei rampe di scale, due per piano, che lo separavano dal cortile.
Nel piazzale interno che fungeva da parcheggio per le macchine assegnate alla sede centrale della polizia giudiziaria, un agente giovanissimo, quasi un bambino, armato di una piccola e rumorosa fresa spazzaneve, combatteva una battaglia impari con il cielo che da ore mandava giù larghi fiocchi. Una Skoda Octavia, con la livrea bianca e blu e la scritta “Politsei”, stava scaldando il motore. Marko la raggiunse e si sedette sul sedile posteriore, perché accanto al guidatore si era già sistemato Siimo Kink, il collega della Scientifica.
«Ciao Marko, tutto bene?»
«Sì, tutto bene, a parte il fatto che non ho nessuna voglia di andare a vedere una ragazza morta. Ogni tanto penso a quei film americani dove il gran capo minaccia i sottoposti di mandarli a dirigere il traffico: forse mi piacerebbe dirigere il traffico e non vedere più dei morti ammazzati.»
«Puoi sempre proporlo a Kalio.»
Kalio era Kalio Kuslap, commissario capo. Erano in pochi a poterlo chiamare per nome. Marko lo faceva perché, in polizia, erano cresciuti insieme, fin dai tempi dell’accademia. Siimo invece, un po’ più giovane di loro, la stima di Kuslap se l’era guadagnata in anni di lavoro inappuntabile, e con la stima era arrivata anche la familiarità.
«Possiamo partire?» domandò l’autista.
«Aspetta, arriva anche Mand.»
Un attimo dopo, Kaspar apriva la portiera e si sedeva accanto a Kurismaa.
L’auto partì e, appena uscita dal cancello, girò a destra sulla Tööstuse. Marko, dal finestrino, contemplò svogliatamente le brutte case e poi le gru e gli impianti che davano a quel tratto di costa l’aspetto di una classica periferia industriale; dieci minuti dopo erano arrivati.
«Bravi, ottimo lavoro» disse Siimo Kink scendendo dalla macchina e stringendo la mano all’agente che gli venne incontro.
Le pattuglie intervenute avevano bloccato tutti gli accessi alla zona del ritrovamento, ma senza avvicinarsi troppo con le auto, per preservare “la scena del crimine”.
«È laggiù, commissario» fece lo stesso agente quando anche Kurismaa gli si fu avvicinato, e indicò con la mano il punto dove era stato ritrovato il cadavere. Poi continuò: «Gli unici che sono andati fin là sono il medico che ha constatato la morte e i colleghi arrivati per primi; tutti hanno evitato di camminare sulla strada per non compromettere eventuali tracce».
«Hanno fatto bene» ribadì Siimo, «ma mi sa che, con tutta questa neve, di tracce ne troveremo ben poche.»
In effetti, al di là del nastro teso dalla polizia, il terreno era d’un biancore uniforme.
Kink prese dal bagagliaio della Skoda una valigetta piuttosto voluminosa e Mand si offrì subito di portargliela.
«Non dico di no. Arrivare fin là con la neve alle ginocchia mi sembra già abbastanza faticoso anche senza dover portare tutta l’attrezzatura.»
«È solo perché non fai movimento» lo stuzzicò Marko.
«A ognuno le sue passioni: tu ami lo sport, io la buona tavola.»
«Vorrà dire che la prossima volta che vado a sciare a Otepää ti porto con me.»
«Non ci pensare neppure: credo di essere l’unico estone purosangue che odia lo sci di fondo.»
«Allora ti porto a fare nordic walking; io lo faccio almeno tre volte la settimana. Pensa che ho comprato persino l’attrezzatura invernale: scarponcini e racchette da neve speciali. Ce l’ho ancora imballata nel bagagliaio della macchina; se vuoi la inauguriamo insieme.»
«Non hai capito. Io odio qualunque cosa abbia a che vedere con il freddo, i bastoncini e il movimento. Prima che i fanatici cominciassero a mitragliare i turisti sulla spiaggia, ti avrei detto che il mio posto ideale era la Tunisia: io sono nordico per errore, nel mio patrimonio genetico c’è qualcosa di mediterraneo.»
«Va bene, mi arrendo; però adesso andiamo a vedere cosa è successo.»
Già, quel parlare di sport, quella leggerezza fuori luogo non erano che un sistema per rimandare l’incontro col cadavere, ma ora, quell’incontro non poteva più attendere.
Per continuare a preservare il più possibile la scena del crimine, camminarono mettendo i piedi nelle orme lasciate dai colleghi e in un paio di minuti raggiunsero gli agenti che erano intervenuti per primi.
«Non abbiamo toccato niente» disse uno di loro prima ancora di salutare.
In effetti, dal cumulo di neve avevano tenuto la stessa distanza che aveva tenuto il vecchio e, come lui, erano rimasti a guardarlo fino a quel momento.
«Chi è?» chiese sottovoce Marko all’agente puntando il mento verso la figura scura e immobile a qualche passo da loro.
«È l’uomo che ci ha chiamati. Non siamo riusciti a convincerlo a venir via. È stato il suo cane a portarlo fin qui.»
«Come si chiama?»
«Kelev.»
Marko si avvicinò all’uomo.
«Buongiorno signor Kelev, sono il commissario Kurismaa e vorrei parlarle del ritrovamento…»
Il vecchio abbozzò un sorriso: «Mi chiamo Jaak Israel. Kelev è il nome del mio cane.»
Marko si volse indietro a guardare l’agente e gli diede mentalmente dell’imbecille, ma poi pensò che, in quella stessa situazione, suo padre, professore di linguistica all’Università di Tartu, avrebbe parlato non di imbecillità, ma di contesti opachi, di coreferenza e di trappole del senso. Peccato non averlo lì, peccato che fosse morto da così tanto tempo.
Il vecchio riprese: «Kelev è un nome ebraico: significa semplicemente cane, ma qui da noi ricorda il nome di una persona1 ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA NEVE SOTTO LA NEVE
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. Copyright