Parco Sempione boccheggiava sotto una cappa di caldo umido, sotto un sole di luglio, tiranno, che sfibrava ogni tentativo di ribellione.
Persone, animali e piante sembravano immobili, incapaci di opporvi resistenza. E i pochi movimenti erano lenti, come scene al rallentatore di un noioso film da festival indipendente. Solo il canto instancabile e fastidioso di qualche cicala ricordava che c’era ancora vita, nel parco.
Su uno dei prati della zona est, i coraggiosi sdraiati a sfidare la potenza dei raggi ultravioletti furono destati da delle urla in avvicinamento, e alzarono lo sguardo quel tanto che la poca energia non risucchiata dal sole consentiva loro; appena in tempo per assistere a una scena surreale, una scena che sembrava uscita direttamente da una pellicola di Charlie Chaplin.
Due ragazzini, ridenti e chiassosi, sfilarono correndo come il vento. Una decina di metri più indietro, un ragazzone infuriato li inseguiva e li minacciava. Poco dietro di lui un pastore tedesco lo rincorreva, con la lingua penzoloni. E quando la farsesca carovana sembrava ormai essere terminata, ecco comparire un uomo, sfinito, che razionava il poco fiato rimasto tra la corsa e gli inutili richiami verso l’animale. Quando poi, qualche secondo più tardi, comparve a chiudere la fila una ragazza visibilmente in preda a una crisi isterica, tutta presa a riempire di insulti chi la precedeva, non furono in pochi, tra gli spettatori, a temere un’allucinazione da insolazione.
Come era apparsa, la folle comitiva si allontanò. Come era cresciuto, il chiasso diminuì. Per poi dissolversi del tutto.
Chi aveva assistito alla scena era troppo stanco e accaldato per farsi delle domande. E semplicemente se ne tornò a sonnecchiare al sole.
Per capirne qualcosa forse conviene tornare un po’ indietro.
Immaginate di riavvolgere il nastro della scena di cinque minuti.
A qualche decina di metri dal luogo in cui è sfilato l’improbabile corteo, troverete la ragazza isterica che chiudeva la fila sbraitando insulti.
Premete PLAY e guardatela ora, quella ragazza, calma, seduta all’ombra, sopra una coperta da picnic.
Si chiama Patty. Pamela in realtà, ma nessuno la chiama più così.
Sta riponendo gli avanzi nella borsa-frigo, con cura ossessiva, quando con la coda dell’occhio vede Mattia, il suo ragazzo, avvicinarsi a Rosco.
«Non slegarlo!» ordina, perentoria e stizzita.
Come nemmeno avesse parlato.
«Ma dài! Un po’ di libertà a questo povero cane!» risponde lui, un pizzico proiettivo.
È un attimo. E la punizione divina si scaglia su Mattia.
La dea protettrice delle fidanzate precisine e pignole non sente il caldo e fa il suo mestiere.
Tre secondi dopo esser stato sganciato dal guinzaglio, l’animale si vede sfrecciare davanti tre umani urlanti: due ragazzini ridenti inseguiti da uno più grande, tutto rabbia, minacce e tatuaggi. Il segnale per Rosco non può essere più chiaro: “Scatenati”. E Rosco obbedisce, lanciandosi all’inseguimento dei tre. Dietro di lui, sente le urla scomposte di Mattia e di Patty. Ma le interpreta come farebbe qualsiasi cane: “Dài, corri ancora più veloce”.
Ora premete di nuovo il tasto del riavvolgimento rapido del nastro.
Guardate oltre il picnic di Patty e i suoi... “due” cani, e troverete un sentiero; seguitelo a ritroso per duecento metri. Fermatevi di fronte a quella panchina dove sta il ragazzone tatuato che tra non molto proverà a correre più veloce di due mocciosi a cui puzza la vita.
Premete nuovamente PLAY.
Guardatelo adesso, quel ragazzone, tronfio e spocchioso, recitare la parte del capobranco, circondato dagli amici (suoi sudditi) e dalle femmine che se lo contendono.
Il maschio alfa deve sempre ricordare ai gregari chi comanda, far abbassare subito la cresta a chi osa sollevarla di un solo millimetro, a chi prende la seppur minima iniziativa, anche solo nella scelta dei discorsi da affrontare.
Fare il maschio alfa è un lavoraccio, ma qualcuno deve pur farlo. E Tyson (così amava farsi chiamare, soprattutto dopo che il suo più celebre omonimo era stato condannato alla galera per stupro, un paio di anni prima) svolge il suo mestiere con passione. Ogni suo movimento, ogni sua parola, ogni posto che sceglie di occupare, ogni suo modo di ostentare bicipiti e tatuaggi è studiato per rimarcare a tutti la sua posizione dominante.
