Tre ragazzi immaginari
eBook - ePub

Tre ragazzi immaginari

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Tre ragazzi immaginari

Informazioni su questo libro

Tre ragazzi immaginari ( Three Imaginary Boys ) è una canzone dei Cure. E la musica, le canzoni, fanno da vera colonna sonora a questo che è il terzo romanzo di Enrico Brizzi. Ritroviamo la sua Bologna romantica, i ragazzi della banda urbana di Jack Frusciante, solo un po' più cresciuti. Hanno vent'anni e, nella notte di baldoria dell'ultimo carnevale che ancora riescono a vivere con un briciolo di inconsapevolezza adolescenziale, trovano lo spunto per un viaggio dentro di sé, per scoprire che una stagione della vita è forse, davvero, finita.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Tre ragazzi immaginari di Enrico Brizzi in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804682295
eBook ISBN
9788852083501

Apparizione del ragazzo

I

«Ciao» mi disse il ragazzetto. Poteva essere un cinno di sedici o diciassett’anni, ed era vestito con un niente – una maglietta coi quattro Pistols e un paio di bermuda a quadrettini.
Con enorme stupore, compresi che era lui a sostenermi. La mia amica senza nome dov’era?
«Ciao» gli dissi.
All’improvviso, mi sentivo bene e volevo vederci chiaro, e quel ragazzetto aveva un’espressione talmente difficile da ridire!… Sembrava colmo di speranza, e mi sorreggeva.
«Chi sei» gli dissi.
Era uguale a me. Solo, appariva d’un nulla più esile, e giovane. Più aggraziato.
Occupava il suo spazio con l’incertezza dei ragazzetti a quella stessa età.
«Io ti conosco» gli dissi. «I vestiti che porti,» gli dissi «fui io stesso a comprarli.»
Il ragazzetto non rispose niente, e, solo, si strinse nelle spalle magre da sbarbo.
«Avanti, rispondimi» l’invitai.
Quello continuava a sorreggermi e basta. Comunque, ti pareva di riconoscerlo, il luogo storto del suo imbarazzo, poiché c’eri stato tante volte anche tu, da adolescente. Era un posto, alle volte, tutto storto e buio, e a camminarci in mezzo ti potevi spaventare. Quegli spaventi, adesso, non li avresti augurati a nessuno.
«I miei vestiti,» gli dissi «puoi pure tenerli. Anzi, te li regalo.»
«Grazie» rispose lui. Mi guardava con occhi scintillanti.
«Come hai fatto a trovarmi?»
«Oh, lo sai quanto me» rise, nel modo furbo che gli sbarbi, a volte, sono costretti a simulare.
Ne avrete conosciuti, immagino. Sarete stati sbarbi anche voi. Poiché cos’eravamo, noi, da ragazzini? Voci. E teste esposte. Di viaggiatori in miniatura sotto un sole freddo. Capirai, potevamo pure morire! Non ci si chiedeva questo, continuamente? Non lo vedevi scritto con gli uniposca su tutti gli zainetti?
E i nostri profeti, la lucertola Morrison e l’albatro Baudelaire, non ci parlavano di questo?
Avevamo braccia esili, e anche le nostre gambe lo erano. Nella testa, rimbombavano le voci degli adulti.
Non era nemmeno tanto chiaro se qualcuno dei parenti stretti sarebbe venuto a salvarci oppure no, nell’estremo pericolo. Tutto questo, da ragazzini, lo annusavamo, capaci di quel fiuto che hanno i cuccioli abituati a scappare.
Quel poco che sapevamo non ci consigliava nell’esilio, nel mimetismo, nell’astuzia?
In classe, alle medie, non avevate anche voi quelle compagne che un anno sembravano vostra nipote e in quarta ginnasio, coi reggipetti imbottiti e il trucco hollywoodiano, una vostra zia giovane, sempre in ferie, che vive in un’altra città?
