
- 312 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La figlia del guardiano
Informazioni su questo libro
Cammie vive tra le mura di una prigione, ma non è una detenuta. È la figlia del direttore del carcere di Two Mills, in Pennsylvania, dove trascorre le sue giornate insieme alle ospiti dell'ala femminile: Boo Boo con le sue unghie laccate di rosso e la sua debordante allegria, Tessa e la sua parlantina pungente, la silenziosa Eloda, ammessa nell'appartamento del direttore come domestica. C'è chi deve scontare una condanna per furto, chi ha commesso un crimine inconfessabile, ma per tutte Cammie è la piccola Tornado, la mascotte della prigione. Ora che il suo tredicesimo compleanno è vicino, però, Cammie desidera quello che ha perduto quand'era bambina, ed è determinata a cercarlo proprio tra le detenute: una madre.
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Informazioni
Print ISBN
9788804679929eBook ISBN
9788852082757Cammie
1959
1
L’odore del pasticcio di maiale si era sparso per tutto l’appartamento.
«Posso insegnarti a farlo da sola» disse lei. «È facile.»
«Voglio che lo faccia tu» replicai.
«Presto sarai una signorina. Prima o poi dovrai imparare.»
«Lo stai già preparando tu, no?» le dissi. «Caso chiuso.»
Si chiamava Eloda Pupko ed era una delle detenute fidate. Si prendeva cura del nostro appartamento, sopra l’ingresso principale della prigione. Lavava. Stirava. Spolverava. In altre parole, era la nostra domestica.
In quel momento mi stava intrecciando i capelli.
«Va bene» disse. «Fatto.»
Emisi un lamento. «Già?» Non volevo che finisse.
«È solo un ciuffetto.» Gli diede una tiratina.
Era vero. Avevo chiesto una treccia al centro della nuca, ma tutto ciò che i miei capelli corti permettevano era al massimo un codino spennacchiato.
La sentii allontanarsi e mi girai di scatto. «No!»
Si fermò e si voltò, le sopracciglia aggrottate. «No?»
Sparai la prima frase che mi venne in mente. «Ci devi mettere un nastro.»
Lei spalancò gli occhi. E poi scoppiò a ridere. E rise ancora.
Sapeva quello che sapevo bene anch’io: non ero per niente una ragazzina da nastro nei capelli. Stavo seduta sullo sgabello alto in salopette, scarpe da ginnastica bianche e nere e una maglietta a strisce. Il mio guantone da baseball mi aspettava sull’altro sgabello.
Quando ebbe finito di ridere, disse: «Un nastro? Su un razzo incendiario?».
Aveva ragione.
Il mio soprannome era Tornado. E quanto all’incendiario…
Quella primavera a scuola avevamo studiato gli Unami, i nativi americani della nostra zona. La cosa mi aveva ispirato l’idea di accendere un fuoco alla loro maniera. Per ragioni chiare solo nel cervello di una ragazzina di seconda media, avevo deciso di farlo nella vasca da bagno.
Al ritorno da scuola, un giorno, avevo deviato sui binari della ferrovia per andare al torrente a raccogliere quello che mi serviva: una pietra di quarzo, un grosso chiodo arrugginito e una manciata di sterpaglia secca da sotto un gruppo di pini. Avevo sistemato tutto nella vasca da bagno e poi ci ero entrata dentro.
Avevo strofinato e graffiato la pietra contro il chiodo. Le braccia mi si stavano quasi per staccare, quando vidi un piccolo ricciolo di fumo salire dalla sterpaglia. Ci avevo soffiato sopra. Era apparsa una scintilla.
«Che stai facendo?» aveva esclamato Eloda apparendo sulla soglia. Avevo alzato lo sguardo verso di lei e poi avevo gridato, perché la scintilla aveva dato vita alle fiamme che mi avevano scottato il pollice. La pietra e il chiodo erano caduti sulla porcellana con un rumore metallico. Eloda aveva aperto il doccino, spegnendo il fuoco e inzuppando me. Quando avevo finito di asciugarmi e mi ero cambiata, lei mi aveva messo della vaselina e un cerotto sulla bruciatura e mi aveva detto di raccontare che mi ero tagliata affettando dei pomodori.
Eloda mi toccò la mano. «Fammi vedere.»
Le mostrai la bruciatura. Era uno sbaffo rosa chiaro, per niente infiammato come all’inizio. Lei prese la mia mano tra le sue e la tenne più del necessario.
«Regola numero uno» disse.
«Niente più incendi» risposi. Mi faceva recitare quelle parole ogni volta che mi cambiava il cerotto.
Poi le sue mani mi lasciarono, ma continuai a sentire la sua presenza. Erano i suoi occhi. Mi fissava in un modo che sembrava significare qualcosa, ma che avrei decifrato solo molti anni più tardi.
«Ecco cosa facciamo» disse, rompendo l’incantesimo. «Quando riusciremo a completare tre intrecci, ti metterò un nastro.»
E di nuovo fece per andarsene.
E di nuovo sparai: «Sei così fortunata».
Di nuovo lei si fermò. «Sono proprio io. Miss Fortunata.»
