Snowdonia, oggi
Fu solo dopo aver raggiunto la fattoria, appena passata la mezzanotte, che Hannah Wilde scoprì quanto sangue avesse perso suo marito.
Avevano parlato poco durante il viaggio verso Llyn Gwyr. Hannah si era concentrata sulla strada, la vista offuscata dalle lacrime e dalla pioggia. Accanto a lei, Nate era abbandonato sul sedile del Land Rover Discovery, un’ombra rattrappita. Mentre la distanza da ciò che si erano lasciati alle spalle aumentava, di tanto in tanto gli lanciava un’occhiata, anche se, finché guidava, le era impossibile valutare l’entità delle ferite. Ogni volta che gli proponeva di fermarsi, Nate scuoteva la testa e la incoraggiava a proseguire: «Vai avanti, Hannah. Andrà tutto bene. Vedrai che mi riprenderò».
Verso mezzanotte, dopo quattro ore passate alla guida, Hannah aveva notato che sui cartelli che sfrecciavano accanto al fuoristrada i nomi delle località erano stati sostituiti dai loro cugini gallesi: Cyfronydd, Llangadfan, Tal-y-llyn.
Non c’erano altri veicoli a condividere la notte con loro e, nonostante tenesse lo sguardo fisso davanti a sé, percepiva tuttavia che il paesaggio si stava facendo più aperto, più selvaggio.
La strada tutta curve si impennava come se stesse tentando di disarcionarli. Per un po’ avevano inseguito un torrente di montagna, la cui presenza era segnalata solo dalle schegge di luce che si frammentavano sulla sua superficie. Quando la strada aveva preso ad arrampicarsi, i riflessi erano spariti, persi nella notte.
A un chilometro circa da Llyn Gwyr, vicino alla cresta di una collina, Hannah aveva rallentato fino a procedere a passo d’uomo, poi aveva spento i fari. Superati gli ultimi metri che la separavano dalla cima, dove c’era un boschetto di frassini, per un attimo era rimasta a guardare i rami nudi che si stagliavano contro il cielo buio.
A quel punto aveva spento il motore. Fino ad allora il rombo aveva soffocato la voce del vento, che ora, sulla sommità della collina, fischiava con energia, facendo oscillare l’auto sulle sospensioni.
“Santo cielo, cosa pensavi? Credevi davvero che questo fosse un posto sicuro?” si disse Hannah.
Abbandonato sul sedile del passeggero, Nate si riscosse e alzò la testa, poi guardò fuori dal finestrino, stringendo gli occhi. «Vedi qualcosa?» le chiese.
Oltre gli alberi, il terreno precipitava in una discesa ripida fino alle rive di un piccolo lago ovale. Nonostante la luna fosse coperta da nuvole cariche di pioggia che provenivano da ovest, sulla superficie dell’acqua indugiava una sorta di fosforescenza. La linea nera di un fiume, che serpeggiava giù dalla montagna, si immetteva nel punto più occidentale del bacino.
La fattoria di Llyn Gwyr era costruita sulla riva opposta ed era unita alla strada principale da un vialetto ripido ricoperto di ghiaia e da un ponte di pietra che attraversava il fiume.
«Non si distingue quasi niente da questa distanza» gli disse lei. «È troppo buio.»
«Dovrebbe esserci un binocolo nella tasca della portiera. Prima di tutto controlla il ponte.»
Hannah trovò il binocolo e se lo portò agli occhi, puntandolo in direzione del fiume. Le ci volle qualche istante per orientarsi, poi trovò il ponte. L’arcata in pietra denunciava tutti i segni del tempo e sembrava a malapena in grado di reggere il peso del loro Land Rover.
Non c’era nulla nella carreggiata e nemmeno nell’oscurità sottostante. Nessuna traccia di una potenziale imboscata.
«Mi sembra sgombro.»
«Bene, ora ispeziona la casa.» Nate si mosse sul sedile, nel tentativo di spostare il peso, e il movimento gli strappò un gemito.
Lei si scostò rapidamente il binocolo dagli occhi. «Che cosa c’è, Nate? Hai bisogno di aiuto?»
«Niente, Han. È tutto a posto.» Era esausto, tanto che la voce gli si era arrochita. «Continua a guardare.»
Hannah riportò il binocolo davanti agli occhi, puntandolo sulla fattoria. I muri di pietra imbiancata a calce brillavano alla luce della luna. Riconobbe il profilo del tetto di ardesia che non aveva mai visto di persona, ma solo in fotografia. «Che cosa vuoi che controlli?»