Non avremo mai più, come esseri sognanti, mani altrettanto prensili e desiderose di far bene, labbra altrettanto tumide e lingue in ascolto, o protese come nella bocca dei Rolling Stones.
«Oh, lo sai quanto me» ripeté lo sbarbo. «È bastato camminare incontro al cuore stesso della musica.»
Quella stupidaggine da ragazzetto mi costrinse a ricordare. Il ragazzetto aveva ragione.
«A te» gli dissi «ti vedo lucido come nessuno.»
Lui rise, e lungo un battito di ciglia non ci fu tempo per nient’altro che non fosse quello splendor di denti. Poi d’improvviso, deejay Bontempo impose le mani sui piatti Technics, e i dischi mandarono fuori la loro sequenza razionale di breakbeat. Subito, tutt’intorno, l’immensa folla cominciò a saltare a tempo, quasi riconoscesse in ogni giro la logica conseguenza del giro precedente, come s’aprissero i lucchetti a liberare le parole d’ordine.
«Ti scoccia se parliamo un po’?» mi domandò lo sbarbo. «Ero qui coi miei amici,» disse «e a un certo punto, non so come, li ho perduti…»
«Quelli li ritrovi domattina!» risi. «Di che ti preoccupi? Ti aspetteranno seduti sulle panchine dei giardini. A porta Saragozza. È lì che si trasferisce il carnevale. Comunque, parlare non mi scoccia. Anzi… Sai com’è» gli ghignai da molto vicino dando segno di riavermi. «Fino a cinque minuti fa m’era venuto il collo debole ed era come avessi la testa invasa di gas, ma adesso che son guarito,» volli dirgli «uno scambio d’opinioni, quasi quasi lo scambierei
Il ragazzetto era sveglio. «Ma infatti!» disse.
«E allora coraggio» lo invitai.
Non avevo bisogno di fare domande per sapere dove voleva andare quel me stesso di forse diciassett’anni. E in un certo senso, fu proprio lui a guidarmi.
Sotto l’ombra del tank, e sotto la campana accogliente dei suoni giamaicani, per un poco muovemmo i nostri passi. Come danzatore, tecnicamente ero meglio io, ma lui, magro magro com’era, se anche non sapeva tanto fare, non aveva bisogno d’altro, perché risplendeva, e le sue gambe secche non tanto dovevano seguire la musica, ma la facevano esistere.
Io ero costretto a seguirla, ma lui la faceva essere.
Dopo un po’ ci fermammo, e io estrassi paglia e cartina, mezza noce di primero e l’accendino. Coi palmi che andavano da dio cominciai a sbriciolare, e poi chiesi: «Hai mica un biglietto del bus?».
«Io vado esclusivamente in bici» disse il pazzo coi miei vestiti addosso. «Niente biglietto, mi dispiace.»
Mi strinsi nelle spalle, e già che avevo assunto la concentrazione d’un disinnescatore, m’arrangiai da me. Il ragazzetto mi guardava e basta, e quando smetteva di guardarmi, vai a sapere se per imbarazzo o che, si limitava a muovere dei passetti sul posto, piano piano, dietro la voce arcaica di Desmond Dekker.
Stavo giusto ultimando la rollata, e la canna aveva un aspetto di compiutezza esaltante. Era perfetta, cazzo. Né troppo conica, né troppo sottile, di poco più lunga di una paglia normale, appariva sotto innumerevoli profili una specie di fiabesco sigaro marocchino.
«Accendi te, va’ là» gli dissi. «Guarda cosa non t’ho fatto con queste mani!» Lo stavo semplicemente invitando. Non volevo umiliarlo. Al pazzo che indossava i miei vestiti, gli diventarono le orecchie tutte rosse. Comunque, non disse niente e non fece un gesto.
«Allora?» gli dissi. «Eh?»
Niente. Solo queste due orecchie che andavano a fuoco.
“Ah, fa’ tè!…” pensai. Ero sempre lì che non capivo tanto bene e gli porgevo il sigaro fiabesco segno del mio rispetto.
