«Capo…» disse Büchner Due prendendolo per un braccio. «Sei diventato sordo?»
Jakob si voltò. Era pomeriggio inoltrato e camminavano da ore; era stanco e affamato, e passo dopo passo sentiva la speranza evaporare lasciando sulla pelle una patina appiccicosa. Quella mattina, la mattina del 30 dicembre, durante la fuga da Atlantis aveva visto Bernd cadere nel fiume raggiunto da un colpo di fucile e, mentre le acque gelide dell’Havel ne inghiottivano il corpo, aveva pensato che il mondo sarebbe finito lì – ecco cosa. Che non sarebbe mai più stato felice. E che il freddo di quel lungo inverno sarebbe durato per sempre.
Atlantis: l’isola abitata dai primi adulti che avessero visto da tre anni a quella parte; adulti cui intimamente ciascuno di loro aveva sperato di potersi affidare, sognando un ritorno alla vita così come l’avevano conosciuta prima, agli affetti familiari, e alla rassicurante autorità dei padri e delle madri, che avrebbero restituito ai figli l’infanzia e l’adolescenza che il virus aveva sottratto loro. Jakob, Bernd, Timo, Christa, Britta, Verme e Büchner Due, partiti giorni prima da Gropiusstadt, erano giunti fino a lì per ritrovare Nina. Ma gli adulti – a parte un giovane medico, Andreas Beck – terrorizzati dall’eventualità del contagio, si erano dimostrati, nei loro confronti, sospettosi e violenti. Era stato uno di loro, Nico, a sparare.
«Che c’è?» chiese Jakob emergendo da quei pensieri.
«Dicevo: non pensi che ci siamo spinti troppo avanti? Dubito sia stato trascinato fin qui dalla corrente. E anche in quel caso…»
«Cosa?»
«Be’…»
«Non lo abbiamo visto e ci fosse stato lo avremmo visto, non credi? Smetterò di cercarlo solo quando lo avrò trovato. E senti, fammi un favore…»
«…»
«Non chiamarmi più capo.»
Büchner fece spallucce. «D’accordo. Tu però non chiamarmi più Büchner Due.»
«E come dovrei chiamarti?»
«Louis.»
«Louis? Ma avevi detto che saresti stato sempre Büchner Due!»
«Lo so ma… ormai mio fratello non c’è più. Non esiste più Büchner Uno. Non ha più senso che resti in giro un Büchner Due. François è morto. Io sono Louis.»
«Quattro mesi fa…»
«Già . Lì per lì… volevo rimanere Büchner Due. Ma ormai.» Büchner diede un colpo a un ramo e la neve sfarinò sulla roccia sottostante. «Ci penso da settimane, a questa cosa del nome. Solo non avevo avuto il coraggio di dirlo…»
«Louis…» disse Jakob cercando di non sorridere. «Mi fa strano chiamarti così.»
«È il nome che hanno scelto i miei genitori.»
«Lo so, ma…»
Qualcosa si mosse nel bosco; strofinio di legna e pietre. Si voltarono ma non videro nulla. Restarono immobili per pochi istanti, poi si scambiarono un’occhiata per rassicurarsi: forse un animale, forse la neve che si stava sciogliendo. Ripresero a camminare, ciascuno immerso nei propri pensieri. Büchner – Louis – cercava di ricordare una barzelletta che François gli raccontava di continuo. Jakob pensò al padre, la cui mancanza, in quel momento, forse a causa della quiete dei boschi, percepiva in modo lancinante.
Jakob si era detto che se c’era una possibilità , una soltanto, di ritrovare Bernd in vita, avrebbe tentato. Per lui, per se stesso, ma soprattutto per Nina. Avrebbe fatto qualunque cosa e solo vedendone il corpo si sarebbe rassegnato alla morte dell’amico. Così, lui e Büchner Due si erano divisi dal resto del gruppo – diretto a Berlino – e avevano iniziato a ridiscendere l’Havel nel verso della corrente.
