Malombra
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Malombra

  1. 432 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Marina di Malombra giunge alla follia e all'omicidio in una villa dove aleggiano ossessionanti idee di reincarnazione. Il primo romanzo dello scrittore vicentino (1842-1911).

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804252597
eBook ISBN
9788852061325
Parte quarta

MALOMBRA

CAPITOLO PRIMO

LO SO, LO SO, EGLI È QUI ANCORA

Silla arrivò alle dieci e mezzo alla stazione di… Il mattino era caldo e ventoso. Le vette dei grandi abeti che nereggiavano lí presso in un giardino, i nitidi profili de’ monti lontani spiccavano nel cielo vitreo. Molti viaggiatori salivano sul treno, aspettati, salutati da’ loro conoscenti. In tutti i vagoni si chiacchierava, si rideva, si vociava. Quando la locomotiva ebbe trascinato via quegli strepiti con il soffio leonino, parve a Silla, nel silenzio vôto della strada, esser colto dalla stessa ferrea mano di cui otto mesi prima aveva immaginato, partendo in ferrovia di notte, che chiudesse inesorabilmente gli sportelli dei vagoni e portasse via tanti esseri umani nelle tenebre. Guardò il treno già lontano, bramò per un istante seguirne la fuga disperata.
Fuori della stazione c’era il giovinotto dell’altra volta con la sua cavallina.
«To’» diss’egli quando vide Silla «è il signore di quella sera. Andiamo al Palazzo, non è vero, signore?»
«Sei qui per me, tu?»
«È quello che vorrei sapere anch’io. Era di venire ieri mattina coi bagagli degli sposi, là del Palazzo. Vado a prenderli. Fronte indietro. Non si parte piú. E poi, ieri sera, io dormiva pacifico come un “tre lire”; mica ubbriaco, vede! È l’acqua che mi mette sonno, a me. Basta. Si sente un maledetto “toc-toc”; la donna (ce l’ho ancora quell’impiastro) la va ad aprire; cosa l’è, l’è quel Rico, quel figlio del giardiniere del Palazzo con un dispaccio di esser qui stamattina con la cavalla, vuoto, alle 10. Trovarmi vuoto a quest’ora, magari, è una di quelle asinate che io non ne faccio. Sicché…»
«Basta, basta. E il conte come sta?»
«Sta bene.»
«Come! Non è ammalato?»
«L’ho visto io l’altro giorno. Era un po’ giú, un po’ vecchio, un po’ brutto, un po’ gobbo, che so io! un po’ mezzo andato; ma stava bene. Se però non si è ammalato ieri.»
«Cosa t’hanno detto ieri mattina quando sei andato al Palazzo per i bagagli?»
«M’han detto niente del tutto. C’era il giardiniere al cancello, che quando mi ha visto venire da lontano, si è piantato in mezzo alla strada e ha cominciato a far di no col braccio a questa maniera qui e poi a fare a questa maniera qui che andassi fuori dei piedi; ed io allora ho fatto “piglia!” a quest’altra maniera qui, ho voltato la bestia e sono andato a fermarmi a Lecco. Son venuto poi a casa tardi e sono andato a letto subito.»
Intanto s’eran posti in viaggio e la cavalla trotterellava a capo chino, fiutando la strada, spazzando via con due noncuranti colpi di coda a destra e a sinistra le frustate tra serie e scherzose del padrone. Questi smise di parlare. Passavan gli alberi, le siepi fiorite. Casupole sedute nei campi si venivano alzando su tra i gelsi, guardavano, e poi, adagio adagio, si riacquattavano. I monti giravano, mutando aspetto, intorno alla strada serpeggiante. Le note cime imminenti al lago nascosto si affacciavano a Silla ora da destra ora da sinistra, gli crescevano sugli occhi, come le inquietudini febbrili nelle vene.
Il vetturino non poteva tacere a lungo.
«Ah» diss’egli «l’altra sera era bello trovarsi al Palazzo!»
«Perché?»
«Perché la signora donna Marina si è fatta sposa ieri mattina; non lo sa! Prima anzi la era di sposarsi l’altra sera e poi, lo so io! han come cambiato. Insomma l’altra sera ci fu una casa del diavolo.»