A un bel momento che stavo lì col braccio, quello dovette cercare la sua voce meno da geppetto possibile e proprio mi disse che si sentiva un po’ a disagio, e insomma sì, per quanto lo riguardava, fumare… non fumare… Ecco, lui preferiva non fumare. «Tutto qua» disse.
«Cioè?»
«Capo, non mi va.»
Io risi, ma non avevo nessuna intenzione di offenderlo. «Non è mica grave» dissi. «Anzi, non è grave per niente affatto.» Comunque, le orecchie gli ardevano ancora da matti quando disse: «Praticamente, a livello ideologico, sarei uno straight edge».
Aspirai una prima voluta e poi una seconda. «Guarda,» dissi «che io ti capisco.»
Il buon suono di Mother Pepper cantata da Desmond Dekker andava e andava, sotto il riparo del tank, e mentre il mare di grano attorno a noi lentamente danzava, piano piano, accompagnati dall’onda che s’allungava e si ritraeva, presi nel flusso morbido dell’allegria, e di forse un paio d’altri cento sentimenti che dopotutto potevo non capire, va’ a sapere come, slittando senza fretta, col ragazzetto che faceva da apripista, trovammo un posticino.
Fummo fuori dal campo, così, e quando mi voltai indietro, la distesa di grano era come la vedessi dalla prospettiva d’una collina, ma era strano, perché la via San Felice era tutta in pianura e la musica, adesso, arrivava attutita, quasi fosse sommersa.
«Fa caldo,» dissi «per essere in marzo.»
Il ragazzetto che mi conduceva sotto l’ombra del portico fece sì con la testa e poi trovò una specie di scalino su cui sedere. Non era propriamente uno scalino, se mai uno zoccolo di pietra alto due spanne e profondo altrettanto, che rifiniva un arco d’ingresso chiuso da un austero portone, e poiché il ragazzetto m’invitò col palmo, anch’io sedetti, poggiando contro il legno la schiena.
Sedendo, mi sentii in pace, e per un po’ allungai le gambe e finii di fumare il joint.
Chiusi gli occhi, e dopo aver trattenuto il fiato soffiai dal naso l’ultima nuvoletta odorosa d’Africa. La quiete e l’ombra del luogo mi confortavano. Di cosa, poi, lì per lì dovette sembrarmi troppo complicato da domandare. «Com’è che ti chiameresti, te?» domandai invece al ragazzetto silenzioso che mi sedeva accanto.
«Lo sai» disse la sua voce limpida che usciva dalla rosa del palato.
«Lo so?»
«Sì.»
Tenevo gli occhi chiusi, e invece di pensare il solito fa’ tè, e invece di provare a ghignare, o pizzicargli la spalla, provai un brivido che chiunque di noi ha provato, o è destinato a provare, avvicinandosi – vi chiedo scusa, signori – alle cose ultime.
«Non farmi gli indovinelli» dissi. «Non adesso, e non a me.» Pensai che se magari aprivo gli occhi e mi mettevo a fissarlo in un certo modo, gli avrei rivisto le solite orecchie in fiamme. Però non ero tanto sicuro, e, nel dubbio, continuai a restare nel mio buio.
«Il fatto è che quel giorno,» si limitò a rispondere il ragazzetto «a furia di correre dentro la ruota m’era venuto un bel mal di testa.»
«Che ruota?» dissi.
«Lo sai» rispose.
Ormai aveva attaccato questa solfa di lo sai, lo sai… Pareva matto, accidenti, e io, di solito, coi matti mica ci parlavo.
«Tutto sembrava finto, no?, ed era il primo giorno di scuola. Te lo ricordi com’è il primo giorno di scuola, quando sei fra i diciassette e i diciotto, a settembre, che tutti ti rompono le scatole e la gente, in classe, poiché nel frattempo è cresciuta, è più fasulla dell’anno prima ma però ci ha già i suoi progetti, tutte quelle cose belline che ti raccontano ai corsi d’orientamento organizzati da Cielle, oppure sentite in casa dal babbus ingegnere, questi adulti un attimino quadrati, un attimino previdenti, un attimino petomani… Lo sai, no?»
