«Okay, sentite questa. Se vi fosse data la possibilità di rispondere a una sola domanda, una qualsiasi, quale scegliereste?»
Eva era distesa sulla schiena e guardava il cielo mentre parlava. L’estate era arrivata piuttosto tardi quell’anno, e la sensazione del sole sulla pelle, insieme al vino e alla spalla di Lucien sotto la sua testa, era inebriante. Quella mattina aveva sostenuto l’ultimo degli esami previsti al primo anno e l’indomani sarebbe tornata a casa per la pausa estiva, ma nel giro di un paio di mesi si sarebbe di nuovo trovata lì, a vivere una vita distante dal suo vecchio mondo, proprio come aveva sperato quando era partita per l’università l’autunno precedente.
I quattro amici erano sdraiati l’uno accanto all’altro su una coperta quasi in cima a Brandon Hill. Non si erano dati la pena di entrare nella torre di pietra abbarbicata sulla collina e di salire la scala a chiocciola fino alla terrazza panoramica, ma in ogni caso quel punto di osservazione regalava loro una splendida vista della città lungo il fiume che scorreva sinuoso e oltre i magazzini abbandonati, verso l’interminabile ragnatela di strade e di case che si estendevano a perdita d’occhio. Nell’erba alta c’erano due bottiglie di vino aperte, una infilata in un logoro scarponcino stringato, l’altra, rovesciata, che gocciolava sul prato.
Sylvie si rotolò a pancia in giù e si scostò dagli occhi qualche ciocca dei suoi capelli ramati. «Qualsiasi domanda?»
«Sì» disse Eva. «Puf.»
«Eh?»
«Era il suono del genio che sparisce, visto che hai sprecato la tua domanda.»
Sylvie le lanciò un’occhiataccia. «Non è giusto. Me ne spetta un’altra. Vorrei conoscere il significato della vita.»
«Questa in realtà non è una domanda.» Benedict le diede una leggera gomitata sul fianco. «Comunque, probabilmente verrebbe fuori che la risposta è “quarantadue”, e quindi avresti di nuovo perso la tua occasione.»
Sylvie fece scorrere pollice e indice lungo una foglia di carice, spingendo fuori i semi e raccogliendoli in mano per poi soffiarli sul viso di Benedict. «Okay, sapientone. Tu che cosa chiederesti?»
Benedict sbatté le palpebre. «Dovrei pensare a come formulare la domanda, ma in sostanza vorrei conoscere la teoria della grande unificazione dell’universo.» Rifletté per un istante. «Oppure che cosa succede quando moriamo.»
«Che ne dite delle estrazioni del lotto della prossima settimana?» chiese Eva pigramente.
«Dovresti essere pazza a sprecare la tua domanda per qualcosa di tanto banale» disse Benedict, facendo accigliare Eva. Era facile pensare che il denaro fosse qualcosa di irrilevante quando provenivi da una famiglia come quella di Benedict, ma se eri cresciuto in una piccola città del Sussex, povera di fascino però ricca di imperturbabile conformismo, il mondo ti appariva un posto ben diverso. Benedict non avrebbe mai capito cosa volesse dire alzarsi ogni weekend per andare a svolgere un monotono lavoro in un supermercato come aveva fatto Eva nei quattro lunghi anni prima del suo arrivo a Bristol, quando gli stessi ragazzini che gettavano regolarmente il suo zaino al di là di una siepe durante il tragitto verso la scuola entravano nel minimarket per buttare giù la merce dagli scaffali solo per il gusto di metterla nei guai. Non c’era via di scampo: se li avesse ignorati, avrebbe corso il rischio di essere licenziata, ma se avesse chiamato la sicurezza, di certo il suo zaino sarebbe finito in una pozzanghera il lunedì successivo.
