Sono le dieci di sera. La mamma, alla finestra del soggiorno, guarda la macchina dall’altra parte della strada. La tiene d’occhio da un’ora. In casa le luci sono spente, così da fuori non possono vederla.
Io sono al piano di sotto, nella stanza dei giochi, e faccio una partita a Zombie Attack. Ho tolto il volume. Non voglio che la mamma lo sappia, anche se sono quasi certo che lo immagini. Più rimaniamo al buio e in silenzio, più mi vengono i brividi.
Mamma immagina le cose.
Ma se non fosse così? Mi concentro sugli zombie. Ancora silenzio.
«Probabilmente non è nulla» le grido.
«Sssh. Fa’ piano.»
«Sono nel seminterrato, mamma. Credi che da fuori qualcuno possa sentirmi?»
«Smettila, Cameron. Spegni quel gioco e va’ a letto.»
«Ma mamma…»
«Cameron.»
Da dietro un albero salta fuori uno zombie che mi stacca la testa dal collo. Grazie tante, mamma, tu sì che sai come aiutarmi a non perdere la concentrazione. Spengo il gioco e salgo in soggiorno.
La mamma ha il cellulare stretto in pugno. «Io chiamo la polizia.»
«Perché?» Mi sforzo di usare un tono normale. «Ci vorranno ore prima che arrivino. E quando saranno qui, chiunque sia là fuori se ne sarà già andato.»
«Non è “chiunque”. È lui, lo so.» Intanto fa il numero.
«Mamma, è una strada. La gente ci parcheggia, lì fuori.»
«Non in quartieri in cui non abita. Non di fronte alla stessa casa per tre sere di seguito. E poi non rimane in macchina. È solo questione di tempo prima che faccia qualcosa. Pronto, parlo con la polizia?»
Non riesco quasi a respirare.
Salgo al piano di sopra e mi lavo i denti mentre la mamma comunica nome e indirizzo a una persona che deve essere sorda.
Più le ripetono di calmarsi, più lei si arrabbia.
Va’ a letto, è tutto okay.
La stanza della mamma dà sulla strada. Senza fare rumore, vado alla sua finestra e sbircio la macchina. È al buio, all’ombra degli alberi dall’altra parte della via. C’è davvero qualcuno dentro?
E anche se ci fosse, che vuol dire? Potrebbe aspettare un amico.
Per tutta la sera?
Non è illegale starsene seduti in macchina.
Non è questo il punto.
Smettila. Non fare come lei.
L’auto si allontana come ha fatto ieri sera e la sera prima ancora. Vado in camera mia e mi infilo sotto le coperte. Due ore dopo arrivano gli agenti.
La mamma è fuori di sé. «Sono passate ore da quando vi ho telefonato! Avremmo potuto essere morti, ormai!»
«Ci scusi, signora. Questa sera abbiamo avuto un mucchio di chiamate. Ha preso il numero di targa?»
«No, non ho preso il numero di targa. Parcheggia al buio. Vorrebbe che uscissi e andassi a vedere mentre lui è seduto là fuori ad aspettarmi?»
Gli sbirri fanno altre domande stupide. Mi tappo le orecchie con le dita pregando che tutto finisca presto.
Gli agenti se ne vanno.
La mamma sbatte la porta.
In men che non si dica, me la ritrovo seduta sul letto, a stringermi la mano. «Cameron, tesoro. Dobbiamo andarcene. Prendi le tue cose.»
«Andarcene? Che cosa? Adesso?»
«Non so quanto tempo abbiamo.» Si alza e va in camera sua. «Potrebbe essere ovunque, dietro l’angolo, chi lo sa. Però tornerà, puoi starne certo. E la polizia arriverà troppo tardi.»
«Ma mamma…»
«Ci sono cose che non puoi capire, Cameron.»
Ah, davvero? Io capisco un mucchio di cose, mamma. Capisco che ho paura, tanto per cominciare. Ma perché? Perché lui ci ha rintracciati? O perché tu sei pazza?
