Dedalus
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Dedalus

Ritratto dell'artista da giovane

  1. 266 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Dedalus

Ritratto dell'artista da giovane

Informazioni su questo libro

Romanzo a sfondo autobiografico dello scrittore irlandese (1882-1941). Come l'autore, il protagonista, Stephen Dedalus, è allievo dei gesuiti; come lui insorge contro l'ambiente e, a difesa della propria autonomia, sceglie "il silenzio, l'esilio, l'astuzia".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804424147
eBook ISBN
9788852062438

Capitolo quinto

Vuotò fino alle fecce la terza tazza di tè chiaro e incominciò a masticare le croste di pane abbrustolito sparpagliate accanto a lui, fissando la scura pozza del vasetto. Il liquido giallo era stato prosciugato come una pozzanghera, e le fecce che residuavano gli riportarono alla mente l’acqua scura color torba del bagno a Clongowes. La scatola delle polizze di pegno al suo fianco era stata appena frugata e con gesti oziosi egli prese l’una dopo l’altra, tra le dita unte, le bollette bianche e celesti, scarabocchiate, asciugate con sabbia, spiegazzate, tutte con il nome dei pignoranti, Daly o MacEvoy.
1 paio di stivaletti.
1 cappotto.
3 capi di biancheria.
1 paio di calzoni da uomo.
Poi le mise da parte e osservò cogitabondo il coperchio della scatola, picchiettato da macchie di pidocchi, e domandò vagamente:
«Di quanto va avanti l’orologio, adesso?»
Sua madre raddrizzò la sveglia ammaccata posata sul fianco al centro della mensola del caminetto, fino a mostrare il quadrante che indicava mezzogiorno meno un quarto, poi la collocò di nuovo sul fianco.
«È avanti di un’ora e venticinque» disse. «Sono le dieci e venti, adesso, questa è l’ora giusta. Dio sa che dovresti fare in modo di arrivare in tempo alle lezioni.»
«Vuota il lavandino, che possa lavarmi» disse Stephen.
«Katey, vuota il lavandino, che Stephen possa lavarsi.»
«Boody, vuota il lavandino, che Stephen possa lavarsi.»
«Non ne ho il tempo, devo andare a prendere l’indaco, vuotalo tu, Maggy.»
Quando il catino smaltato fu posto nel lavandino e il vecchio guanto per il bucato venne gettato accanto ad esso, Stephen lasciò che sua madre gli strofinasse il collo e gli frugasse le pieghe delle orecchie e le narici.
«Be’, è un brutto segno» ella disse «che uno studente universitario sia così sporco da costringere sua madre a lavarlo.»
«Ma ti fa piacere» rispose Stephen, calmo.
Si udì giungere dal piano di sopra un fischio lacerante e sua madre gli gettò un grembiule umido, dicendogli:
«Asciugati e sbrigati a uscire, per amor del cielo.»
Un secondo stridulo fischio, protratto con ira, indusse una delle ragazze ad avvicinarsi ai piedi della scala.
«Dì, babbo?»
«Quella pigra puttana di tuo fratello non è ancora uscito?»
«Sì, è uscito, babbo.»
«Davvero?»
«Hmmm!»
La ragazza tornò indietro facendogli segno di affrettarsi e di uscire senza rumore dalla porta del cortile. Stephen rise e disse:
«Ha una strana idea dei generi se crede che puttana sia maschile.»
«Ah, che scandalo, che vergogna, Stephen» disse sua madre. «Verrà il giorno che ti pentirai di aver messo piede in quel posto. Ti ha cambiato, lo so.»
«Buongiorno a tutti» disse Stephen, sorridendo e baciandosi la punta delle dita in segno d’addio.
Il vicolo dietro la fila di case era tutto un pantano e nel percorrerlo adagio, studiando il punto in cui mettere i piedi tra i cumuli di immondizie bagnate udì una monaca pazza urlare nel manicomio delle suore, di là dal muro.
«Gesù! Oh, Gesù! Gesù!»