Se ne sta davanti ai suoi leccapiedi e alle sue groupie, deliziando la platea di rutti e bestemmie, dando le spalle alla stradina, quando sente sulla schiena come una frustata, una scossa. I suoi sensi ci mettono qualche secondo a decodificare la sensazione e mandare al cervello l’informazione che una secchiata di acqua gelata lo ha appena preso in pieno, facendogli fare la figura del perfetto coglione davanti a tutti. Si gira di scatto e quello che vede sono due piccoli figli di puttana che gettano a terra un secchio vuoto e se la danno a gambe ridendo.
Lesa maestà!
Offesa da lavare col sangue!
Due teste saranno infilzate su di un bastone prima che il sole tramonti!
A Tyson si annebbia la vista. Poi si colora di rosso. Getta la sigaretta che stava fumando e si lancia dietro ai due condannati a morte. Ai due dead men running.
Riavvolgete nuovamente il nastro.
Tornate indietro e ripercorrete ancora la stradina a ritroso, fino a quando vedrete i due ragazzini riempire un secchio alla fontana d’acqua e preparare (ai danni del nostro ancora ignaro Tyson) uno di quegli scherzi che i due sono soliti architettare per ammazzare il tempo lungo e lento dei pomeriggi d’estate.
Fermiamoci un po’ qui e conosciamoli meglio.
Marco Garelli era un Bart Simpson rosa e undicenne. Una piccola peste impossibile da odiare. Una mosca fastidiosa di cui ti mancava il ronzio, quando non c’era. Una dolce, simpatica canaglia, che sapeva farsi perdonare qualsiasi cosa grazie a quel suo sorriso furfante e strappabaci. Croce e delizia di parenti e insegnanti.
Salvatore Songia veniva da una famiglia numerosa, il quinto di cinque fratelli. La madre badava ai figli, alla casa e al proprio alcolismo (non necessariamente in quest’ordine); il padre era disoccupato e viveva di lavori saltuari, di sussidi e di espedienti ai limiti della legalità (anche lui, non necessariamente in quest’ordine); i fratelli prendevano confidenza con tutte quante le fasi della devianza e della delinquenza giovanile, dalle canne ai piccoli furti, alle risse, fino allo spaccio (loro sì, seguendo questo preciso ordine).
A guardarli, Songio e Garo, parevano due gemelli.
Le tare dell’infanzia spesso impiegano anni a manifestarsi.
Agli occhi distratti del mondo, Songio e Garo erano uguali.
Era il mondo a essere diverso agli occhi dei due ragazzini.
Se si fosse potuto entrare nella mente dei due e guardare la realtà coi loro occhi, ci si sarebbe accorti dell’abisso che li separava.
Attraverso gli occhi di Garo si sarebbe visto un mondo colorato, un paese dei balocchi colmo di sorprese e ricompense, un luna park tutto da esplorare.
La stessa realtà, attraverso gli occhi di Songio, sarebbe apparsa invece con tinte un po’ più spente, a volte addirittura fosche. Piena di trappole e ostacoli.
La scuola, ad esempio, vista dagli occhi di Garo era una vacanza, un circo. Gli insegnanti erano animatori di un villaggio turistico. I compagni erano amici con cui scherzare e da cui ricevere conferme e approvazione. I giudizi negativi erano buffetti, anzi meglio, erano frasi tipo: “Suo figlio potrebbe avere risultati brillanti ma non si applica”, il che equivale un po’ a dire: “Suo figlio è brillante e intelligente, troppo per stare sui libri”, quindi, dopotutto, anche i giudizi negativi erano complimenti.
Quella medesima scuola, agli occhi di Songio, era un campo di battaglia minato. Gli insegnanti erano nemici pronti a sfruttare ogni tua debolezza per buttarti giù. I compagni erano spie, false e bugiarde, che avevano come unico obiettivo dimostrare di essere migliori di te, in tutto. I brutti voti, per lui, erano sentenze. Significavano: “Suo figlio non vale niente e non combinerà mai niente nella vita”.
Il Parco Sempione visto da Garo era un carnevale permanente, di gente buffa e folle. Una continua sfilata di carri su cui salire, prendere dolci e scendere.
Il Parco Sempione di Songio era invece un posto pericoloso.
E non era sempre la visione di Songio a essere quella sbagliata...
I due si erano conosciuti l’anno prima, a scuola.
Frequentavano lo stesso istituto ma venivano da due quartieri di Milano molto lontani, non solo geograficamente.
Songio viveva a Corvetto, Garo a Brera.
I più diversi percorsi, nati dalle più distanti origini, spesso portano a un medesimo punto.
Le famiglie di Songio e di Garo, nell’iscrivere i rispettivi figli in quella scuola, erano state mosse da motivazioni opposte e speculari.
Le medie di via Palermo erano una scuola pubblica che godevano di un’ottima reputazione.
Con quella scelta, la madre di Songio voleva provare a demandare a una scuola migliore di quella frequentata dagli altri suoi figli il compito di indirizzare l’ultimo nato su una via di...