In un posto come quello, praticamente qualsiasi cosa poteva farti sentire emarginata: indossare gli abiti sbagliati, superare gli esami con voti troppo alti, non essere in grado di chiacchierare dei programmi tivù più “in” perché tuo padre non riteneva utile avere un televisore in casa. L’unico vero spiraglio di luce era arrivato con Marcus, che per breve tempo era stato il suo ragazzo, perché, a prescindere da quanto tu fossi impopolare, c’era sempre un teenager spinto dalla libido a superare quella barriera. Marcus, dal canto suo, era molto popolare, ma sorprendentemente si era interessato a Eva che, diventando la sua ragazza, per qualche mese aveva goduto di una riluttante accettazione nel gruppo.
Quella relazione l’aveva portata alla piacevole seppur poco dignitosa perdita della verginità nel boschetto dietro la scuola dopo aver bevuto metà bottiglia di sidro su una panchina, il che, a quanto pare, aveva costituito sia appuntamento che preliminari. A lungo andare, Marcus era diventato insofferente e l’aveva scaricata quando un pomeriggio molto atteso, che avrebbero dovuto passare a letto approfittando dell’assenza dei suoi genitori, era finito prima ancora che lui si sfilasse i pantaloni, ed Eva aveva avuto la malaugurata idea di cercare di alleggerire l’atmosfera facendo qualche battuta. Aveva letto su “Cosmopolitan” che per una coppia era importante ridere insieme a letto, inoltre nell’articolo si sosteneva anche che giocherellare con i genitali maschili come se si trattasse di una palla da tennis era una buona idea, ma neppure quella si era rivelata una mossa particolarmente intelligente. Se non altro, a quel punto Eva era riuscita ad approdare alla relativa sicurezza dell’ultimo anno delle superiori, ma la sua vita, nonostante fosse diventata sopportabile, non era certo fatta della stessa sostanza dei sogni. Il giorno prima di partire per l’università aveva preso la divisa in poliestere che aveva indossato ogni sabato per quattro lunghi anni, l’aveva portata in veranda e le aveva dato fuoco, giurando solennemente davanti alla piccola colonna di fumo che non sarebbe mai più tornata indietro.
«E tu, Lucien?» Benedict diede un calcetto alla gamba del fratello di Sylvie, e parlando interruppe i ricordi di Eva. «Qual è la tua domanda?»
«Cavolo, non so. L’elenco di tutte le ragazze che sono andate su di giri pensando a me?»
Eva chiuse gli occhi per respingere la tentazione di guardarlo e si augurò che il rossore sulle sue guance non fosse troppo evidente. “Non lo sa nessuno” si disse. “Non possono vedere l’Atlante di Lucien che hai stampato nella mente, dai capelli scuri arruffati all’efelide impressa all’interno del suo polso sorprendentemente delicato.”
Sylvie emise un lungo, soffocato gemito di disgusto e Benedict rise. «Non credo che mi piacerebbe» rifletté. «Toglierebbe alle cose il loro alone di mistero.»
«La verginità ha un forte ascendente su quest’uomo» lo schernì Lucien con la sua migliore imitazione della voce di Yoda.
«Ti sbagli» mormorò Benedict. «In ogni caso, probabilmente ci sarebbero delle persone orribili su quella lista. Il tuo insegnante di ginnastica delle superiori o qualcosa del genere.»
«Okay, solo donne. Sotto i trenta.» Lucien si protese per prendere la bottiglia di vino semivuota infilata nello scarponcino di Eva, e nel farlo la costrinse ad alzare la testa dalla sua spalla senza troppi complimenti.
Lei si mise a sedere, fingendo che quel gesto di indifferenza non le importasse. Era tipico di Lucien, pensò, attirarla a sé in quel modo e poi allontanarla bruscamente. Era un balletto che si ripeteva da circa un anno, da quando lei era arrivata a Bristol e la sua nuova amica Sylvie le aveva presentato il suo scapestrato fratello maggiore. Lucien non era uno studente; si definiva un imprenditore, anche se Eva non sapeva esattamente di cosa si occupasse. Sylvie aveva scelto di studiare a Bristol solo perché Lucien ci viveva già, qualsiasi fosse l’attività che svolgeva nel poco tempo che non passava a gironzolare per le residenze universitarie con tutti gli altri.