Scuotendo iroso il capo si liberò le orecchie da quel suono e affrettò il passo, incespicando tra i marci rifiuti, il cuore già morso dal tormento dell’odio e del rancore. Il fischio di suo padre, i brontolii di sua madre, l’urlo di una demente invisibile, divennero per lui in quel momento altrettante voci che offendevano e minacciavano di umiliare l’orgoglio della sua gioventù. Ne scacciò anche gli echi dal cuore, con una maledizione. Ma, quando incominciò a percorrere il viale e sentì la grigia luce del mattino che gli scendeva intorno attraverso gli alberi gocciolanti, e aspirò lo strano odore selvatico delle foglie bagnate e della corteccia, il suo spirito si liberò dall’infelicità.
Gli alberi del viale saturi di pioggia evocavano in lui, come sempre, ricordi delle fanciulle e delle donne nei drammi di Gerhart Hauptmann; e la reminiscenza di quegli scialbi affanni e la fragranza che scendeva dai rami bagnati si associavano in uno stato d’animo di pacata felicità. La passeggiata mattutina attraverso la città aveva avuto inizio; ed egli previde che, non appena superato il quartiere fangoso di Fairview, avrebbe pensato alla prosa claustrale di Newman, dalle venature d’argento; che, percorrendo la North Strand Road e osservando distratto le vetrine dei negozi di alimentari, avrebbe ricordato il tetro umore di Guido Cavalcanti, e sorriso; che, passando davanti agli scalpellini di Baird, in piazza Talbot, si sarebbe sentito penetrare dallo spirito di Ibsen come da un vento tagliente, uno spirito di adolescente e capricciosa bellezza; che, nel passare dinanzi alla sudicia bottega di attrezzature nautiche, oltre il Liffey, avrebbe ripetuto la canzone di Ben Jonson che incomincia così:
Non mi sentivo più stanco dove giacevo.
La sua mente, stanca di cercare l’essenza della bellezza tra le parole spettrali di Aristotele o di san Tommaso d’Aquino, trovava spesso il modo di distrarsi tra le canzoni delicate degli elisabettiani. La sua mente, nella veste di un monaco dubbioso, si teneva spesso nell’ombra, sotto le finestre di quell’epoca, per udire la musica grave e beffarda dei liutisti, o le risate aperte delle cortigiane, finché un riso troppo sommesso, una frase, offuscata dal tempo, di libertinaggio e di falso umore, non ferivano il suo orgoglio da monaco e non lo inducevano ad allontanarsi dal nascondiglio.
L’erudizione alla quale si supponeva che Stephen dedicasse i suoi giorni assorto in meditazioni, al punto da essere stato sottratto ai compagni di gioventù, non ammontava ad altro che ad una gracile raccolta di sentenze tratte dalla poetica e dalla psicologia di Aristotele e ad una Synopsis Philosophiae Scholasticae ad mentem divi Thomae. Il suo pensiero era un crepuscolo di dubbi e di sfiducia in se stesso, illuminato a volte da lampi di intuizione, ma si trattava di lampi dal così vivo splendore che in quei momenti il mondo periva ai suoi piedi come se fosse stato consumato dal fuoco. E in seguito la lingua gli si inceppava ed egli incrociava gli sguardi altrui con occhi vacui perché sentiva che lo spirito della bellezza l’aveva rivestito come un mantello e che, per lo meno nelle fantasticherie, aveva conosciuto la nobiltà. Ma quando questo fuggevole orgoglio del silenzio non lo sosteneva più, era lieto di ritrovarsi nel fiume della comune esistenza e di continuare per la sua strada, impavido e a cuor leggero, tra lo squallore, lo strepito e l’ozio della città.
Accanto agli steccati lungo il canale, incontrò il tisico con la faccia da bambola e il cappello senza tesa che veniva verso di lui giù per la china del ponte a passetti brevi, bene abbottonato nel cappotto color cioccolata, tenendo l’ombrello chiuso ad una o due spanne da sé, come la bacchetta di un rabdomante. Devono essere le undici, pensò, e sbirciò in una latteria per vedere che ora fosse. L’orologio della latteria gli disse che mancavano cinque minuti alle cinque; ma, nel proseguire, udì una pendola non lontana eppure invisibile battere undici colpi con rapida precisione. Rise nell’udirla perché gli ricordò McCann; e gli parve di vederlo, figura tozza con una giubba da cacciatore e i calzoni al ginocchio e un pizzetto biondo, starsene in piedi investito dal vento all’angolo di Hopkins, e gli sembrò di sentirlo dire:
