Le faceva male la testa. C’era un rumore che le raschiava la mente, un frusciare atono come uno stropiccio di carta. Qualcuno aveva fatto una risata, l’aveva accartocciata in una grossa palla crepitante e gliel’aveva ficcata dentro al cranio. Sette giorni, rideva. Sette giorni.
«Smettila» gracchiò lei. E si zittì davvero: il suono si smorzò, e le parole che aveva creduto di udire si dissiparono come alito sul vetro.
«Triss?» Udì un’altra voce più forte e più vicina della prima, una voce di donna. «Oh, Triss, tesoro, tesoro, va tutto bene, sono qui.» Stava succedendo qualcosa. Due mani si erano strette calde intorno alla sua, come un nido.
«Non permettergli di ridere di me» sussurrò. Deglutì, e sentì che aveva la gola secca e frusciante come rametti.
«Cara, nessuno ride di te» rispose la donna con voce dolce e sommessa, quasi un sospiro.
Udiva dei borbottii inquieti poco più in là. Due voci maschili.
«Delira ancora? Dottore, non aveva detto…?»
«Solo un sogno interrotto, direi. Aspettiamo che la piccola Theresa sia davvero sveglia per giudicare le sue condizioni.»
Theresa. Mi chiamo Theresa. Era vero, lo sapeva, ma le pareva una parola come un’altra. Come se ne ignorasse il significato. Io sono Triss: ecco, così pareva più naturale, come un libro che cadendo si apre su una pagina letta molte volte. Si sforzò di sollevare un po’ le palpebre, sussultando per la troppa luce. Si trovava in un letto, sopra a un cumulo di cuscini. Sentiva il corpo come un’ampia distesa trattenuta giù da sassi, e fu stupita di vedere che sotto le coperte e il copriletto si delineava il profilo di una persona di dimensioni normali.
C’era una donna seduta lì accanto a lei e le teneva la mano dolcemente. Aveva capelli scuri e corti, ben raccolti sulla testa in rigide onde lucenti. Un vago sbuffo di cipria sulle guance, ad attenuare i segni della stanchezza agli angoli degli occhi. Le perle di vetro azzurro della collana catturavano la luce dalla finestra, proiettandole bagliori gelidi sul pallidissimo collo e sotto il mento.
Ogni centimetro della donna era dolorosamente familiare ed estraneo al tempo stesso, come la mappa quasi dimenticata di una casa dove si è vissuto. Una parola discese leggera dal nulla, e la mente intontita di Triss riuscì a coglierla al volo.
«Mam…» iniziò.
«Sì, Mami è qui, Triss.»
Mami. La mamma.
«Mam… ma…» fu tutto quel che le riuscì di gracchiare. «Io… Io non…» Ma esitò. Triss non sapeva cosa fosse quel non, ma era un non di proporzioni enormi e la terrorizzava.
«Va tutto bene, ranocchietta.» La madre le strinse appena la mano e sorrise tenera. «Sei stata di nuovo male, tutto qui. Hai avuto la febbre, è normale che tu ti senta acciaccata e un po’ confusa. Riesci a ricordare quel che ti è successo ieri?»
«No.» Il giorno prima era un grande abisso oscuro. Triss sentì il panico pulsarle sottopelle. Cosa riusciva a ricordare davvero?
«Sei tornata a casa che eri bagnata fradicia. Questo lo ricordi?» Il letto cigolò: un uomo si era avvicinato e stava mettendosi seduto sulla sponda. Aveva un viso allungato, dai tratti forti, con profondi solchi fra le sopracciglia, come se si sforzasse di concentrarsi su ogni cosa, e capelli di un biondo spento. La voce era dolce però, e Triss riconobbe lo sguardo tenero e speciale, uno sguardo che riservava soltanto a lei. Papà. «Pensiamo che tu sia caduta nel Macaber.»
Alla parola “Macaber” Theresa fu colta da un brivido di freddo, come se le avessero premuto sul collo la pelle viscida di una rana. «Io… non ricordo.» Voleva solo scrollarsi via di dosso quel pensiero.
«Non mettetela sotto pressione.» C’era un altro uomo ritto ai piedi del letto. Era più anziano, con una nuvola di capelli sbiaditi che si arricciavano a un paio di centimetri dallo scalpo roseo, e sopracciglia grigie irte e cespugliose. Le vene delle mani rigonfie e budinose tradivano l’età avanzata. «Ai bambini piace giocare vicino all’acqua, sono fatti così. Lo sa Iddio quante volte sono ruzzolato in un torrente, alla sua età. Quanto a te, signorina, ieri sera hai fatto prendere un bello spavento ai tuoi genitori presentandoti a casa sperduta e febbricitante, incapace persino di riconoscerli. Ma adesso li riconosci, vero?»