«Dico sul serio. Ti danno il pasticcio tutti i giorni.»
«Vero» disse. «È per questo che ho deciso di vivere qui. Per il pasticcio.» Si avviò.
«Ferma!» dissi.
Si fermò, in attesa, volgendomi la schiena.
«Non puoi andartene.»
«Ho del lavoro da sbrigare.» Andò nella sala da pranzo.
«Sono io il tuo capo!» la chiamai, e immediatamente desiderai di potermelo rimangiare.
Stranamente lei non sembrò essersela presa. Sospirò. «Signorina O’Reilly…»
«Mi chiamo Cammie» la interruppi.
«Signorina Cammie…»
«No!» sbottai. «Senza signorina. Solo Cammie.» Lei mi fissò. «Dillo.» Lei continuò a fissarmi. «Per favore!»
Adesso era arrabbiata. Il mio nome, appena udibile, venne fuori come un respiro: «Cammie…».
E se ne andò.
Quello era il quarto giorno delle vacanze estive dei miei dodici anni, e avevo deciso che Eloda Pupko sarebbe diventata mia madre.
2
Anche se allora non lo sapevo, quella decisione aveva cominciato a formarsi dentro di me più di un mese prima. Di domenica.
Durante la festa della mamma.
Come al solito, io e mio padre eravamo andati in macchina al cimitero di Riverside, a ovest della città. Come sempre, lui aveva parcheggiato sul prato e avevamo camminato fino in cima alla collina. Ci eravamo fermati a destra del grande albero. Avevamo guardato la lapide, e la scritta che conoscevamo a memoria:
ANNE VICTORIA O’REILLY6 APRILE 19213 FEBBRAIO 1947MOGLIE E MADRE AMOREVOLE
Come sempre, avevo sistemato un vasetto di narcisi davanti alla lapide. Come sempre, eravamo rimasti lì senza dire niente, a fissare la pietra.
Non ricordo nulla di mia madre. Morì quando ero molto piccola. Morì investita da un furgoncino per il trasporto del latte un attimo dopo avermi salvata.
Fu l’incidente più famoso dell’anno a Two Mills. Forse il più famoso di sempre. Rese famosa anche me, La Bambina Salvata Dalla Madre Prima Di Essere Investita Dal Furgoncino Del Latte. E quando mio padre fu assunto come direttore della prigione, diventai ancora più famosa.
Come sempre, avevo capito che era il momento di tornare alla macchina quando mio padre aveva detto: «Okay».
Dopo, andavamo sempre da qualche parte. Allo zoo di Philadelphia. A fare una gita in barca sul Delaware. Nella contea di Lancaster con i carretti degli Amish. Quell’anno andammo a vedere una partita dei Phillies. Ci andavamo tre o quattro volte a stagione, sempre di domenica. Ma mai il giorno della festa della mamma.
Allo stadio distribuivano garofani a tutte le mamme. Ci sedemmo lungo il bordo destro del campo, in un punto in cui piovevano un sacco di palle foul. Come sempre, avevo con me il mio guantone. Adoravo il baseball. Siccome ero femmina e non potevo entrare nella lega giovanile, sognavo di acchiappare una palla foul a una partita della serie A.
A metà del settimo inning si alzarono tutti, ma nessuno fu più veloce di me. Ero molto orgogliosa di essere la prima ad alzarmi per la stiracchiata del settimo inning. Mi assicuravo sempre di flettere le spalle e arcuare la schiena, che a quel punto era rigida per essere rimasta ferma così a lungo.
E poi successe qualcosa di inaspettato.
L’organo smise di suonare Take Me Out to the Ball Game e dagli altoparlanti si udì: «Signore e signori, per favore sedetevi!». Trentamila persone ubbidirono. La voce continuò: «Come sapete, oggi è la festa della mamma». Sentii un vago brivido. «Se guardate verso la tribuna sul lato della prima base, vedrete le madri e le mogli di molti nostri giocatori. Signore, alzatevi, vi prego.»
Diverse file di donne si alzarono e si voltarono verso la folla. Sorridevano e salutavano con la mano. Avevano tutte un garofano rosa in mano. Lo stadio applaudì, esultò e fischiò. Sembrava quasi che qualcuno avesse segnato un punto.
E poi la voce disse: «E ora si alzino tutte le mamme presenti! Vogliamo ringraziarvi per tutto quello che fate e mandarvi il nostro amore!». La folla fu percorsa da un’altra ondata e centinaia, migliaia di donne si misero in piedi – giovani e anziane, in un turbinio di garofani rosa – per bearsi delle grida e dei fischi festosi.
Se dovessi descrivere il mio primo pensiero in quel momento, sarebbe qualcosa del genere: Wow, così tante madri e nessuna è la mia. Fu una semplice constatazione priva di emozioni.
E poi eccola.
Accanto a me, a pochi centimetri dalla mia spalla,...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Cammie. 2017
- Cammie. 1959. 1
- 2
- 3
- 4
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- 29
- 30
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- 32
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- 58
- 59
- 60
- 61
- 62
- 63
- 64
- 65
- Eloda
- Cammie. 2017
- Ringraziamenti
- Copyright