«Dedalus, sei un essere antisociale, chiuso in te stesso. Io no, invece. Sono democratico, io; e intendo adoprarmi e agire nell’interesse della libertà sociale di tutte le classi e dei due sessi dei futuri Stati Uniti d’Europa.»
Le undici! Allora era in ritardo anche per quella lezione. Che giorno era della settimana? Si fermò a un’edicola per leggere l’intestazione di un manifesto. Giovedì. Dalle dieci alle undici, inglese; dalle undici a mezzogiorno, francese; da mezzogiorno all’una, fisica. Immaginò dentro di sé la lezione d’inglese e si sentì, anche a una tal lontananza, irrequieto e incapace. Vide le teste dei compagni docili e chine mentre essi scarabocchiavano nei taccuini i particolari che veniva detto loro di annotare, definizioni nominali, definizioni essenziali, esempi, date di nascita o di morte, opere principali, una critica favorevole e una critica sfavorevole, l’una accanto all’altra. In quanto a lui, non stava a capo chino perché i suoi pensieri vagavano lontano e sia che osservasse intorno a sé i pochi studenti, sia che guardasse, fuori della finestra, i giardini desolati del Green, lo assaliva un odore malinconico d’umide cantine e di marciume. Un’altra testa oltre alla sua, dritto davanti a lui nei primi banchi, si teneva eretta al di sopra dei curvi compagni come il capo di un sacerdote che si rivolga senza umiltà al tabernacolo in nome degli umili fedeli intorno a sé. Come mai, quando pensava a Cranly, non riusciva in nessun caso a rappresentarsi dinanzi alla mente l’intera immagine del suo corpo, ma solo quella del capo e del viso? Anche in quel momento, contro il sipario grigio del mattino, se lo vedeva davanti come il fantasma di un sogno, come il viso d’una testa mozzata o d’una maschera funebre, con la fronte incoronata dai capelli neri, rigidi, dritti, come da una corona di ferro. Era un viso sacerdotale, sacerdotale per il pallore, per il naso dalle narici dilatate, per le ombre sotto gli occhi e lungo le mascelle, sacerdotale per quelle labbra lunghe ed esangui dal fievole sorriso; e Stephen, ricordando subito come avesse parlato a Cranly di tutti i tumulti e le inquietudini e le aspirazioni dell’anima sua, giorno per giorno, notte su notte, senza ottenere altra risposta all’infuori dell’ascolto attento e silenzioso dell’amico, sarebbe stato tentato di dirsi, se non avesse risentito nella memoria lo sguardo degli occhi scuri e femminei di lui, ch’era quello il viso di un sacerdote colpevole disposto ad ascoltare le confessioni dei penitenti senza avere il potere di assolverli.
Attraverso questa immagine intravvide una ignota e tenebrosa caverna di speculazioni, ma subito se ne distolse, sentendo che non era ancora giunta l’ora di entrarvi. Ma la cupa ombra notturna dell’indifferenza dell’amico parve diffondere nell’aria intorno a lui un’esalazione tenue e mortale. E si sorprese a leggere a caso parole, a destra e a sinistra, in preda a uno stolido stupore per il fatto che si erano così silenziosamente svuotate di ogni senso immediato, finché ogni banale insegna di negozio gli paralizzò la mente come la formula di un incantesimo e l’anima gli si inaridì sospirando di vecchiaia mentre procedeva in un vicolo tra cumuli di morto linguaggio....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. James Joyce
  4. Bibliografia
  5. DEDALUS
  6. Capitolo primo
  7. Capitolo secondo
  8. Capitolo terzo
  9. Capitolo quarto
  10. Capitolo quinto
  11. Copyright