«Hai voglia» dissi. «Conosciuti molto prima di te. Va’ avanti, che non mi annoi…»
Per dirla tutta, era proprio il primo giorno di scuola e sembrava fossero passati anni, invece di una semplice settimana, da quando inforcavo la bici e pedalavo solitario verso i colli, quando l’unica preoccupazione era eludere la sorveglianza materna. Mia madre chiedeva un po’ troppo spesso se mi sentivo pronto per l’incombente stagione scolastica, pur sapendo che non maneggiavo libri di testo da un mese di giugno ormai più lontano, pareva, del Concilio di Trento.
«Ti farebbe mica male, un ripasso dell’età di Tiberio» mi diceva, ancorata com’era alle vecchie superstizioni, al suo passato d’insegnante di lettere. «E una versioncina di Sallustio?» gridava dalla finestra mentre ero intento a ottimizzare la pressione delle gomme all’atala tour giù in cortile. «Credi ti darebbe i capogiri?»
Splendido com’ero, riuscivo a perdonarle anche le evocazioni più sciagurate. Non reagivo nemmeno quando nominava, a mo’ d’uomo nero, lo scapolo elettrico che insegnava matematica. Lo odiavo, quello. Odiavo la mano pelosa con cui tracciava sulla lavagna graffiti da egittologo, il sorriso lento con cui, girandosi ad accarezzare la classe, diceva: «E adesso, amici, sorteggiamo chi è che viene a risolvere l’equazione».
In fondo, bastava fingere di non aver sentito, alzarsi sui pedali e puntare i colli dove, dicevano, non c’era legge.
In quella meraviglia vegetale era facile rimuovere l’eco delle raccomandazioni e ti bastava aspettare il sole di mezzogiorno per liberarti dalle ansie, per far scomparire le aspettative che i parenti stretti ti proiettavano addosso come ombre gravi.
Quel che andava a cominciare, per me era l’ultimo anno di scuola, e speravo in maniera assai vivida che l’estate avesse operato uno dei suoi miracoli, tipo trasformare qualche ginnasiale promettente in femmina giovane con tutta la panoplia delle femmine giovani.
Quel giorno, dopo tutto il movimento cricetico dentro la ruota filosofica che perennemente gira, non sentivo più nessun fremito correre sottopelle, nessuna emozione mi spingeva avanti, e mai come ora che intravedevo il traguardo della matura, insisteva su me l’effetto imbambolante della centrifuga.
Durante la prolusione augurale in aula magna, forse ipnotizzato dalla cravatta finto reggimentale del preside, non riuscivo a provare nemmeno la voglia di danneggiare qualche arredo tipica dei miei coetanei: silenzioso, maledicevo me stesso, il momento in cui avevo comprato il biglietto per Noia e Ragionevolezza, i due autobus gemelli con destinazione la Maggiore Età.
E se qualcosa contribuiva a tirarmi su, era solo la visione della mia povera classe coventrizzata. Sì, erano proprio i miei compagni devastati a ridarmi il sorriso, era la gradevole sensazione che molti di loro fossero ancora più indecisi e spaesati di me: frignavano già ai temp...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. TRE RAGAZZI IMMAGINARI
  4. Carnevale. Giorno primo (Partenza dei carri)
  5. Carnevale. Giorno primo (L’incontro di via Saragozza)
  6. Apparizione del ragazzo
  7. Carnevale. Giorno secondo
  8. Carnevale. Giorno secondo reprise
  9. Apparizione delle maschere
  10. Carnevale. Giorno ultimo e terzo
  11. Ars Aruspicina
  12. Copyright