«Comincia dalle finestre. Ti sembrano intatte?»
Una pausa di silenzio, mentre lei eseguiva. «Sì, quelle che vedo, almeno.»
«Perfetto. E la porta? È aperta, per caso? Ha l’aria di essere stata forzata?»
«Difficile dirlo…» Hannah aggrottò la fronte. «No, mi sembra a posto.»
«D’accordo. Molto bene. Senti, credo che non sia entrato nessuno. Mi sembra impossibile. Ma dobbiamo comunque essere prudenti. Procediamo lentamente e a fari spenti finché non avremo lasciato la strada principale. L’ingresso è proprio davanti a noi. A quanto ricordo, il percorso è piuttosto accidentato fino al ponte, poi diventa più piano. Parcheggeremo dall’altra parte della casa, in modo che nessuno possa vederci dalla strada.» Nate si interruppe, ansando attraverso i denti serrati, mentre si spostava di nuovo sul sedile. «Sei pronta?»
Hannah trasse un profondo respiro e annuì. «Per favore, prendi tu il binocolo.» Glielo porse e sentì la sua mano che la sfiorava. Le dita erano umide e appiccicose. «Nate, stai ancora sanguinando?» gli chiese, con un nodo alla gola.
«Non ha importanza. Andiamo, ormai siamo quasi al sicuro.»
All’improvviso fu assalita dall’urgenza di sapere. Nonostante le parole tranquillizzanti di Nate, e il suo apparente ottimismo, era ancora sconvolta da ciò che era accaduto quella sera. Prima di rimettersi in moto, doveva sapere esattamente che cosa l’aspettava. D’impulso, la sua mano saettò verso la luce interna dell’automobile e premette il pulsante di accensione.
Quando scoprì in che condizioni era Nate, la gran parte delle speranze a cui era stata ostinatamente aggrappata svanì di colpo. Strinse i denti e protese il mento all’infuori, decisa a non rivelare quanto fosse turbata nel vederlo in quello stato.
Il sangue aveva impregnato la giacca di lana ed era gocciolato dalla stoffa della camicia, formando una pozza tra le sue gambe. Si era depositato nelle pieghe del sedile, inzuppandogli i jeans.
Quando Hannah alzò gli occhi per guardarlo in faccia, l’emozione la tradì, tanto che si lasciò sfuggire un singhiozzo. Non c’erano dubbi, Nate stava morendo. Non gli restava più molto da vivere. Le labbra avevano perso ogni colore e le guance, nei punti in cui non erano imbrattate di sangue, erano bianche come il latte. Nonostante l’aria fresca all’interno dell’auto, la sua pelle era imperlata di sudore.
Nate cercò di sorridere, ma quando le labbra si tesero, scoprendo i denti, lei ebbe la sensazione di vedere un teschio. «Mi sembra di aver smesso di sanguinare» le comunicò.
«Devo portarti subito all’ospedale, Nate. Non c’è tempo da perdere» gli disse con voce tremante, quasi gridando.
Lui scosse il capo. «No, non possiamo. Non aver paura, mi rimetterò.»
«Ma Nate…»
«Ho detto di no. Dammi ascolto.» Si interruppe e lei lo vide annaspare in cerca d’aria. «Non possiamo correre rischi, lo sai. Quello che mi succederà è irrilevante. Dobbiamo proteggere Leah.»
Il grido le premeva in gola, come un’entità autonoma, impossibile da controllare. Sentendo il nome della figlia, che dormiva sul sedile posteriore, si voltò a guardarla. La vista del suo viso liscio, così fragile e sereno, da una parte la terrorizzò, dall’altra parve quasi confortarla.
Nate aveva ragione, non avevano scelta. Ma come poteva accettare le sue parole senza protestare? Come poteva prestarsi passivamente a un simile sacrificio? Si sentiva lacerata. C’erano solo due persone al mondo che amava con tutta se stessa e le era impensabile sceglierne una a scapito dell’altra.
Nate tirò fuori la mano dalla giacca e fissò le dita insanguinate. «Sopravvivrò, Han, devi credermi. Ho perso molto sangue, lo so. Capisco che questo sembri grave, ma ho visto altre volte ferite simili e ti assicuro che posso farcela. La cosa più importante è entrare in casa al più presto.»
Hannah sbatté le palpebre per liberare gli occhi dalle lacrime. Nate sembrava un fantasma e lei non riusciva a credergli. Eppure si scoprì a ricacciare in gola il grido e a girare la chiave per accendere il motore. «Tieniti forte, allora. Saremo lì tra qualche minuto. Sei comodo?»
