Al controllo passaporti in aeroporto, l’agente dell’immigrazione ci chiese dove avessimo passato l’estate e se fossimo in regola per rientrare negli Stati Uniti. Sapevo cosa dovevo rispondere.
Ettore ci aveva lasciato le sue indicazioni: «Qualunque cosa vi chiedano, spiegate che siete in regola, che avete diritto a tutto e che dipendete da vostro padre che è giornalista».
I nostri passaporti dicevano che dipendevamo dal suo “visto per rappresentanti dell’informazione mediatica”, ma il problema era che Ettore non era un giornalista, per cui era sempre difficile rispondere a quelle domande. Guardammo la lunga coda di persone dietro di noi nella sala immigrazione, era uno spazio così grande, così promettente. Qualunque cosa poteva succedere in un paese che aveva una sala come quella. I cittadini americani sfrecciavano lungo le loro corsie preferenziali. Venivano accolti con sorrisi e chiacchiere amichevoli sulle loro vacanze estive, tutti gli altri dovevano rispondere a domande molto diverse, come per esempio “Sei un terrorista?”.
«Chi è lui?» mi chiese l’agente indicando Timoteo.
«Mio fratello.»
«Si deve togliere il cappellino.»
Gli feci cenno di rimuovere il cappello.
L’agente osservava i nostri vestiti, poco convinto.
«Dove sono i vostri genitori in questo momento?»
«Agli arrivi, credo. Ci staranno aspettando.»
«Sì, ma perché viaggiate da soli?»
«Perché abbiamo passato l’estate in Italia e loro non sono venuti.»
«E perché no?»
«Perché… stavano lavorando…» osai.
«Qui?»
«Sì… qui, ma per una società italiana.» Sentii le prime ondate di panico.
Non ci era chiaro come funzionasse il loro permesso di lavoro. Sapevamo che il governo americano era disposto a chiudere un occhio con chi lavorava nei media, purché venissero pagate le tasse e non si uscisse dal proprio ambito di lavoro. Per esempio, ovviamente, un giornalista non poteva fare il regista.
«Dite che siete dipendenti da vostro padre che fa il giornalista. Ditegli che lui lavora qui, ma non fategli capire che lavoro qui, chiaro?» Queste erano le istruzioni paradossali che ci aveva dato Ettore per l’incontro con gli agenti dell’immigrazione.
«Papà, cosa vuoi dire?»
«Che lavoriamo qui, ma non lavoriamo veramente qui. Lo sapete cosa voglio dire.»
Io facevo cenno di sì, ma non capivo, e avevo sempre pensato che nel momento del bisogno ci sarebbe stato lui a parlare con i poliziotti. Ora però toccava a me. Cercai di ricordare le nostre conversazioni.
«Non ti fidare mai delle tattiche fasciste di quelli dell’immigrazione. Proveranno a intimidirvi, vi interrogheranno come sergenti delle SS, ma non avranno niente da imputarvi. Siamo tutti innocenti fino a prova contraria. Vaffanculo a loro e le loro strategie di deportazione. Se insistono con le domande, ditegli che siete venuti a trovare vostro padre, ma non ditegli che vostro padre vive qui. Ditegli che lavora qui temporaneamente. Lo scopo del vostro viaggio non sono gli affari. Siete qui per andare a scuola. Anzi no, meglio di no. Lasciate perdere questa cosa della scuola. In effetti, non sono sicuro che possiate andare alla scuola pubblica legalmente. Mi sa che potete andare solo a quella privata. Magari ditegli che andate in una scuola privata. Qualunque cosa fate, non dite mai che sono un regista. E se vi sembra che si stiano veramente incazzando, ritirate tutto quel che avete detto e dite che siete in vacanza.»
«Glielo chiedo un’altra volta, signorina. Perché i vostri genitori non sono venuti in Italia con voi? Le ricordo che mentire al governo metterà a repentaglio il vostro ingresso negli Stati Uniti.»
«Perché stanno facendo un film!» crollai, sentendomi in colpa e sollevata allo stesso tempo.
«Stanno facendo un film?»
«Sì…?»
«E ce l’hanno il permesso per lavorare negli Stati Uniti?»
«Sì, certo, che ce l’hanno» intervenne Timoteo.
«Non avete il permesso di fare film con un visto da giornalisti italiano. Potete lavorare solo per il vostro datore di lavoro italiano. Stanno facendo un film italiano?»
Ricordai il consiglio di mio padre e ritirai tutto.