Triss esitò e fece cenno di sì con la testa pesante. Riconosceva il loro odore in quel momento. Cipria e cenere di pipa.
Il dottore annuì con aria solenne e tamburellò le dita sul bordo del letto. «Come si chiama il re?» chiese a bruciapelo.
Triss trasalì e fu colta da un istante di panico. Poi un ricordo di cantilene infantili imparate a scuola le affiorò docile alla memoria. Un Lord è Re, un Re è Giorgio, un Giorgio è Quinto…
«Giorgio V» rispose.
«Bene. E dove ci troviamo adesso?»
«Nella vecchia casa di pietra, a Lower Bentling» rispose Triss, sempre più sicura di sé. «C’è anche il laghetto del martin pescatore.» Riconosceva l’odore di quel luogo: le mura umide, il vago olezzo di tre generazioni di gatti vecchi e malandati. «Siamo in vacanza. Ci… Ci veniamo ogni anno.»
«Quanti anni hai?»
«Undici.»
«E dove abiti?»
«Sulla Luther Square, a Ellchester. Il palazzo si chiama The Beeches.»
«Brava bambina. Così sì che va meglio.» Le rivolse un ampio e caloroso sorriso, come se fosse davvero fiero di lei. «Sei stata molto male, immagino ti senta la testa come piena di ovatta, vero? Be’, non temere: entro un paio di giorni recupererai in pieno la lucidità, e starai meglio anche fisicamente. Ma ti senti già meglio, vero?»
Triss annuì lentamente. Nessuno rideva più nella sua testa. C’era ancora un fruscio flebile e irregolare, ma volgendosi alla finestra dall’altro capo della stanza fu semplice trovarne il responsabile. Un ramo basso premeva contro il vetro, appesantito da un grappolo di mele verdi, e le foglie vi strusciavano ogni volta che il vento lo agitava.
La luce che penetrava era spezzata, mutevole, rotta in un mosaico dal fogliame. La stanza stessa era verde come le fronde. Copriletto verde, pareti verdi decorate da un motivo a losanghe color crema, frivole tovaglie verdi con gli angoli ripiegati a perfezione sui tavoli di legno scuro. Le lampade a gas alle pareti erano spente, i globi bianchi opachi.
E soltanto in quel momento, guardandosi bene attorno, Triss si accorse che nella stanza c’era una quinta persona, accanto alla porta. Un’altra ragazzina, più piccola di lei, con i capelli scuri e ondulati che la facevano sembrare una versione in miniatura della madre. La grande differenza erano gli occhi, però, freddi e duri come quelli di un tordo. Si afferrava alla maniglia quasi volesse staccarla dalla porta, e la mascella stretta si muoveva, digrignando i denti.
Mamma seguì lo sguardo di Triss e si voltò.
«Oh, guarda, Penny è venuta a trovarti. Povera Pen, credo non abbia toccato un solo boccone da quando ti sei ammalata, tanto era preoccupata. Su, Pen, vieni qui a sedere accanto a tua sorella…»
«No!» urlò quella, così d’improvviso da far sussultare tutti. «Sta facendo finta! Ma come fate a non capirlo? È una finta! Ma non vi accorgete della differenza?» Puntava gli occhi fissi sul volto di Triss con uno sguardo che avrebbe potuto spaccare la pietra.
«Pen!» l’ammonì il padre. «Vieni subito qui e…»
«NO!» Pen li fissò con uno sguardo folle e disperato, gli occhi strabuzzati come se fosse sul punto di azzannare qualcuno. Si precipitò fuori dalla porta, e l’eco dei suoi passi si allontanò a poco a poco.
«Non seguirla» sussurrò Papà a Mamma che aveva fatto cenno di alzarsi. «Se le dai attenzione la “gratifichi”: ricordi cosa ci hanno detto?»
Mamma fece un sospiro esausto ma ubbidì e tornò a sedere. Vide che Triss stava con la testa incassata nelle spalle e lo sguardo alla porta spalancata. «Non badare a lei» disse dolcemente, stringendole la mano. «Lo sai com’è fatta.»
Lo so? So com’è fatta?