«Bene» disse Sylvie, alzandosi da terra e scrollandosi l’erba dai jeans. «Direi che ho sentito abbastanza. Vado in biblioteca a fare nottata: devo consegnare l’ultima prova scritta entro domani.»
Sylvie era famosa per la sua avversione per le prove scritte che, con suo leggero sconcerto, le venivano assegnate nel corso di storia dell’arte, e riteneva inconcepibile mettersi al lavoro con una scadenza superiore alle quarantotto ore. La laurea sarebbe stata semplicemente un modo per guadagnare un po’ di tempo nella sua traiettoria per diventare un’artista ammirata, una prospettiva che, com’era opinione comune del gruppo, appariva inevitabile. Gli ingredienti c’erano tutti: un prodigioso e ossessivo talento per il disegno e la pittura e un occhio stravagante ed eccentrico, sostenuti da un aspetto straordinariamente gradevole e da un’attitudine dura e irriverente nei confronti della vita. Emanava un che di luminoso e vitale: in sostanza, era una di quelle persone che generano un campo magnetico, facendo sì che gli altri le si agglomerino intorno e cerchino di compiacerla. Era impossibile immaginarsi per lei un destino diverso da un grande successo.
«Devo andare anch’io» disse Benedict a malincuore. «Parto domattina presto e non ho ancora fatto la valigia.»
Eva e Lucien salutarono gli altri e si distesero sull’erba, osservandoli mentre scendevano lungo le pendici della collina. Una leggera venatura violetta iniziava a insinuarsi nella luce del tardo pomeriggio annunciando l’arrivo del crepuscolo, ed Eva si sentiva stordita per via del vino acidulo e dozzinale. Lucien si girò sul fianco in modo da guardarla negli occhi.
«E così, eccoci qua» disse infilando la mano nella borsa di plastica accanto a sé. «A quanto pare tocca a noi due bere l’ultima bottiglia, Eva.»
Il suo nome pronunciato da Lucien suonava misterioso e allusivo. Era la cosa più esotica che possedeva, e le era sempre piaciuto. Suo padre, un socialista convinto, a volte sosteneva per scherzo di averla chiamata così in onore di Eva Perón, ma lei sapeva che sua madre l’aveva scelto semplicemente perché le piaceva. Se fosse dipeso da lui, le avrebbe dato un nome banale e poco appariscente come Jane o Susan.
«Eva» ripeté Lucien. «È un bel nome.»
«L’ha scelto mia madre» disse lei.
«È morta, vero?» chiese lui, ma non in modo sgarbato.
«Sì. È morta per un cancro al seno quando avevo cinque anni. Non ricordo molto di lei.»
Lucien tornò a distendersi sulla schiena e rivolse il viso al cielo, chiudendo gli occhi.
«Mi spiace» disse. «Non dev’essere facile. Anche se non può essere peggio di avere una madre alcolizzata.»
Gli occhi di Eva si spalancarono. Sylvie le aveva accennato quanto era stato difficile per lei e suo fratello crescere con due genitori separati, una madre che beveva troppo e i trasferimenti frequenti, ma Lucien si era sempre nascosto dietro un’impenetrabile maschera di invulnerabilità. Quella era la prima volta che Eva lo sentiva anche solo fare un’allusione alla sua infanzia.
«Sylvie mi ha detto che vostra madre beveva parecchio» osservò con cautela.
«Sì. E ho delle cicatrici che lo provano.»
