Il dito e la luna
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Il dito e la luna

Racconti zen, haikyu, koan

  1. 182 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il dito e la luna

Racconti zen, haikyu, koan

Informazioni su questo libro

Un antico proverbio orientale dice che quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito. Ma luna e dito appartengono a due dimensioni diverse, a due mondi differenti: è questo il cuore dell'insegnamento del buddhismo zen del maestro Ejo Takata che nei tardi anni Cinquanta ha fondato in Messico una scuola frequentata, tra gli altri, dal grande psicoanalista Erich Fromm. Nel 1961 anche Alejandro Jodorowsky ha seguito le lezioni di Takata e ha pazientemente annotato nei suoi taccuini gli aneddoti e le storielle che il maestro raccontava.
In queste pagine Jodorowsky raccoglie sessanta di quei racconti, li commenta e svela il significato nascosto in ciascuno di essi, apparentemente insensati e così lontani dalla nostra tradizione filosofica basata sulla logica e il ragionamento. Si tratta di haiku e koan della più classica tradizione zen che sorprendono e provocano il lettore. E, soprattutto, quando si riesce a coglierne lo spirito più profondo, rendono il discepolo capace di guardare oltre il dito per ammirare direttamente la bellezza della luna.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804586531
eBook ISBN
9788852082924

Koan

A PROPOSITO DEL MAESTRO E DEL DISCEPOLO NEL KOAN

Nel koan, di solito, il maestro e il discepolo sono insieme. Immagino il maestro completamente rilassato e sereno, e il discepolo teso e nervoso. Se il guru è nervoso e si trattiene, vuol dire che non è un vero maestro. È un discepolo. Al contrario, se si gratta le natiche è un maestro. Joshu ha precisato questa idea in una meravigliosa frase: «Quando l’uomo comune conosce, si trasforma in un saggio e quando il saggio conosce, si trasforma in un uomo comune».
Un aneddoto storico sulla vita di Joshu racconta il modo in cui questo maestro viveva il suo insegnamento nella vita di ogni giorno.
Una persona venne a fargli visita per la prima volta. Il visitatore vide, in fondo al giardino, un bellissimo anziano assorto in profonda meditazione. Chiese al giardiniere, che era lì accanto, se quell’anziano fosse Joshu. E il giardiniere gli rispose: «No, assolutamente, Joshu sono io. Quello è il mio discepolo migliore».
Quando si vedono i grandi guru, si può essere portati a pensare che la loro ricerca non abbia raggiunto la vetta. Un maestro non si comporta così. È invisibile. È un uomo comune che ha percorso la strada fino alla fine.