«No, mi scusi, mi sono confusa. Volevo dire che sono in vacanza… Siamo in vacanza… siamo… tutti in vacanza, una lunga vacanza di famiglia.»
«Per favore, fatevi da parte, prendete i vostri passaporti e seguiteci.»
«Dove andiamo?»
«Vi dico dove non andate: in questo paese.»
Ci scortarono verso la zona del ritiro bagagli, dove le nostre valigie vennero annusate da un pastore tedesco.
«Sentirà l’odore dei gatti dell’isola» scherzai con l’agente, che inarcò le sopracciglia.
«I nostri cani non sono addestrati per riconoscere gatti. Avete passato tutta l’estate in Italia e volete dirmi che non avete niente da dichiarare?»
Guardai in basso. Come faceva a saperlo?
Le nostre valigie furono aperte alla dogana, esposte all’umiliazione pubblica: prosciutti, mortadelle, pecorino, Parmigiano Reggiano, pizza bianca – la mia preferita, quella del forno di Campo de’ Fiori –, salami e una forma enorme di caciocavallo. Gli agenti si avvicinarono e scossero la testa.
Gli altri passeggeri italiani del volo sfilarono accanto alla nostra esposizione di salumi e formaggi.
«Oddio» esclamò una finta bionda che avevo notato in business class con un completo Louis Vuitton da viaggio. Si tappò il naso inorridita dall’odore di salumeria. «Ma cosa siete, immigrati siciliani dell’Ottocento? Siamo a Los Angeles, è il Ventesimo secolo. Esistono i mercati di cibo internazionali, lo sapete?»
Ci trasferirono dall’area bagagli in una sorta di sala da interrogatorio con gli specchi finti. Ci sedemmo dall’altra parte dello specchio, quella dove tenevano la gente cattiva.
Un signore pakistano accanto a noi piangeva: la sua famiglia era agli arrivi ma non gli permettevano di andare a salutarla. Doveva tornare in Pakistan. Non vedeva la figlia da tre anni. Quando cercai di consolarlo, mi guardò pieno di speranza e mi chiese se avessi figli. Per qualche motivo risposi che sì, che ce li avevo e che li amavo moltissimo. Durante l’estate ero cresciuta, evidentemente.
Mio fratello aggrottò le sopracciglia. «Ma che cazzo dici?» chiese in italiano.
«Stai zitto» risposi e tornai a parlare con il pakistano. «I miei bambini sono qui… con mio marito che mi aspettano.»
Il tipo scosse la testa, rattristato dalla mia vicenda. Ma l’avevo fatto sentire meno solo.
Un inglese entrò discutendo con un agente. Era uno scrittore al quale non avevano dato il permesso per il tour di presentazione del suo libro autobiografico a causa della “condotta immorale” descritta nelle sue pagine.
«Mi avete già interrogato per otto ore nell’altra stanza. Non vi dirò niente che non vi abbia detto prima. È tutto nel mio libro. Tutta la mia vita. Potete leggervelo. In Inghilterra è un bestseller… è per questo che sono qui in tour, capito, geniacci?»
Era alto e bello, con occhi marroni a spillo, di chi prende oppiacei, e le labbra piene, forse rifatte. Sembrava più un cantante glam rock che uno scrittore. Avevo sentito parlare del suo libro. Aveva fatto scalpore. Lui era stato nelle Filippine e si era fatto crocifiggere per poi scriverne un racconto, un tipo abbastanza sovversivo.
«I viaggiatori che sono stati arrestati nel loro paese per crimini come abuso di sostanze non possono entrare negli Stati Uniti.»
«Ah sì? E allora perché non cacciate a calci tutti i vostri crackomani? Buttateli nell’oceano, no? So che siamo vicini a South Central. Lì ce ne sono parecchi.»
Si voltò verso di me: «Mi sono pure tolto il mio cazzo di smalto dalle unghie per fare bella figura con questi idioti».
Scossi la testa in segno di solidarietà, eravamo finiti in una giungla, ma dopo qualche ora di viavai ci eravamo già fatti una piccola scorza ed ero troppo stanca per simpatizzare con lui.
Lo scrittore fu scortato fuori dalla porta e messo a bordo di un aereo che tornava in Inghilterra.
Il tipo pakistano ci guardò e si toccò la tempia sinistra con l’indice per dire che lì dentro erano tutti matti.