Egli continuò un pezzo a descrivere enfaticamente le luminarie, i fuochi, le musiche; ma Silla non ne ascoltò parola.
Ella era dunque già sposa davvero e gli scriveva in quel modo con quel nome! Ma la parola Cecilia a piè del telegramma aveva pur vita, voce, passione; gridava “ti amo; vieni!” Un giorno dopo le nozze! E il conte era veramente ammalato o no? Se non era ammalato, perché gli sposi non erano piú partiti? La sua fantasia si perdeva; egli trasaliva quando, in mezzo a dubbi d’ogni sorta, gli lampeggiava in mente con una tagliente nettezza di dettagli, la immagine del Palazzo, del giardino, del lago, quali li avrebbe veduti fra due ore, fra un’ora e tre quarti, fra un’ora e mezzo. Ne provava una contrazione nervosa, pensava chi avrebbe veduto prima, quali parole avrebbe udite, come si sarebbe comportato con lei. E se il conte non avesse nulla, se fosse un inganno! Ad ogni svolta della via tutti questi pensieri lo martellavano piú forte. Tratto tratto ne balzava fuori, rinnovando il proposito di andar ciecamente, a coscienza muta, là dove lo portassero la occulta violenza delle cose e le passioni sue libere, oh sí, libere finalmente dopo tante stolte lotte inutili che non gli avevano conciliato né gli uomini né Dio. Non era una strada quella striscia bianca, nitida innanzi a lui, fumante di polvere alle sue spalle; era una furiosa corrente che non risale, una corrente da seguire oramai nel piacere e nel dolore sino a qualunque abisso, tanto piú avidamente bramato quanto piú profondo. Attraverserebbe forse qualche ora splendida come quel magico paese lí, quel verde poema ariostesco di folli colline che dalle montagne saltavano al piano in disordine, portando in collo e sui fianchi ville, torri, giardini, inghirlandate di vigneti, curve intorno a laghetti pieni di cielo. E poi…
«Dica un po’ Lei, signore» saltò il vetturino «è vero che lo sposo ha questo gran mucchio di denari?»
«Non lo so.»
«Ma lo conosce, però, Lei?»
«No.»
«Vedo. Io l’ho visto un paio di volte, ma stando al mio poco talento di me, dev essere un… Che pazzia, un fior di ragazza come quella lí! Segno che i denari son tanti. E io devo esser nato pitocco! Ci promettono sempre il mondo di là, a noi; ma io ci ho una maledetta paura che sia ancor peggiore di questo. Se in paradiso non si hanno a trovare che preti, vecchie, bambini da mammella e straccioni, caro il mio signore, è proprio mica il mio sito. Ih!»
Egli tirò una frustata rabbiosa alla povera bestia che toccava allora una strada selciata fra due file di case, l’ultima borgata sulla via del Palazzo. Faceva caldo. La cavalla si fermò davanti a un’osteria e il suo padrone gridò che gli portassero il solito “calamaio e inchiostro”.
«E cosí» disse l’ostessa che venne a servirlo «è morto, eh?»
«Chi è morto?»
«To’, il signore, là del Palazzo.»
«Chi l’ha detto!» esclamò Silla, pallido.
«L’uomo della Cecchina gobba che è passato adesso, saranno cinque minuti. L’hanno mica incontrato?»
«Andiamo, presto!» disse Silla.
«Andiamo pure» rispose il vetturino rendendo il bicchiere all’ostessa «ma se è andato avanti lui, per me non gli corro dietro.»
«Presto, ti dico!»
L’altro si strinse nelle spalle e frustò la cavalla.
“Morto!” disse tra sé Silla. “E io che non ci pensavo nemmeno, a lui!”