IL BUDDHA DI LEGNO NEL TEMPIO IN FIAMME

Un monaco medita in un tempio, ma a un certo punto si addormenta. Addormentandosi, fa cadere una piccola candela che dà fuoco ai rivestimenti di legno che decorano il luogo. Quando il monaco si risveglia, l’incendio divampa. Interamente costruito in pietra dal soffitto al pavimento, il tempio resiste all’incendio, che non si spegnerà fino alla completa distruzione di tutti i rivestimenti in legno. Prima di sfuggire alle fiamme, il monaco decide di salvare un grande buddha di legno. Anche se debole, trova la forza miracolosa di alzare la statua che pesa più di cento chili. Arriva davanti alla porta e si rende conto che il buddha di legno è due volte più alto e più largo della sua apertura. Impossibile passare di lì, e le pareti sono troppo solide per cedere. Il monaco non vuole che il suo adorato buddha vada in pasto alle fiamme. Che cosa può fare per uscire indenne con il suo tesoro?
Come farà il monaco a portare in salvo il buddha? I giapponesi si pongono domande ben strane. E pensare che ci sono persone che hanno dedicato più di vent’anni ad argomenti del genere!
La risposta non è uno scherzo: il monaco prende il buddha sulle spalle, apre la porta ed esce.
Molti koan zen ruotano intorno a questo tema e danno lo stesso messaggio. Un altro esempio:
Immaginate di essere completamente intrappolati in un blocco di pietra. Come farete a uscirne? Facilissimo: si esce dal blocco facendo un passo avanti oppure di lato.
Un esempio ancora:
Un’oca depone un uovo in una bottiglia. Più tardi, l’uovo si rompe e ne esce un’altra oca. «Come farà questa seconda oca a uscire dalla bottiglia?» chiede il maestro al suo discepolo.
Il monaco si ritira a meditare. Vent’anni dopo, chiede un colloquio con il maestro e gli annuncia di aver risolto il koan.
«Come l’hai risolto?» chiede il maestro.
«L’oca è uscita» risponde il discepolo.
La storia del tempio di pietra con i suoi rivestimenti di legno e il suo buddha in preda alle fiamme è una storia mentale. È tutto frutto del nostro cervello. Abbiamo riunito un certo numero di dati sotto forma di problema da risolvere, ma non bisogna perdere di vista che tutti questi dati sono mentali, pura invenzione… La porta troppo stretta di questo koan non è più reale della difficoltà che noi stessi ci creiamo. Sono entrambe creazioni dello spirito. Sono false.
Siamo noi a imporre questo limite della porta stretta. Tocca dunque a noi (in quanto questa porta ha la stessa natura del buddha e di tutto il resto della storia) risolvere il problema da soli e senza indugio.
Sono molte le persone che, cariche del peso della loro vita passata, si sentono nei guai. Sono simili a questo monaco che si scontra con una porta troppo stretta. Dicono:
«Aiutatemi a uscire, sono prigioniero!»
«Esci!»
«Non riesco a concentrarmi. Che ci posso fare?»
«Concentrati!»
«Sono un vigliacco.»
«Sii coraggioso!»
«Sono debole.»
«Sii forte!»
«Non ho fede.»
«Credi! Mettiti alla ricerca, un passo dopo l’altro, e abbi fede!»
Anch’io nella mia vita mi sono trovato di fronte a una quantità di problemi irreali. Quando cercavo di superarli, incappavo nella mia stessa impossibilità. Profondamente radicati nel mio intelletto, custodivo principi che mi limitavano e mi impedivano di andare avanti. La storia della mia famiglia è stata la culla delle mie limitazioni. Prima che nascessi e addirittura prima che fossi concepito, ero già stato programmato per crearmi una porta stretta che mi avrebbe tenuto prigioniero.
In generale, tutti viviamo problemi difficili e a volte anche terribilmente dolorosi, che sono semplicemente il frutto della nostra immaginazione: pure creazioni della nostra mente.
Primo: il buddha di legno non esiste. Questo non è un buon motivo per portarcelo in spalla. Perché ci carichiamo di un peso simile?
Secondo: ci addormentiamo. Perché ci addormentiamo?
Terzo: l’incendio non esiste. Invece gli diamo realtà, e lui finisce per bruciarci davvero. Perché ci bruciamo? Siamo noi a crearci l’incendio che poi ci distrugge. Perché vogliamo metterci in questa tragedia?
Quarto: la porta stretta non esiste. Ci sentiamo imprigionati per colpa sua, mentre potremmo oltrepassarla all’istante.

L’ACQUA

Il maestro U-Tsu, assorto in meditazione, si vide interrotto da un suo discepolo avido di ascoltare i suoi insegnamenti. U-Tsu non distolse lo sguardo dal discepolo, e quindi tracciò lentamente un cerchio per terra in cui disegnò l’ideogramma che significa “acqua”. Rivolse allora uno sguardo interrogativo al discepolo per vedere se per caso avesse compreso il significato del suo gesto, ma il suo volto non rifletteva altro che un’assoluta incapacità di comprendere.
Il maestro è profondamente assorto nella meditazione. Per lui, meditare è dare realtà a qualcosa di reale che ha dentro di sé.
Quello che fa, non lo fa per un pubblico, ossia per i suoi genitori, per la sua famiglia, per la società e così via, ma perché sente la necessità di farlo. È al di là di ogni moralità. È solo quello che è. Non cerca né l’amore né la benedizione di nessuno. Medita perché crede in quello che fa. Crede in se stesso. Si è liberato.
I suoi genitori forse non l’hanno condizionato, come fa la maggior parte dei genitori, a vedere il mondo come lo vedono loro. Come dire: «Se vuoi il mio amore, devi vedere il mondo come lo vedo io e devi essere come voglio io!». Non ha neppure vissuto l’obbligo di limitarsi come succede in una coppia. Come dire: «Mettiti dei paraocchi, non guardare a destra e a sinistra, ma guarda solo me!».
Il maestro U-Tsu è libero di fare quello che vuole. È concentrato. Medita.
Il discepolo arriva, assetato di sapere. U-Tsu disegna un cerchio, qualcosa di chiuso, e traccia il simbolo “acqua” al suo interno. Quasi fosse un bicchiere pieno d’acqua. Gli offre dunque un concetto. Ebbene, come bere un concetto? Le cose si realizzano, si vivono. Le parole che ci vengono date non sono altro che parole. La parola “acqua” non toglie la sete.
Il maestro non ha nessun sapere da offrire. Pone il discepolo di fronte alla sua stessa domanda:
«Tu mi chiedi un concetto. Vuoi che ti parli, che ti spieghi. Invece di cercare spiegazioni, devi essere! Se hai sete, devi bere l’acqua, non i miei concetti! Io posso insegnarti ad apprendere, ma non posso darti l’Essere, quello che soltanto tu puoi essere.»