Dopo ore nella celletta con gli specchi, circondata da orde di sconosciuti che gridavano impugnando documenti, mi resi conto che non era degli agenti che avevo paura, né delle loro “strategie da deportazione”, come le chiamava mio padre. Quello di cui avevo davvero paura era che mi rispedissero indietro. Un anno prima avrei fatto carte false per essere rimandata gratis in Italia, ma dopo quell’estate non ne ero più tanto sicura.
«Siete pazzi? Perché diavolo gli avete detto che eravamo qui in vacanza?» ci urlarono i nostri genitori prima ancora di salutarci, quando finalmente varcammo la soglia della sala degli arrivi.
«Non lo so! Ce lo avevi detto te che alla peggio dovevamo sempre giocarci la carta vacanze.»
«Sì, ma la carta vacanze non si può giocare dopo la carta lavoro!»
«Te l’avevo detto che era una cattiva idea» intervenne mio fratello.
Presero i nostri bagagli e ci portarono di corsa fuori di lì. Non ci abbracciarono. Era un tardo pomeriggio, eravamo stati via per due mesi.
Dopo aver passato l’estate senza di noi, Serena sembrava più giovane. Portava una giacca di camoscio con le frange e stivali da cowboy. Aveva la pelle dorata, i capelli corti sfilati, biondo platino. Sembrava una signora australiana, ma anche un po’ un pitone.
«Ti piacciono corti?» chiese mentre si spettinava con le dita. «È un taglio alla Meg Ryan. Va molto di moda adesso.»
Annuii senza pensarci, notando le sue dita con la manicure francese color avorio stringere un cappuccino freddo di Starbucks. Scosse il ghiaccio nel bicchiere con impazienza come se non avesse tempo di ascoltare la mia risposta.
«Cosa è successo?» le chiesi. «Come siete riusciti a farci passare?»
«Ve lo diciamo in macchina. Adesso andiamo, svelti, prima che ci ripensino.»
Accelerammo lungo il corridoio, fuori dalle porte scorrevoli verso il parcheggio.
Los Angeles. Eravamo di nuovo avvolti dalla sua luce plumbea. Quella foschia lontana e inafferrabile era ormai familiare. Ti lasciava la stessa sensazione della camera con gli specchi, un’altra terra di nessuno.
Max ci aspettava seduto dentro la nostra vecchia Thunderbird decappottabile.
«Oh là là, ecco la nostra piccoletta dalla bocca larga!» Mi abbracciò scuotendo la testa con finta disapprovazione. «Che hai combinato là dentro? Ci hai fatto spaventare, sai?»
I miei genitori alzarono gli occhi al cielo come a dire che li avevo messi davvero in croce questa volta. Salirono a bordo. Durante l’estate avevano installato un telefono nella macchina, ma non funzionava. Ettore aveva comprato una serie di quaderni ad anelli in pelle molto eleganti da Office Depot. Erano tutti impilati sul cruscotto e straripavano di ricevute di carte di credito.
Mentre tornavamo a casa, la risacca delle onde del Mediterraneo ci venne strappata dalle orecchie, drenata via da un imbuto speciale che estraeva silenzio e inseriva il rumore degli elicotteri della polizia che volavano sopra Compton.
Era stata una di quelle occasioni in cui la natura farraginosa della burocrazia italiana ci era tornata utile. Era stata la Rai a fare da sponsor per il visto di mio padre e, siccome Rai poteva voler dire tante cose – radio, televisione e un canale satellitare internazionale –, anche la professione di Ettore aveva una valenza trasversale: produttore, conduttore di un telegiornale o di un talk show, giornalista o regista. Finalmente capii perché gli italiani la chiamavano “Mamma Rai”. Max aveva intuito che l’ambiguità della nostra Radio Televisione di Stato sarebbe stata la nostra via d’uscita, anzi d’ingresso. Si era presentato in aeroporto vestito da avvocato – si era laureato in legge e aveva praticato in uno studio per anni prima di darsi al cinema – e aveva detto all’agente dell’immigrazione che il film che Ettore stava preparando e di cui io, in quanto minore, sapevo pochissimo, era più precisamente un documentario televisivo per la Rai sugli usi e costumi degli americani, e quindi rientrava perfettamente nei parametri del suo visto di giornalista.
«Quindi non stai lavorando illegalmente in America?» chiesi sollevata, cadendo indietro sul sedile gommoso della vecchia auto.
«Certo che sì» rispose mio padre.
Due fax nuovi squillavano incessantemente sulla scrivania dello studio di Ettore accanto a pile di fogli e post-it. La cucina era coperta di buste di fast-food da asporto, avanzi, mini contenitori di ketchup, cannucce incartate e cartelle pieni di doc...