Proseguirono un’altra mezz’ora, facendosi largo tra il fogliame basso e i tronchi caduti, finché Jakob emise un suono gutturale, abbandonò il sentiero e si gettò nella neve fresca, giù per la sponda, e da lì nel fiume ghiacciato. Quando Büchner lo raggiunse, era immerso nell’acqua fino alla vita e ripeteva: «No, no, no», armeggiando sotto un salice ricurvo che rastrellava la corrente, chino su qualcosa impigliato tra le fronde; qualcosa che dal sentiero era quasi impossibile scorgere, ma di cui lui aveva, chissà come, percepito la presenza.
Bernd aveva un braccio incastrato tra i rami, come se avesse cercato di tirarsi fuori dall’acqua. Era immobile. Gli occhi chiusi.
«È… credi che…?»
«Non lo so» disse Jakob. «Aiutami.»
I vestiti intrisi d’acqua lo rendevano pesantissimo. Attinsero a tutta la loro forza per sollevarlo e riportarlo sul sentiero. Lo adagiarono a terra e gli si accovacciarono di fianco. Non dava segni di vita. Mentre Büchner gli reggeva la testa, Jakob si tolse la sciarpa, la appallottolò e la schiacciò in corrispondenza della ferita, per tamponarla. Poi si sfilò la giacca e gliela mise sopra a mo’ di coperta. Gli prese una mano, lo chiamò, lo schiaffeggiò sulle guance. Ma nulla accadde: le palpebre restarono abbassate, le labbra mute.
Jakob in quel momento non ci pensò. Eppure era la seconda volta, nell’arco di una settimana, che tirava qualcuno fuori dall’acqua.
Il giorno di Natale aveva fatto lo stesso con Wolfrun e il suo adorato cavallo Ziggy, un trakehner marrone con una macchia bianca sul dorso. Li aveva aiutati a uscire dal laghetto artificiale di Gropiusstadt in cui erano caduti, a pochi metri dal Wutzky, il centro commerciale in cui si erano rifugiati in cerca di un riparo dalla tempesta.
Quello che Jakob non sapeva era ciò che era successo dopo averli lasciati a terra tremanti e sconvolti; dopo che Ziggy aveva aperto un occhio sbuffando dalle froge, sorpreso di essere ancora vivo, e Wolfrun, piangendo, gli aveva affondato il volto nella criniera.
Poi, era stato Caspar a trovarli.
Tornava lì dopo aver recuperato uno dei cavalli liberati da Jakob e Büchner, quando davanti a lui, alla fine di un boschetto, si era aperta una radura che una volta doveva essere un parcheggio o un campo da calcio o semplicemente un grande prato. Caspar aveva strizzato gli occhi per setacciare l’orizzonte, facendosi scudo con la mano per proteggerli dai fiocchi. Di lì a poco sarebbe giunta la notte e lui era rimasto solo, senza sapere cosa fare né dove andare; nonostante in quel mondo ormai a rotoli con i suoi sedici anni fosse uno dei più vecchi, be’, si era accorto di avere paura. Osservando quello spazio desolato, all’inizio, aveva fatto caso soltanto alle diverse tonalità di bianco degli alberi, dei palazzi e dei nuvoloni, ma prima di voltarsi e tornare indietro i suoi occhi erano inciampati in qualcosa – un corpo – riverso a terra al margine opposto della spianata.
Wolfrun!
Si era messo a correre, per quanto fosse possibile correre nella neve alta, inciampando e ruzzolando, distinguendo con sempre maggiore precisione il corpo della ragazza e quello di Ziggy. Urlò, la chiamò. Lei non rispose. Caspar pensò fosse colpa della neve che attutiva i rumori e continuò ad arrancare, finché a un tratto non rischiò di cadere in uno squarcio che dal nulla gli si parò davanti, nel bel mezzo della radura. Frammenti di ghiaccio galleggiavano nell’acqua torbida. Capì di trovarsi su un laghetto. Si allontanò, fece un giro largo, rabbrividendo ogni volta che sentiva il ghiaccio scricchiolare; quando alla fine fu a pochi passi da lei, la chiamò ancora: «Wolfrun!».
Niente.
«Wolfrun» ripeté con un tremolio della voce, temendo il peggio.
Niente.