CHE COS’È IL BUDDHA?

Un bonzo chiese al suo maestro:
«Che cos’è il buddha?»
«E tu chi sei?» fu la risposta del maestro.
«Io?… Io sono io!»
«Conosci questo io, sì o no?»
«Ma certo che lo conosco!»
Alzando uno scacciamosche in faccia al bonzo, il maestro aggiunse:
«Lo vedi questo?»
«Evidentemente sì.»
Allora il maestro si alzò e, lasciando la stanza, concluse:
«Non ho niente da dire.»1
Il buddha è uno stato spirituale, uno stato di risveglio, di coscienza totale al margine dell’intelletto.
«Che cos’è il buddha?»: la domanda del bonzo è sciocca. Cerca di ottenere una definizione intellettuale là dove l’intelletto non c’entra per nulla.
Il maestro gli dà subito la soluzione. Invece di fargli una dissertazione sull’ego, l’Io e così via, dice al bonzo: «E tu chi sei?». Come dire: «Chi sei tu, tu che vuoi sapere che cos’è lo stato di perfezione totale? Chi ti credi di essere?».
Di solito, la nostra educazione ci porta a sminuirci. Perché dobbiamo diventare dei buddha? Chi siamo? Abbiamo cose più importanti da fare che ottenere una definizione di buddha. Sapere chi siamo e conoscere il nostro valore profondo è molto più utile.
Il bonzo risponde: «Io sono io». Anche in questo caso il suo intervento è sciocco. L’io che descrive è un io quotidiano, limitato, l’io di tutti i giorni, quello che gli hanno cucito addosso sin da bambino. Parla degli ostacoli e delle limitazioni che lui ha integrato nel corso della sua educazione.
Dicendo «Io sono io», il bonzo esprime tutta la sua abitudine a vedersi come un uomo limitato che immagina il buddha al margine di sé.
Questa risposta irrita il maestro, che insiste: «Ma conosci questo io, sì o no?». La sua domanda è chiarissima: «Conosci l’io di cui parli? Subisci la tua personalità o la conosci?». Tutti siamo chiamati a rispondere a queste domande. Subiamo quello che ci accade? Siamo la tempesta o siamo il cielo azzurro in cui la tempesta porta scompiglio? In questo cielo azzurro, la tempesta appare e poi scompare, mentre il cielo rimane inalterato.
Mi è capitato di lavorare con una coppia che stava attraversando un momento di crisi. Ho detto alla donna: «Sei arrabbiata per colpa sua. Allora affronta questa arrabbiatura e falla uscire fuori! Non tenertela stretta, è puro teatro. Lascia stare le tue lamentele e fa’ affiorare tutto ciò che di positivo e di essenziale c’è nella vostra relazione».
Poco dopo, la donna ha detto al suo compagno: «Mi hai fatto del male, ma ti amo. Però ho paura di amarti perché so che se continuerai a trattarmi come hai appena fatto, mi spezzerai il cuore».
Allora io le ho detto: «Lascialo fare! Offri il tuo cuore e fattelo spezzare! Non offrirlo come una vittima masochista, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il dito e la luna. Racconti zen, haiku, koan
  4. Prologo
  5. Esperienza con Ejo Takata. (Città del Messico, 1961)
  6. Il suono essenziale del vuoto
  7. STORIE ZEN E GIAPPONESI
  8. KOAN
  9. HAIKU
  10. Copyright