«Stai scherzando?» Abbozzò una risata, ma in realtà sembrava che stesse soffocando.
Hannah lasciò il freno a mano e avviò il fuoristrada. Costeggiarono la cresta della collina, poi scesero sull’altro versante attraverso una foresta di conifere che tendevano i rami verso di loro come se volessero afferrarli. Vide la curva a sinistra e la affrontò.
Una volta usciti dalla strada principale e imboccato il vialetto, dove erano protetti dagli alberi, si arrischiò ad accendere le luci di posizione. Il terreno era poco di più di un pendio roccioso e sconnesso. Hannah doveva tenere la velocità al minimo per riuscire ad aggirare i massi più grossi ed evitare che Nate subisse troppi scossoni, ma, anche così, di tanto in tanto, quando le ruote slittavano o si bloccavano sui sassi, a lui sfuggiva un gemito che la faceva sobbalzare.
“Bisogna sfidare il destino e continuare a combattere finché resta un filo di speranza.”
Quella era la frase preferita di suo padre. Il senso di impotenza e la paura non servivano a niente e a nessuno. Si costrinse a riflettere su ciò che sapeva riguardo al dissanguamento. Se Nate aveva qualche possibilità di cavarsela, bisognava impedirgli di avere un collasso. Il respiro faticoso e la sudorazione erano sintomi di una grave ipovolemia. Doveva arrestare l’emorragia, tenerlo al caldo, evitare che si disidratasse.
Passarono davanti a una targa in legno imbiancato a calce su cui, in lettere nere, spiccava la scritta LLYN GWYR, uno dei numerosi nascondigli di suo padre.
In fondo alla discesa, la superficie del vialetto migliorava. Hannah ne seguì le curve, superò il ponte ad arco e percorse il tratto finale che portava alla fattoria. I fari illuminarono la facciata, ma non riuscirono a svelare cosa si celasse dietro le finestre. I riquadri neri rimasero ostinatamente impenetrabili.
Il vialetto curvava dietro il fianco della casa. Oltrepassarono le stalle di pietra e il recinto delle mucche e finalmente il Discovery andò a fermarsi alle spalle dell’edificio, facendo scricchiolare la ghiaia sotto le ruote.
Hannah spense il motore, poi i fari e infine tolse la chiave dall’accensione. «Vado ad aprire la porta. Torno tra un attimo e ti aiuto a entrare.»
«Prendi la pila.»
Lei fece un cenno di assenso, allungando la mano verso il sedile posteriore e afferrando la potente Maglite ad alta intensità. Si protese verso di lui e lo baciò. Aveva le labbra umide e fredde.
«Non andartene a spasso» gli disse.
«Ho dimenticato le scarpe da trekking.»
Per fortuna riusciva ancora a scherzare, ma la sua voce era ridotta a un soffio.
Hannah posò la mano sulla maniglia della portiera, poi ebbe un attimo di esitazione. Ora che erano arrivati, era riluttante a lasciare la vettura, il loro rifugio nel corso delle ultime cinque ore. Come per cercare di dissuaderla, il vento aumentò di forza.
Non poteva indugiare oltre, ogni minuto contava. Si decise ad aprire e balzò fuori.
Fu subito investita dalle raffiche e si sentì vacillare. Le vorticavano attorno come fantasmi adirati, incollandole i capelli al viso e facendole lacrimare gli occhi. Sbatté la portiera, incassò la testa tra le spalle, chiuse la lampo del cappotto di montone e si avviò.
Nonostante gli occhi non si fossero ancora adattati all’oscurità, riusciva a vedere la sagoma della fattoria che si stagliava contro il cielo, il buio più fitto delle finestre, la porta posteriore e la serra. Più in là, verso sinistra, intuiva la presenza di un’altra costruzione i cui contorni le sfuggivano.
Superò in fretta la distanza che la separava dall’edificio principale, chiedendosi cosa avrebbe trovato. Sapeva che la casa era disabitata da anni. Suo padre pagava qualcuno perché la controllasse di tanto in tanto, con quale frequenza lo ignorava. Notò che il vetro di una delle finestre a pianterreno, forse quella del soggiorno, era rotto. Non era un buon segno. Ma non c’era tempo da perdere, doveva portare in casa Nate al più presto.
Raggiunse la porta posteriore e sbirciò attraverso la finestra che dava sulla cucina. All’interno era buio pesto. Trovò la chiave e, mentr...