Fu solo avvicinandosi che notò il movimento leggero della mano di Wolfrun sul dorso lucido dell’animale che si alzava e abbassava al ritmo del respiro; lo carezzava lisciandogli il pelo mentre con il braccio gli teneva stretto il collo, come per opporsi a qualunque forza avesse intenzione di portarglielo via.
Vincendo il timore – non si poteva mai sapere come avrebbe reagito, Wolfrun – Caspar le toccò una spalla. La giacca era fradicia. «Ehi!»
Lei non si mosse. Sembrava una marionetta abbandonata dal burattinaio.
Caspar si accovacciò per vederla in faccia. «Mi senti? Perché non parli?»
Wolfrun sollevò gli occhi ancora gonfi di pianto e lo fissò come un estraneo.
«Cos’è successo?»
Wolfrun si morse un labbro.
«Sei finita in acqua?»
Fece sì con la testa.
«Forza, dobbiamo trovare gli altri…»
No, disse Wolfrun scuotendo il capo.
«In che senso no?»
Quello che Caspar ignorava era che, dopo essere scampata alla voragine, un altro buco nero, più profondo, si era aperto dentro di lei all’improvviso. Un buco che aveva risucchiato le parole con cui per tre anni si era difesa dal nuovo mondo quando il virus aveva cancellato il precedente. Parole che aveva utilizzato come un’armatura per proteggersi; che avevano acceso lo sguaiato entusiasmo del popolo di Tegel e i suoi seguaci; parole che ora le sembravano prive di significato. Quante volte aveva deriso chi temeva il momento in cui il virus l’avrebbe colpito; chi ancora desiderava diventare grande. Quante volte aveva invocato la Morte Giovane, per sé e con tutta se stessa. L’aveva fatto perché ci credeva, o così le sembrava; ora che la morte se l’era trovata davanti, ne aveva avuto orrore. Come di nulla prima di allora.
Perché?
La domanda continuava a batterle in testa, rendendo i pensieri impossibili da seguire, come le geometrie di uno stormo di rondini. In quel momento Ziggy, quasi volesse aiutarla a trovare una risposta, si scosse e dilatò le froge.
«Ehi» mormorò Wolfrun, ritrovando un filo di voce.
Il cavallo nitrì, si sollevò tremando sulle zampe anteriori e con un colpo di reni provò a fare lo stesso con quelle posteriori, ma ricadde. Nitrì di nuovo, rivolto a Wolfrun. Lei gli prese la testa fra le mani. «Coraggio!» esclamò. E con uno sforzo estremo lui si rimise in piedi, il corpo scosso dai fremiti, e si scrollò la neve di dosso. Mosse un passo, un secondo, quindi si voltò a fissarla, scuotendo la testa come per invitarla a seguirlo.
«Va bene» mormorò lei. «Andiamo.»
«Aspetta… ma dove vai?» chiese Caspar sentendosi invisibile.
«Non lo so.»
«Come non lo sai?! E noi che dovremmo fare?»
«Volevi cercare gli altri…»
«Be’, sì…»
«Cercali.»
«E tu?»
Wolfrun lo fissò. Non a lungo. Il tempo sufficiente perché Caspar cogliesse nei suoi occhi una luce mai vista, che nulla aveva a che fare con la traccia lucida lasciata dalle lacrime. Poi lei distolse lo sguardo. Si voltò. E insieme a Ziggy si avviò a passi incerti nella foschia della sera, fino a scomparire.
Dopo aver lasciato Caspar senza una spiegazione, Wolfrun si rifugiò nell’atrio di un albergo – un cubo di cemento dalla facciata senape e le finestre rotonde che ricordavano gli oblò di una nave – nella parte nord di Gropiusstadt. Nonostante la stanchezza, trascorse lì dentro quasi tutta la notte, con gli occhi spalancati, a cercare sul soffitto risposte a domande che non conosceva. Si addormentò all’alba, vinta dal tepore di Ziggy, e a svegliarla fu la luce polverosa che giunse a inondare la hall.
Quando sgranchendosi la schiena si affacciò in strada, trovò ad attenderla una mattinata radiosa: il cielo era terso e non c’er...