Si rimproverò acerbamente questa dimenticanza di egoista, e gli riempí il cuore una dolorosa tenerezza per l’intemerato amico della madre sua, per il vecchio severo che gli aveva aperto le braccia in nome d’una memoria santa. Egli lo aveva offeso con la sua fuga occulta dal Palazzo; lo sapeva per una lettera ricevutane subito dopo, a Milano. Non ne provava rimorso, parendogli aver operato allora onestamente; ma pure gli era acerbo che il conte fosse sceso nella tomba con questo risentimento. Morto! Mezz’ora ancora e vedrebbe il Palazzo, tetro, solenne, pieno di freddo e di silenzio, circondato dalle austere montagne; come uno, a cui la morte portò via qualche persona cara, siede impietrato dal dolore fra gli amici muti. E le proprie avversità incomportabili, come le sentiva ora, nello stupore di quell’annuncio, stranamente attenuate! Una porta segreta gli si era spalancata davanti improvvisamente; non vi si vedeva che ombra; ma ne spirava un’aria fredda, piena di calma. Godere, soffrire, amare, quanto durano? Ove finiscono? E, sovra tutto, cosa ne resta?
Il cuore gli batteva forte forte quando dal colle dell’ultima salita cominciò a discendere verso il lago, che si vedeva luccicare in fondo alla valle tra le frondi dei vecchi castani.
A mezzo il viottolo che dalla strada provinciale mette al giardino c’era il Rico, grave, col berretto in mano.
«Dunque?» disse Silla.
«Sempre lo stesso» rispose il ragazzo.
«Ah, è vivo?»
«Signor sí, signor sí. Adesso ci son giú i signori dottori.»
«Quali dottori?»
«C’è il nostro, quello nuovo, e il signor padre Tosi. È arrivato da Lecco stamattina. Aspetti. Ci ho un biglietto per Lei dalla signora donna Marina. Lei non deve dire a nessuno che ha trovato me, e io ho da dir niente che ho trovato Lei.»
Silla prese il biglietto che non aveva indirizzo. Non poteva venir a capo d’aprirlo, tanto le mani tremavano. Finalmente lo aperse e vi lesse: “Silenzio sul telegramma”. Intanto il Rico mise un fischio acutissimo.
“Perché, silenzio?” pensò Silla, “e come è possibile?”
Ripose il biglietto e chiese al ragazzo della malattia del conte. Il conte non si sentiva bene da qualche tempo. La mattina del giorno prima era stato trovato a terra, fra il suo letto e l’uscio, svenuto, con la fisonomia stravolta. Soccorso, si era un po’ riavuto. Però la Giovanna diceva che non aveva piú ricuperato la parola né l’intelligenza. Era una testimonianza gravissima che colpí Silla. Se il conte non parlava né intendeva, come spiegare il telegramma di Cecilia? Poteva esserci stato un lucido intervallo. Ma se il telegramma era menzognero, si spiegava bene il biglietto.
«Chi c’è adesso nel Palazzo?» diss’egli.
«C’è il signor sposo, la sua signora mamma, la signora Catte, un signore vecchio di Venezia, che è poi uno dei signori compari, e un altro signore che è stato qui ancora quando c’era Lei.»
«Finotti?»
«Signor no.»
«Ferrieri?»
«Signor no.»
«Vezza?»
«Vezza, Vezza, signor sí, Vezza, che è poi l’altro compare.»
Il cancello del giardino era aperto. Il Rico si cacciò fra gli abeti e scomparve. Silla discese verso la scalinata.
Ed ecco i cipressi, la voce quieta del fonte, ecco laggiú, tra il verde vigneto e il verde lago scintillante di sole, i tetti neri del palazzo. La voce uguale diceva nel gran silenzio del mezzogiorno: “Lo so, lo so, l’ho saputo sempre, egli è qui ancora, non v’è stupore per l’acqua indifferente che passa senza posa. So la sua storia, so il suo destino e quello di Lei e quello dell’uomo che giace nella stanza buia, nell’ombra della morte. Lo so, lo so. So qual mistero hanno nel cuore colui che piú non parla e la donna che palpita, sola, con la fronte appoggiata all’ebano freddo, agli avori dello stipo antico. Questo non può turbare la mia pace. Va, va, discendi, confondi ad altre parole il suono delle tue, ad altre passioni il rivo torbido di quelle che gitta il tuo cuore, finché passino e si dileguino insieme. Tutto questo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Daniela Marcheschi
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. MALOMBRA
  7. PARTE PRIMA. Cecilia
  8. PARTE SECONDA. Il ventaglio rosso e nero
  9. PARTE TERZA. Un sogno di primavera
  10. PARTE QUARTA. Malombra
  11. Copyright