Lucien allargò la mano sinistra e gliela mostrò. La pelle delle ultime due dita e di parte del palmo era segnata da una cicatrice rosea e satinata così estesa che il mignolo era visibilmente più vicino all’anulare di quanto avrebbe dovuto essere. Poco tempo dopo essersi conosciute, Eva, non volendo rischiare di offendere Lucien, aveva indagato al riguardo con Sylvie, ma l’amica si era limitata a scrollare le spalle e a borbottare qualcosa su una bruciatura accidentale che il fratello si era procurato da piccolo. In quell’occasione Eva aveva percepito una certa reticenza a parlarne, e non se l’era sentita di insistere: anche se Sylvie talvolta era loquace e scanzonata sulla sua bizzarra vita domestica – raccontava di aver trovato sua madre addormentata tra i cespugli, o di essere stata redarguita a scuola per aver portato un pacco formato famiglia di KitKat come pranzo perché era l’unica cosa che c’era in casa in quel momento –, Eva aveva imparato in fretta che quello era un argomento di cui l’amica parlava soltanto alle sue condizioni.
Ora Eva fece scorrere le dita sulla pelle lucida e tesa. «Lucien, mi dispiace tanto. È stata tua madre a farti questo? Non ne avevo idea.»
Lui non la guardò. «No, non proprio. Era ubriaca persa e c’era una vecchia stufetta accesa nella stanza. Io ero piccolo, avrò avuto tre o quattro anni, ho allungato la mano e l’ho afferrata. Lei non mi ha mai fatto male di proposito, anche se non posso dire altrettanto di un paio dei suoi fidanzati. Era un po’ una madre di merda solo quando beveva, cioè quasi sempre, all’epoca.»
«Tu e Sylvie siete stati fortunati a poter contare l’uno sull’altra» disse Eva. «Non mi stupisce che siate così legati.»
«Sì. Ci siamo sempre protetti a vicenda.»
Gli occhi di Lucien incontrarono quelli di Eva per la prima volta da quando lui le aveva mostrato il palmo, e nello stesso istante entrambi si resero conto che le dita di lei erano ancora posate sulla pelle segnata dalla bruciatura. Per una frazione di secondo Eva scorse qualcosa che non aveva mai visto prima negli occhi di Lucien, qualcosa che era al tempo stesso più umano e più animale rispetto alla solita impenetrabile, sardonica versione di sé che lui le aveva presentato fino a quel momento. Ebbe la bruciante sensazione di vederlo realmente per la prima volta, di vedere non solo quello che Lucien voleva mostrarle, ma il bambino che era stato, e la vita che aveva plasmato quello che lui era diventato da allora. Mentre questi pensieri le attraversavano la mente, Lucien, con lo sguardo già lontano e sfuggente, chiuse le dita sulla cicatrice e ritirò la mano.
Incapace di sopportare la perdita della loro nuova intimità, Eva fece una cosa che non aveva mai avuto l’ardire di fare prima: si chinò e gli prese di nuovo la mano allacciando le dita alle sue. Lucien era per metà sotto di lei ora, il viso di Eva sopra il suo, i capelli che gli sfioravano la guancia. Quando alzò gli occhi, fra di loro passò qualcosa di nuovo, qualcosa di simile a una scarica elettrica, e questa volta lui non ritirò la mano. Anzi, sfoderò un sorriso avido, sollevò l’altra mano e la fece scivolare dietro la nuca di Eva, affondandole le dita nei capelli e attirandola verso di sé.
Altro vino, altre chiacchiere, e poi una passeggiata verso casa all’imbrunire, un po’ brilli e malfermi sulle gambe, con le braccia che si sfioravano, i mignoli allacciati, bevendo a canna dalle lattine di birra che avevano comprato per strada nel tentativo di neutralizzare la stranezza e l’imbarazzo di ciò che stavano facendo.
Ogni ambiguità era svanita nell’istante stesso in cui erano entrati nella stanza di Eva e avevano chiuso la porta. Lucien l’aveva spinta contro il muro baciandola con prepotenza e aveva iniziato a sbottonarle la camicetta, e lei non aveva nemmeno avuto il tempo di pensare, soltanto di perdersi nella pressante concitazione del momento.
A letto, però, la concitazione si era dissolta nel ridicolo. C’erano stati denti che sbattevano e gorgoglii intestinali, e i jeans di Eva che si erano impigliati nelle caviglie rischiando di farla cadere quando aveva cercato di liberarsene. C’era stato il primo preservativo ch...