È mia sorella, Penny. Pen. Ha nove anni. Le veniva sempre la tonsillite. Ha perso il primo dente da latte dando un morso a qualcuno. Aveva un pappagallino, ma si dimenticava di pulirgli la gabbietta e poi è morto.
Dice bugie. Ruba. Grida e lancia gli oggetti. E…
… e mi odia. Mi odia davvero. Glielo leggo negli occhi. E non so il perché.
Mamma rimase per un po’ accanto al letto e chiese a Triss di aiutarla a ritagliare i cartamodelli per gli abiti con le grosse forbici della cesta da cucito che insisteva a portarsi anche in vacanza. Le forbici dal manico di tartaruga tagliavano con un crocchiare lento e gutturale, quasi gustassero ogni centimetro.
Triss sapeva che aveva sempre adorato appuntare i modelli alla stoffa, tagliare e poi guardare i pezzi di tessuto che a poco a poco diventavano forme, irti di spilli e rinforzati con costure sfrangiate. I modelli erano corredati da immagini di signore dai colori pastello, con lunghi cappotti e cloche calcate in testa, oppure coperte da cappelli a turbante e abiti lunghi che ricadevano dritti come tubi adorni di nappe. Le dame si porgevano in pose languide, come sul punto di sbadigliare con tutta l’eleganza del mondo. Sapeva bene che poter aiutare la madre nel cucito era una piccola concessione speciale. Era il classico compito per quando era malata, si disse.
Quel giorno, però, le sue mani erano stupide e goffe. Le grosse forbici parevano incredibilmente pesanti e la presa continuava a sfuggirle, quasi si ribellassero nella stretta, contorcendosi.
Quando rischiò per la seconda volta di chiudersi le lame sulle nocche la madre gliele tolse. «Non sei ancora del tutto in te, vero tesoro? Perché non leggi i fumetti?»
Sul comodino c’erano delle copie già lette e sciupate di “Sunbeam” e “Golden Penny”.
Ma Triss non riusciva a concentrarsi sulle pagine che aveva davanti agli occhi. Era già stata male altre volte, questo lo sapeva. Tante, tante volte. Ma era certa di non essersi mai svegliata prima in preda a un tale stato di confusione.
Cos’hanno le mie mani che non va? Cos’ha la mia testa che non va? avrebbe tanto voluto esclamare a gran voce. Mamma, aiutami, ti prego, aiutami, è tutto così strano e non va bene nulla, mi sento come se la mia mente fosse fatta di tanti pezzettini e alcuni fossero spariti…
Ma se si immaginava a descrivere quella stranezza, la mente rifuggiva inorridita il pensiero. Se lo dicessi ai miei genitori, pensava irrazionalmente, si preoccuperebbero, e quella preoccupazione significherebbe che è una cosa grave. Se invece non glielo dico continueranno a dirmi che va tutto bene, e magari alla fine sarà proprio così.
«Mamma…» Dalla gola di Triss uscì una vocina flebile. Fissava la pila di scampoli abbandonati lì sul letto flosci e inermi, feriti. «Io… io sto bene, vero? Non è… una cosa brutta il fatto che… che non riesca a ricordare certi pezzi delle vacanze, vero?»
La madre le studiò il volto con attenzione, e Triss trasalì all’azzurro di quegli occhi, simile alle perle di vetro della collana che aveva al collo. Limpidi, e fragili anche, proprio come le gemme. Era uno sguardo gentile e luminoso, cui bastava il minimo mutamento per diventare spaventato.
«Oh, piccola mia, sono sicura che i ricordi ti ritorneranno tutti. L’ha detto anche il dottore, no?» Finì di appuntare un’imbastitura, sorrise e si alzò. «Ascolta, ho un’idea. Perché non dai una scorsa al tuo diario? Magari ti aiuterà a ricordare.» Da sotto il letto trasse allora un bauletto da viaggio in cuoio rosso sbiadito con le lettere TC marchiate in un angolo e lo pose in grembo a Triss.
Regalo di compleanno. So che adoro questo bauletto e che me lo porto dovunque. Però non riesco più a ricordare come funziona la chiusura. Ma bastò armeggiarci un po’ e si aprì con uno scatto.
Dentro c’erano altre cose che stimolarono i ricordi, altri tasselli dell’essere Triss. Abiti. Guanti. Due paia di guanti per eventuali giornate più fredde. Una raccolta di poesie, Peacock Pie di Walter de la Mare. Un portacipria, come quello della madre ma più piccolo, con lo specchietto nel coperchio ma senza cipria. E...