I miei vestiti sono già in una valigia sotto il letto; la mamma me l’ha fatta preparare due giorni fa, tanto per andare sul sicuro. Nella macchina c’è posto per i nostri bagagli, qualche giacca, una scatola di stoviglie, un po’ di lenzuola e asciugamani e il televisore portatile. I nonni custodiranno il resto delle nostre cose nella loro cantina; non è molta roba, affittiamo sempre case ammobiliate. Mi piacerebbe andare dai nonni, ma la mamma dice che non possiamo. Perché quello è il primo posto in cui lui ci verrebbe a cercare.
Lui, il tizio in macchina: papà.
La mamma esce dal viale in retromarcia e imbocca la strada. Guardo la casa. Dopo un anno, cominciavo ad abituarmici. E anche alla città. Anzi, avevo cominciato a farmi degli amici a scuola. Ma ormai è una storia chiusa.
Ci allontaniamo lentamente, a fari spenti.
La mamma ha lasciato papà quando avevo otto anni. Dice che si era sempre comportato in modo strano. Ho vaghi ricordi, ma non sono sicuro che siano autentici, che cosa sia un sogno e che cosa invece io abbia sentito raccontare da lei ai nonni.
In ogni caso, ha voluto che andassimo a stare lontano; papà è venuto a trovarmi un paio di volte in incontri protetti in qualche struttura dei servizi sociali. Poi, improvvisamente, ci siamo trasferiti di nuovo. Secondo la mamma, papà ha fatto delle cose di cui lei mi parlerà quando sarò più grande.
Però… ehi, mamma, quando è “più grande”? Questo è il nostro quarto trasloco e non è cambiato niente, tranne che sono più confuso che mai.
La mamma dice che cambiare è una bella cosa: “Abbraccia il cambiamento” è il suo motto, o qualcosa del genere. Solo che per lei cambiare significa programmare dove scappare di nuovo prima ancora di avere finito di disfare i bagagli. Fin dal primo momento, perlustra le vie di fuga “in caso di emergenza”. Perciò non mi sorprende affatto che sappia dove stiamo andando.
Quando ci fermiamo per fare il pieno e prendere una ciambella, mi mostra sul portatile l’itinerario virtuale.
«È una casa perfetta. Più di mille chilometri di distanza, quanto basta per scomparire. L’affitto è un affare, ed è ammobiliata. Che cosa ne pensi?»
«Indovina.»
«Su, non fare così.»
«Mamma, è una fattoria!»
Fa finta di non sentirmi. «L’agente immobiliare dice che il proprietario vive nella fattoria vicina, se dovessimo avere dei problemi. Lavora la terra, ma sta alla larga dalla casa. Perciò avremo la sicurezza senza rinunciare alla privacy, non è fantastico? Pensa all’aria buona, al paesaggio. Pensa a quanto sarà divertente andare in esplorazione nel bosco oltre quei campi.»
«Ma come faccio a farmi degli amici in una fattoria?»
«Non molto lontano c’è una cittadina affacciata su un lago; lì ci sono un centro sportivo e una scuola nuova e…»
«Ma ti ascolti quando parli? Guarda che io non ho mica la patente. Dovrò prendere lo scuolabus per tornare a casa.»
«Un mucchio di ragazzi prendono il pulmino della scuola.»
Giro la testa dall’altra parte.
«Cameron. Devi fare uno sforzo.»
«D’accordo, lo farò. E nella vecchia fattoria quante mucche ha zio Tobia? Vorrà dire che farò amicizia con loro.»
La mamma chiude il portatile.
«Lo so che è dura, ma vivendo in campagna avremo meno occasioni di incontrare persone che conoscono persone che conoscono persone. E per lui sarà più difficile ficcanasare in giro.»
«Sì, certo, se lo dici tu.»
«Cameron, non guardarmi così, ti prego. Lo sai che cos’ha fatto su Facebook. La prudenza non è mai troppa.» Si tampona gli occhi col fazzoletto.
«Mamma, per favore, no.»
«Mi dispiace, non posso fare diversamente.»
Va a rinfrescarsi in bagno, prende un caffè da portare via e il nuovo giorno ci trova in viaggio. Cerco di stendermi sul sedile posteriore, ma non è così facile come quando ero bambino, perciò finisco per giocare ai videogiochi. La mamma dice che mi rovino gli occhi, con tutti questi sobbalzi, ma mi sono m...